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Andrea Cassini
Il più umano degli dei in terra
14 dic 2021
14 dic 2021
La storia di Hakuho, il più grande lottatore di sumo di sempre.
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Andrea Cassini
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Alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, su un palcoscenico minore, quello dei pesi medi nella lotta libera, si consuma un evento che passa inosservato alle telecamere ma che riveste un'importanza unica per un piccolo angolo di mondo, una nazione che è una tasca chiusa al centro del continente eurasiatico, fatta di steppe dove sembra di sentire il rombo dei cavalli al galoppo, deserti, terre ghiacciate e uno sfondo di montagne invalicabili. La Mongolia conquista la sua prima medaglia olimpica; è un argento, vinto dal ventisettenne Jigjidiin Mönkhbat. In patria, Mönkhbat è già un eroe. Ha primeggiato per cinque volte consecutive nel Naadam, pittoresco, antichissimo e spietato festival estivo che culmina nello stadio nazionale di Ulan Bator dove gli uomini, vestiti con singolari costumi, si cimentano nel tiro con l'arco, nell'equitazione e, appunto, in un particolare tipo di lotta che, per i mongoli, è un patrimonio nazionale da custodire gelosamente, lontano dalle mani straniere.


 

Con le sue vittorie nel Naadam, Mönkhbat si è meritato un titolo che potremmo tradurre con “Titano”. Viene da Erdenesant, nel cuore gelido della steppa, un posto dove ci sono più capre che persone e dove si mangiano marmotte tarbagan arrosto – catturate in autunno, quando ingrassano per andare in letargo. Mönkhbat si sente invincibile. Per traslare le sue abilità dal combattimento in stile mongolo alla lotta libera olimpica, però, e competere con avversarsi più tecnici ed esperti, deve fare ricorso alla sua aggressività innata, al fisico portentoso, alla volontà di giocare sporco, se necessario. I mongoli chiamano tutto questo con una sola parola: spirito. E l'uomo, così ritengono, è una creatura di spirito. Dopo la medaglia olimpica, se possibile, Mönkhbat diventa ancora più celebre nel suo paese. Il governo gli garantisce un vitalizio, lo ricopre di onori e medaglie. La Mongolia dovrà aspettare quarant'anni per un'altra impresa olimpica di simile impatto: stavolta sarà la prima medaglia d'oro, quella di Naidangiin Tüvshinbayar nel judo, a Pechino 2008.


 


Il padre di Hakuhō, lo statuario Jigjidiin Mönkhbat, impegnato nel Naadam.


 

In quello stesso giro d'anni, però, la Mongolia aveva trovato un'altra disciplina – non olimpica s'intende – in cui dominare, e in terra straniera, per giunta. Dal 2000 a oggi, tutti gli yokozuna (lottatori del massimo grado) del sumo giapponese tranne uno sono stati mongoli. Tra questi, un uomo conosciuto con lo shikona (nome d'arte) di Hakuhō ma nato nel 1985 come Mönkhbatyn Davaajargal – figlio di Mönkhbat, questo significa il patronimico che accompagna il nome proprio – e che a quindici anni, portandosi dietro i suoi miseri 62 chili di peso, era volato in Giappone per seguire l'esempio del padre ampliando gli orizzonti sportivi del paese, e mostrare al mondo che i lottatori mongoli non hanno rivali, non importa quale sia la disciplina.


 

A fine settembre 2021, Hakuhō ha annunciato il ritiro. Chiude una carriera ventennale (di cui quattordici anni da yokozuna), con 1187 vittorie in incontri singoli, 45 tornei conquistati, e una striscia di  63 successi consecutivi – tutti record assoluti tranne l'ultimo che lo relega a un doloroso secondo posto, ma ne parleremo più avanti. Se il concetto di grandezza è particolarmente sfumato e relativo, in una disciplina così profondamente legata alla cultura prima che all'agonismo, si tratta di numeri che eleggono comunque Hakuhō a lottatore più vincente di ogni epoca – e nel sumo, si parte dal 1600. John Gunning, forse il maggior esperto di sumo occidentale, ha definito il suo lascito “ineguagliabile”. Stephen Stromberg del Washington Post lo ha battezzato “la più grande figura sportiva, forse di sempre”. Il GOAT, per usare un acronimo particolarmente di moda – e abbiamo avuto la fortuna di vederlo all'opera nella nostra era.


 

Oni e Kami


Al di là dei numeri e dei titoli, c'è una parte della storia che racconta qualcosa in più di Hakuhō, del sumo, della Mongolia, di padri e figli, dello spirito che rende tale un uomo. Un finale meno lieto di quello che Hakuhō, Mönkhbat e tutti noi avremmo meritato.


 

Siamo su un altro palcoscenico olimpico, la spettrale cerimonia di apertura di Tokyo 2020, stridente fin dal nome che finge di ignorare l'anno pandemico. Mentre gli atleti sfilavano nello stadio vuoto e la colonna sonora, ispirata dai videogiochi nipponici, esaltava un pubblico assente, gli appassionati di sumo seguivano l'evento con occhi attenti e una continua, ansiosa domanda: “quando arriva Hakuhō?” La cerimonia d'apertura è una celebrazione del paese ospitante ed era naturale aspettarsi una finestra sullo sport tradizionale del paese; magari un dohyō-iri, la caratteristica danza di origine shintoista con cui gli yokozuna benedicono tornei ed eventi pubblici, che del resto era stata già proposta a Tokyo 1968 e Nagano 1998.


 

Per Hakuhō, l'occasione avrebbe rivestito un'importanza speciale. Da piccolo girava per casa con la medaglia olimpica del padre al collo – una reliquia, un cimelio nazionale. Coccolatissimo figlio più giovane di una famiglia numerosa, aveva promesso al padre che si sarebbe esibito anche lui alle Olimpiadi, là dove tutto era cominciato. Dopo la morte di Mönkhbat, quella promessa era diventata un tributo alla memoria. E negli ultimi anni, con ogni record ormai frantumato e le articolazioni che chiedevano pietà, quella promessa era diventata l'unico obiettivo che spingeva Hakuhō a mettere ancora i piedi sul dohyō. “Mi ritirerei anche domani, se ascoltassi il mio corpo” aveva detto in un'intervista del 2017. “Aspetto soltanto le Olimpiadi di Tokyo. È l'unico sogno che mi resta: ma avrei preferito che si fossero tenute nel 2016”. Quel sogno era più importante dei numeri e dei record, perché era un sogno in egual misura mongolo e giapponese, sportivo e umano.


 


 

 

Hakuhō esegue il suo dohyō-iri


 

Nella danza del dohyō-iri, gli yokozuna indossano la tsuna o shimenawa, una variazione della corda bianca attorcigliata che è facile vedere in qualsiasi tempio shintoista. Ma nessun uomo la può indossare, eccetto gli yokozuna che assurgono a un vero e proprio stato semidivino. Con i forti schianti dei piedi a terra (chiamati shiko), il battere delle mani, le pose austere di braccia e busto, il lottatore allontana gli spiriti maligni oni e benedice la terra che calpesta. Nel 2011, dopo il tremendo terremoto del Tōhoku con conseguente tsunami, mentre i professionisti stranieri degli altri sport tornavano in patria, i lottatori di sumo restavano in Giappone e si spostavano nelle aree più colpite per assistere la popolazione, preparando e servendo agli sfollati il loro piatto caratteristico, il sostanzioso chankonabe. In quell'occasione, Hakuhō eseguì il dohyō-iri di fronte al mare, a pochi chilometri da Fukushima, fra le macerie dei palazzi e mentre il suolo lanciava ancora scosse di assestamento.


 

Dal giorno successivo, le scosse cessarono. Ricordando quel momento, con i brividi a fior di pelle, Hakuhō racconta di aver compreso la connessione invisibile ma inestricabile fra il sumo e il Giappone, e di aver ricevuto la prova che al mondo esistono cose invisibili – come gli dei shintoisti, i kami, dimenticati nel ritmo frenetico del mondo contemporaneo ma ancora nascosti nei fiumi, nei boschi, sulle montagne, o in ogni piccola finestra urbana in cui sorge un tempio. “Sono lo yokozuna di questo sport e di questo paese” disse quel giorno, e ricevette una lettera di ringraziamento dall'Imperatore in persona, che prima d'allora non aveva mai scritto a un privato cittadino. Eseguendo il dohyō-iri nella cerimonia di apertura di Tokyo 2020, Hakuhō avrebbe voluto benedire l'intero ecumene olimpico, unire da ambasciatore la terra e gli spiriti, i mari del Giappone e le steppe mongole, l'eredità dei padri con il futuro dei figli. Ma gli appassionati hanno atteso invano. Hakuhō non è comparso, nemmeno nella cerimonia di chiusura. La JSA, la federazione del sumo, era in rotta con il comitato olimpico; in aggiunta, probabilmente, i dirigenti non hanno voluto accontentare lo yokozuna come ultimo capriccio di un rapporto conflittuale, tormentato e controverso – a testimonianza del fatto, Hakuhō ha fatto di testa sua e alle Olimpiadi ha partecipato comunque, sebbene con un dimesso ruolo di spettatore ospite della delegazione di judo mongola, scatenando le ire della gelosa JSA. Perché il GOAT, l'atleta più forte, non sempre coincide con il più amato. Per il resto del mondo Hakuhō è sinonimo di sumo, ma il Giappone non l'ha mai pienamente accettato – troppo poco dignitoso, troppo poco giapponese, in fondo – e non gli ha mai del tutto restituito l'amore che Hakuhō ha versato. Come ha titolato la NHK, principale rete televisiva giapponese, nel documentario appena dedicatogli, la cavalcata da yokozuna di Hakuhō è riassumibile con “quattordici anni di solitudine”. Facciamo un passo indietro, e proviamo a capire perché.


 

Creatura di spirito


Se nemmeno tuo padre e tua madre credono nel tuo proposito, in genere, significa che le probabilità di successo sono davvero basse. Quando il futuro Hakuhō, che ancora per tutti si chiama Davaajargal, si trasferisce in Giappone per concludere le scuole superiori e addestrarsi nel sumo, ha 15 anni, poco più di 170 centimetri di altezza e 62 chili di peso. Oggi che è alto più di un metro e novanta e pesa quasi il triplo, non prova un briciolo di vergogna a raccontare le durissime difficoltà iniziali e invita sempre i giornalisti a mostrare le foto di quel ragazzo mingherlino; sono la dimostrazione che il talento non serve a niente senza l'impegno, sono la prova che lo spirito conta più della tecnica e del corpo.


 


Un giovanissimo e magrissimo Hakuhō.


 

Il padre, che di lotta se ne intendeva, lo trovava troppo gracile e poco cattivo, lo spronava a proseguire nel basket, suo sport preferito. La madre era una donna di scienza e cultura, lavorava come medico e veniva da una famiglia dai trascorsi nobili, fra ambasciatori e guerrieri che, si diceva, avevano ucciso dei lupi a mani nude – quella strana disciplina giapponese, il sumo, non doveva sembrarle particolarmente accattivante. Ma Davaajargal aveva già preso la sua decisione; di gruppo, di branco, come fanno spesso i ragazzi. Andava ogni estate a vedere il Naadam insieme agli amici, tra loro c'erano anche quelli che sarebbero diventati Asashōryū e Harumafuji, altri due yokozuna mongoli. Si cimentavano nelle gare, talvolta, poi mangiavano le mele con i soldi vinti dal fratello maggiore del futuro Asashōryū; sognavano il Giappone, perché il sumo era tecnicamente simile alla lotta mongola, ma si svolgeva in uno scenario più sacro e spettacolare, che li avrebbe portati nel cuore antico di un paese globalizzato. C'era una timida scuola di sumo mongolo che stava attecchendo in Giappone, ma le premesse non erano buone. I sei ragazzi che si erano trasferiti oltremare prima di Hakuhō erano scappati due volte in patria tramite l'ambasciata mongola; una volta gli allenatori li avevano riacciuffati in aeroporto, la seconda erano volati addirittura in Mongolia per riprenderseli – ma solo i più talentuosi. Davaajargal rischia di seguire il loro esempio. L'impatto è brutale. Atterra a Ōsaka, che ha un aeroporto quasi sospeso sul mare; lui non aveva mai visto nessuna distesa che non fosse d'erba, non si spiega quell'odore strano, salato, e ha paura di affondare. Il periodo di prova passa rapidamente, due mesi di anonimato. È talmente piccolo e magro che non può neanche allenarsi con gli altri; lo chiamano “fagiolino”, e gli suggeriscono di pensare a una carriera di parrucchiere. Alla scadenza del termine, nessuna palestra (heya) ha mostrato interesse per lui e Davaajargal ha già comprato il biglietto di ritorno per la Mongolia, insieme al whisky per il padre e al cioccolato per la madre. Il sogno sportivo resta, ma sceglierà un'altra disciplina, uno sport olimpico magari, per seguire più da vicino le orme del padre. Poi, la sera prima di partire, durante la cena d'addio organizzata insieme ai compagni, una telefonata che pare scritta in un copione gli cambia la vita. L'allenatore (oyakata) Miyagino lo vuole con sé nella sua omonima Miyagino-beya: crede che lo spirito combattivo del figlio d'arte verrà fuori, un giorno, ma prima lo mette all'ingrasso come una vacca.


 


Hakuhō all'apice della sua forma fisica.


 

Per i primi tempi, Davaajargal è come un ospite in palestra. Non può allenarsi, deve solo mangiare e dormire. Mangiare significa buttare giù ciotole e ciotole di chankonabe, ricco stufato di carne e verdure con riso, anche se gli viene da vomitare. Dormire significa restare sul futon anche diciotto ore di fila, per far sedimentare il cibo. Prende diciotto chili in un mese. Quando raggiunge altezza e peso minimi per allenarsi, la vacanza finisce. Gli addestramenti sono brutali. Schiantato sull'argilla del dohyō da uomini adulti ed enormi, deve continuare a lottare finché non riesce più a rialzarsi; a quel punto gli gettano addosso una secchiata d'acqua, per svegliarlo, e se non basta gli infilano in bocca una manciata di sale. Lo portano oltre il limite, in una “zona” dove hai due alternative: o crolli, o lasci che il tuo spirito prenda il controllo del corpo e lo porti dove non avrebbe mai osato spingersi. Sono giornate lunghissime, di dolore fisico e lacrime, in un paese straniero dall'etichetta rigida e di cui sta faticosamente imparando la lingua, ma sono anche giornate colme di una gioia purissima, quella della crescita. Dopo ogni pasto, dopo ogni risveglio, dopo ogni allenamento, Davaajargal si sente più grande e più forte. Lo è davvero. A soli 16 anni debutta nelle competizioni, e scalerà rapidamente i ranghi fino a raggiungere nel gennaio 2004 la divisione chiamata jūryō, la seconda dall'alto e la prima che elargisce uno stipendio agli atleti.


 


Con i genitori, a inizio carriera.


 

È tempo di procurarsi un nome d'arte, lo shikona che contraddistingue ogni lottatore. La sua palestra propone di fondere i nomi di due campioni del passato: Kashiwado e il grandissimo yokozuna Taihō, attivo negli anni Sessanta. La JSA però non è d'accordo, lo ritiene un nome troppo altisonante per un ragazzino mongolo che verosimilmente farà poca strada, e allora, lavorando di taglia e cuci con i kanji, si toglie l'ideogramma ki, “albero”, ma si mantiene ha, “bianco”, per la carnagione pallida. Il risultato è Hakuhō (白鵬), che richiama anche il peng, gigantesco uccello della mitologia cinese. Con il senno di poi, la JSA avrebbe volentieri fatto marcia indietro concedendo al futuro yokozuna un nome più radicato nella storia. Eppure, l'unicità di un campione sta anche in questo; costruirsi una storia talmente forte da diventare un'icona che non ha più bisogno di spiegazioni e confronti con il passato, perché ogni debito è stato ripagato e ogni paragone è stato superato.


 

Quattordici anni di solitudine


Vedere combattere Hakuhō, persino negli ultimi anni di attività, resta un'esperienza unica, capace di trasmettere un senso di gravità, di attrazione e di inesorabilità che ha pochi eguali nelle discipline di combattimento, e probabilmente negli sport toto genere. Brian Phillips, in un memorabile e struggente articolo su Grantland nato dal suo viaggio in Giappone sulle tracce di Yukio Mishima, descriveva i lottatori di sumo, visti dai gradini più alti delle tribune, come dei corpi attraversati da “crepacci”, le pieghe di grasso sopra i voluminosi muscoli che creavano scanalature simili ad antichi canyon scavati da fiumi. Hakuhō appare se possibile come un massiccio montuoso ancora più antico; affusolato da venti e piogge che l'hanno ridotto al suo nucleo di pietra, un masso liscio e perfetto, privo di fenditure e appigli. Ventre e petto morbidi, per assorbire l'impatto avversario; fianchi potenti e mobili, sensibili, mossi da gambe stabili come tronchi, per spingere e non cedere; spalle cesellate e braccia come tenaglie, per ribaltare ogni leva a suo vantaggio. Vederlo lottare dal vivo, poi, avvolti dai secoli di storia che occupano gli spalti della Kokugikan di Tokyo insieme agli spettatori, deve dare l'impressione di assistere a una cerimonia incapsulata fuori dal tempo, a un duello simbolico che si svolge in un Giappone ideale e in un'epoca aurea – se il sumo resta sempre uguale a se stesso, ostinato nelle sue tradizioni, non è per un facile e nostalgico passatismo, ma per realizzare un'astrazione virtuosa che, almeno nelle due settimane di un torneo, sia più bella e nobile del mondo in cui viviamo. Gli yokozuna, lo accennavamo, sono considerati alla stregua di semidivinità nel pantheon shintoista, e Hakuhō sfoggia una magnitudine divina quando sale sul dohyō. Negli interminabili rituali che precedono l'incontro vero e proprio, mentre gli atleti gettano il sale, si scaldano con gli shiko e prendono posizione, Hakuhō tiene la testa alta e il petto in fuori, non perde mai di vista il suo rivale; vuole essere l'ultimo ad abbassare gli occhi, come dimostrazione di superiorità, ma vuole anche esplorare ogni dettaglio nell'espressione dell'avversario. Dal ritmo con cui respira, racconta Hakuhō, può già intuire che strategia adotterà il rivale; se gli tremano le pupille, è sicuro che non partirà all'attacco. Perciò, il rituale che precede l'incontro è esso stesso parte dell'incontro. E quando Hakuhō torna al suo angolo per l'ultima volta prima del via ufficiale, con l'iconica postura acquattata, felpata, minacciosa, per asciugarsi il sudore e riconquistare poi il centro del dohyō, sembra a tutti gli effetti una tigre pronta a sbranare un'inerme preda: se vuoi battermi puoi farlo, dice all'avversario senza pronunciare parole, perché nessun dio è veramente immortale, ma dovrai versare tutto il tuo spirito sull'argilla, perché io non mi risparmierò.


 

E tuttavia, Hakuhō è al tempo stesso il più umano fra gli dei scesi in terra. L'etichetta vuole che i lottatori di sumo siano inespressivi, serafici, quasi robotici nell'attenersi al cerimoniale: devono trasformarsi in statue non appena finisce l'incontro, per offrirsi immobili alla venerazione del pubblico. Per Hakuhō, invece, è il contrario. Appena l'arbitro, chiamato gyōji, grida il suo caratteristico “via”, hakkeyoi, Hakuhō si getta nell'incontro con l'animosità di un pugile o di un artista marziale misto. Festeggia le vittorie con sorrisi sornioni, o in casi speciali anche con il pugno alzato o grida barbare, riserva occhiatacce e qualche spintone omaggio agli avversari, incita il pubblico, interagisce con esso; contesta le decisioni degli arbitri, talvolta, e non risparmia le parole in conferenza stampa quando c'è da criticare la federazione. Proprio come suo padre, è disposto a giocare le sue carte con cattiveria, perché la vittoria è più importante dell'etichetta; il che non significa affatto giocare sporco o cercare scorciatoie, tutt'altro, bensì amare così tanto una disciplina da dedicarvisi con tutto lo spirito. Sono atteggiamenti normalissimi nella maggioranza degli sport, ma che diventano una rarità nell'ingessato mondo del sumo. È anche per questo che gli appassionati internazionali sono particolarmente affezionati ad Hakuhō, ne hanno accettato e ammirato subito la grandezza riconoscendo nella sua condotta “sregolata” sul dohyō quella fame spietata, ma anche genuina e onesta, che soltanto i grandi campioni hanno – come Michael Jordan, altro GOAT a cui, non a caso, Hakuhō ha dedicato un'intera parete della propria casa con foto e poster. I giapponesi, invece, sembrano non averlo mai amato, e forse capito, fino in fondo. Durante la sua ascesa è raramente stato il più tifato dalla folla, e nel suo periodo d'oro suscitava nel pubblico la classica antipatia di chi è troppo forte, del villain che domina la concorrenza.


 

Ci sono anche altri motivi però, meno espliciti e più profondi. Il primo ce lo raccontano direttamente le parole di Hakuhō. Tra i momenti che gli sono rimasti impressi con più affetto, non manca mai di citare quella volta in cui stava per combattere contro Kotoōshū, di nazionalità bulgara, e dagli spalti qualcuno gli gridò: “non farti battere da quello straniero!”. Commosso, perché Hakuhō amava il Giappone quanto la sua madre patria e aspirava a sentirsi accettato come parte di esso, ripensò alla lotta tradizionale mongola, che non ammetteva lottatori esteri, e al simile ostracismo degli appassionati nipponici che negli anni Novanta avevano subito il dominio di una generazione di lottatori hawaiani, come Akebono, e adesso assistevano al cambio del guardia con la nuova, agguerrita scuola mongola: qualcosa, forse, in quell'apertura internazionale, stava cambiando. In realtà, l'episodio restò perlopiù un caso isolato, perché in assenza di lottatori giapponesi di spicco (e il regno di Hakuhō coincise con il periodo più povero di successi per i giapponesi) il pubblico di casa si disaffezionò alla disciplina. I lottatori mongoli erano un problema, dentro e fuori dal dohyō. Nella lotta, il loro killer instinct era tale da scavalcare la consueta “dignità” (hinkaku) richiesta a uno yokozuna. Asashōryū possedeva un'aggressività furiosa, un'apparenza arrogante e uno stile brutale. Hakuhō amava aprire gli incontri con una combinazione schiaffo-gomito, perfettamente legale eppure mal vista, e all'occorrenza adoperava tattiche “astute” ma considerate indegne per uno yokozuna. In un recente scontro con Shōdai, lo ha provocato partendo da una posizione arretratissima, ai limiti del terreno di gara, per poi attaccarlo in carica con una raffica di schiaffi. In un curioso incontro contro Tochiozan del 2015 adoperò una rarissima tecnica chiamata nekodamashi, ossia “ingannare il gatto”, e difatti Hakuhō racconta divertito di aver escogitato la mossa proprio dopo essersi imbattuto in un gatto per strada: battendo le mani a mezz'aria davanti al viso dell'avversario lo spinge a chiudere gli occhi e, in quell'attimo di sorpresa, gli fa perdere l'equilibrio.


 


 

 

Come ingannare un gatto – e farla franca.


 

E soprattutto, la famigerata henka – un movimento simile a quello del torero che si scansa di lato per evitare il toro in corsa, che se eseguita correttamente fa capitombolare a terra l'avversario senza quasi bisogno di toccarlo. È in genere adoperata come ultima carta da lottatori che si sentono inferiori o hanno un problema fisico, ed è considerata massimamente indecorosa. Hakuhō, come se godesse ad attirarsi più critiche, la sfoderò contro Kisenosato, suo acerrimo rivale e lottatore giapponese più amato dell'epoca, in un tesissimo duello nel 2012. Ma la sua motivazione era squisitamente tattica, mentale. Dopo due false partenze, in cui Kisenosato aveva caricato Hakuhō prima del via ricevendo in cambio due spintoni ben poco educati, i nervi erano a fior di pelle: Hakuhō mantenne la calma e capì che il suo avversario, invece, stava andando fuori giri. Contro un toro imbizzarrito, quindi, quale strategia migliore che scansarsi e lasciarlo cadere da solo?


 


 

 

Hakuhō batte Kisenosato con rabbia e astuzia.


 

Ma i problemi con i lottatori mongoli, dicevamo, nascevano soprattutto fuori dal ring. Sia Harumafuji sia Asashōryū, gli altri due yokozuna mongoli contemporanei di Hakuhō, furono costretti a un ritiro prematuro, avvolto da scandali e malumori, tra falsi infortuni, risse in luoghi pubblici e legami più o meno limpidi con la criminalità organizzata. I primi anni Duemila furono un autentico periodo nero per il sumo anche a causa dell'esplosione della bolla delle scommesse, con decine di lottatori squalificati e un mondo sommerso che veniva a galla; mentre gli spalti si svuotavano e le dirette televisive perdevano share, capitava spesso che le prime file intorno al dohyō venissero occupate da vistosi membri della yakuza. L'amore di Hakuhō per il sumo sopravvisse a tutto questo. Difese come poteva i suoi connazionali, ma non si lasciò mai trascinare in condotte pericolose fuori dal dohyō. Perseguì nel suo modo strettamente personale di intendere la disciplina, ma senza mai eccedere e mantenendosi fedele a tutti gli impegni istituzionali di uno yokozuna. Visse a tutti gli effetti quattordici anni di solitudine, in alcuni dei quali sembrava essere l'unico ad avere ancora a cuore il sumo. Lo traghettò fuori dalle sabbie mobili, offrendo alla federazione un fulcro intorno a cui ripulire la propria immagine pubblica; salvò il sumo sull'orlo del baratro, quando nel torneo più triste e tormentato di sempre, senza premi né coppa dell'imperatore in palio come reazione allo scandalo sulle scommesse del 2010, Hakuhō vinse e pianse, e quelle lacrime versate sulla sacra argilla del dohyō scacciarono i demoni e riportarono il sumo nel cuore della gente.


 

Dieci anni dopo, molti, forse troppi, lo hanno dimenticato; pochi, forse troppo pochi, lo hanno ringraziato.


 

Lupo bianco, cielo blu


L'ultimo Hakuhō, dicevamo, eccelleva in malizia ed esperienza, ma a differenza di altri lottatori che puntavano tutto sulla forza fisica della gioventù, per poi trovarsi ad annaspare nel prosieguo della carriera, ha sempre avuto uno stile tecnico e prudente. Dietro quella gravità divina con cui sembra piantare la propria bandiera ogni volta che sale sul dohyō, c'è una sicurezza che nasce non dalla spacconeria o dall'incoscienza, bensì da una fiducia scientifica nei propri mezzi e nell'ardore del proprio spirito. Hakuhō si considera un lottatore composto “all'80% dallo spirito e al 20% dalla tecnica”, ma quella percentuale di tecnica è raffinata alla perfezione. Hakuhō possiede la mente e la memoria di uno scacchista; nelle interviste, è capace di richiamare con sorprendente affidabilità incontri risalenti a dieci anni prima (ne combatte quasi cento l'anno) e descrivere con precisione sequenze di mosse racchiuse in poche frazioni di secondo. Ed è altrettanto frequente sentirlo citare episodi antichi, o snocciolare elementi di storia del sumo e del Giappone: fin dai primi anni di carriera, la sua passione per la disciplina si era concretizzata in una conoscenza enciclopedica.


 

Ci sono stati anni in cui Hakuhō era chiaramente l'uomo fisicamente più potente della massima divisione, chiamata makuuchi, e sembrava vincere gli incontri per inerzia, ma la straordinaria longevità della sua carriera è stata dovuta anche a una preparazione paziente e lungimirante, che si fondava sulle debolezze e cercava di trasformarle in punti di forza. I primi anni di allenamento, racconta, consistettero nel consolidare i fondamentali come se fossero la base di un albero; dal tronco poi, se fosse stato bravo, avrebbero potuto spuntare innumerevoli rami. Chiedendo consiglio al padre, ad esempio, il giovane Hakuhō si lamentava delle gambe poco esplosive, dei polpacci troppo sottili per la sua stazza: sarebbero rimasti sempre così, ma il padre gli spiegò che la forza pura è raramente la qualità più importante. “Chi ha le gambe più sottili tra un cavallo e un bue?” chiese al figlio. “E chi ha le gambe più veloci e scattanti, tra questi due animali?” Il gioco di piedi è sempre stata una caratteristica peculiare nello stile di Hakuhō, unita alla capacità di dominare gli spazi del dohyō evadendo da situazioni pericolose.


 

Quando vedeva i suoi coetanei puntare sul cosiddetto stile oshi-sumo, mirato a spingere l'avversario fuori dal dohyō anziché proiettarlo a terra, Hakuhō si accorgeva di non possedere la loro stessa esplosività, la stessa durezza. “Il mio corpo era morbido come quello di una donna” scherza oggi, ma lo intende come tutt'altro che un difetto, perché aveva capito ben presto che il sumo è una questione di leve ed equilibri, e a volte è opportuno “cedere il petto”, assorbire l'impatto dell'avversario, lasciare che si sfoghi e si sfianchi. Da lì il suo stile paziente, un classico yotsu-sumo che mira ad agguantare il mawashi dell'avversario (la caratteristica “cintura”) per tenerlo sotto controllo e rovesciarlo a terra. A conferma delle sue doti tecniche complete, Hakuhō sostiene di non avere una tecnica vincente (kimarite) preferita, e i numeri sostengono la sua tesi: la soluzione più comune (yorikiri, che è del resto la più diffusa nel sumo di oggi e consiste nello “accompagnare” l'avversario di peso fuori dai limiti di gara) si attesta solo al 28%, mentre fra le proiezioni spicca il 15% della tecnica chiamata uwatenage, una presa con la mano esterna.


 

Forte di queste basi, Hakuhō sbarca nella massima divisione, makuuchi, nel maggio 2004 a soli 19 anni e ottiene subito buoni risultati. Non è l'unico giovane in rampa di lancio e ci sono altrettanti lottatori esperti con cui confrontarsi, ma se Hakuhō crede davvero di poter andare fino in fondo è perché ha un esempio da seguire come un faro. Asashōryū, al secolo Dolgorsürengiin Dagvadorj, è di cinque anni più grande di Hakuhō ed è l'apripista per la grande scuola mongola di sumo. Il suo stile sul dohyō rispecchia la fierezza del nome, che significa “drago blu del mattino”, ma vi abbina una prepotenza fisica senza pari (era capace di sollevare 200 chilogrammi alla

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