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Dario Pergolizzi
È più importante l'allenatore o i giocatori?
28 feb 2024
28 feb 2024
Un dibattito antico che si è riacceso negli ultimi giorni.
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Dario Pergolizzi
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IMAGO / Antonio Balasco
(foto) IMAGO / Antonio Balasco
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Anche se siamo nel 2024 e il dibattito intorno al calcio si è notevolmente arricchito, mi sembra che nell’archetipica discussione su cosa pesi di più in una squadra tra allenatori e giocatori siamo ancora fermi a strutture rigide e sostanzialmente superate. Le posizioni, in questo dibattito, sono piuttosto manichee tra chi pensa che l’allenatore sia sostanzialmente ininfluente nelle sorti di una squadra e chi crede invece che la totalità del gioco e dei risultati siano diretta emanazione del suo tecnico, come se le squadre di calcio fossero solo delle estensioni di un’entità superiore, l’allenatore per l’appunto.

È una visione abbastanza radicata. Ce ne possiamo accorgere, per esempio, dalle frequenti analogie con il gioco degli scacchi, utilizzate spesso dai commentatori, ma anche tranquillamente da chi opera nel calcio, persino ad alti livelli. Il problema è che la similitudine è fuorviante: i calciatori non sono pedine e le dinamiche del gioco del calcio sono molto più complesse (non complicate) rispetto a quelle presenti nel gioco degli scacchi, in cui ci sono 2 giocatori, 16 pezzi (ciascuno con la sua possibilità di movimento prestabilita) e 64 caselle. Un set relativamente finito, numerabile, di possibilità d’azione e movimento all’interno di vincoli ben precisi. Praticamente il contrario del calcio, che invece coinvolge molte individualità, all’interno di un ambiente di gioco più libero e dunque imprevedibile, nel quale la sequenzialità lineare applicabile negli scacchi, il “pensare n mosse avanti”, non si può applicare.

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Lo scorso 25 febbraio, durante la trasmissione Sky Calcio Club, è stato Fabio Caressa a tornare indirettamente sull’argomento parlando delle responsabilità del recente periodo negativo del Napoli. «Diamo, in Italia, troppa importanza agli allenatori, noi pensiamo che dipenda tutto dagli allenatori ma guardate il Napoli», ha detto Caressa, «gli allenatori sono importantissimi, ma non così vitali. Noi parliamo solo di allenatori, parliamo solo di tattica. Mio figlio […] non gliene frega niente del 4-3-3, del movimento, mio figlio vuole l’uno contro uno, il calcio va sull’uno contro uno; sapete perché? Perché i videogiochi vanno sull’uno contro uno. […] Ormai non è più il videogioco che copia il calcio, ma è quasi il calcio che deve copiare il videogioco. […] Noi parliamo sempre come se i giocatori fossero quelli del biliardino, che c’è l’allenatore fuori che li muove col pomello: ma non è così».

Certo, si tratta di spunti “buttati lì”, poco argomentati, giusto per introdurre un argomento di attualità specifico, cioè il momento del Napoli, e magari lo stesso Caressa ha voluto estremizzare scientemente per creare un dibattito con i compagni di trasmissione, anche solo per il gusto della discussione. Non voglio puntare il dito su Caressa, che ha semplicemente toccato involontariamente un argomento che mi sta a cuore, permettendomi di approfondirlo nuovamente. Che considerazione abbiamo del ruolo dell’allenatore, della sua funzione pratica? Qual è il suo peso sui risultati di una squadra? Davvero la sua importanza va contrapposta a quella dei giocatori? In definitiva: cosa significa allenare?

Se volevate una metafora immediata del dibattito.

C’è un fondo di verità nelle parole di Caressa, quando dice che parliamo troppo spesso del ruolo dell’allenatore come se il calcio fosse il biliardino. Considerandolo, cioè, come un manovratore esterno che sposta le pedine o che, nel caso di questa similitudine, gira i pomelli, come un vero e proprio deus ex machina. Sarebbe però fuorviante suggerire con questo che la funzione dell’allenatore sia solo quella della selezione della formazione, del sistema di gioco, dell’impostazione top-down di un atteggiamento tattico. E qui arriviamo alla radice del problema, che va al di là delle parole di Caressa e mi sembra sia radicato nel modo in cui si parla di calcio e dunque di allenatori non solo nei bar e nelle redazioni, ma anche all’interno del calcio stesso. Non parlo per sentito dire, l'ho sentito con le mie orecchie facendo io stesso l'allenatore, anche se in terza categoria. D'altra parte, è un dibattito antico quasi quanto il calcio stesso. Alcuni anni fa, per esempio, Marcello Lippi aveva dichiarato che «c’è un luogo comune che vorrei sfatare: quello dell’allenatore che in una squadra conta non più del 10-20%». «Sono tutti d’accordo nel riconoscere i meriti delle società e la bravura dei giocatori: ma tanti, troppi, sottovalutano il ruolo del tecnico. E sbagliano», aveva continuato Lippi «Si dovrebbe almeno tener conto che, oggi più di prima, oltre alla competenza tecnico-tattica occorre anche "gestire" i calciatori».

Il problema, mi sembra, è che vediamo gli allenatori attraverso le stesse lenti equivoche con cui vediamo la figura dell’insegnante a scuola: una persona depositaria della conoscenza, detenuta rigorosamente sotto forma di fredde nozioni, che ha il compito di travasarla nelle menti di chi studia (o gioca, nel nostro caso). Come se non stessimo parlando di guide, di sostegni, di insegnanti nel senso etimologico (in-segnare, imprimere dei segni) per lo sviluppo della persona e del giocatore, ma di serbatoi con dei rubinetti per riempire dei contenitori vuoti.

Ma i giocatori non sono contenitori vuoti, le squadre non sono contenitori vuoti e, soprattutto, citando l'allenatore spagnolo Oscar Cano, il gioco non è nulla di per sé, se non ciò che i giocatori producono. In parole povere, il senso pratico del “gioco” non è una cosa che viene appresa teoricamente e poi riprodotta, ma una cosa che emerge dall’attività stessa. Espressioni come “capire il gioco” o “saper giocare” possono essere fuorvianti nel momento in cui intendono il giocatore come un mero applicatore di teorie e di scelte ritenute “corrette” in astratto, in assoluto. Il calciatore è un interprete, certamente - un interprete di situazioni e di scelte, ma queste avvengono all’interno di un contesto unico, caotico e ogni volta nuovo. Un contesto che per sua natura non ammette un approccio diverso dalla conoscenza pratica di chi gioca.

James Gibson, psicologo statunitense pioniere nello studio della percezione umana durante il Novecento, teorizzò una distinzione resa in inglese in knowledge “of” e knowledge “about”, una differenza lessicale forse difficile da rendere con una traduzione diretta e puntuale, ma che in sostanza riguarda la distanza tra l’avere una conoscenza “verbale” e una conoscenza “incorporata” di qualcosa. Per fare un esempio calcistico, immaginate la distinzione tra lo scrivere su una lavagna i movimenti e le posizioni in campo, e la loro esecuzione tecnica, fatta di movimenti effettivi, relazioni di gioco, interpretazioni in diretta. Non si tratta di conoscenze antitetiche, ma complementari, poiché le competenze teoriche esterne possono essere utili per approfondire questioni relative al gioco ex-situ, e a loro volta queste competenze teoriche si basano strettamente sull’osservazione delle competenze pratiche, quindi anche e soprattutto sulle interpretazioni spontanee. A dire il vero, forse la distinzione tra competenza teorica e pratica è poco precisa nei confronti di entrambe, proprio perché le due si autoalimentano e viaggiano di pari passo. Per questo trovo più affascinante la distinzione originale in lingua inglese.

Tornando alla questione principale: sappiamo dall’esperienza diretta di partitelle per strada e duelli con gli amici che sarà sempre possibile dare vita a una qualche forma di gioco del calcio senza la presenza di allenatori, pubblico, arbitri, giornalisti, stadi, persino porte e linee del campo regolamentari, ma non sarà mai possibile farlo senza i giocatori. Per fare un’altra analogia con gli scacchi: sarebbe come immaginare una scacchiera con tutte le pedine posizionate, ma senza giocatori a muoverle. Se proprio volessimo forzare il parallelo, la controparte calcistica più vicina ai giocatori di scacchi non sarebbero gli allenatori, ma i calciatori stessi.

È sicuramente vero, quindi, che la figura dell’allenatore non è “essenziale” per l’esistenza del gioco. Allo stesso tempo, però, è vero che se è emersa è stato perché la necessità di una figura che potesse facilitare l’interpretazione di chi gioca, ampliarne le prospettive, aiutare le squadre a parlare lingue comuni è stata avvertita con sempre maggiore forza nel corso della storia. È proprio perché i protagonisti del gioco sono i giocatori che il ruolo dell’allenatore è così importante e al tempo stesso delicato. L'ha posta in maniera ancora più chiara Daniele De Rossi, dopo la vittoria della Roma per 3-2 sul Torino grazie a una tripletta di Paulo Dybala, rispondendo a una domanda precisa: «La giocata individuale del campione conta più dell’organizzazione?». «La qualità del calciatore ti fa vincere o perdere le partite, ti fa vincere i campionati ed è la cosa più importante», ha risposto De Rossi, «ma se non fosse importante tutto il resto, non vedremmo mai squadre come il Bologna quarto in classifica [...]. La giocata del campione a volte esce fuori perché la squadra è organizzata. Se Dybala prende 10 volte la palla dal limite dell’area e fa quel gol, è anche perché la squadra è organizzata. Se non lo è, magari la prende due volte solamente. [...] Se faccio questo tipo di lavoro è perché penso che l’allenatore sia molto importante, l’ho sempre pensato. Ed è molto importante se poi l’allenatore stesso si rende conto che i giocatori che ha sono più importanti di lui: l’unico obiettivo è allenarli bene, farli stare in forma, gestire bene il gruppo, metterli nelle condizioni di essere felici in campo e farli giocare nelle posizioni più congeniali con le giocate più congeniali».

Facendo parte a sua volta del sistema squadra/società, l’allenatore ha inevitabilmente un’influenza sugli altri elementi dell’insieme, e ne condiziona il comportamento, in qualsiasi direzione possibile. La consapevolezza di questo potere fa camminare gli allenatori in equilibrio su una voragine a strapiombo tirati da una parte dal rispetto della libertà individuale in un gioco di collettivo, e dall’altra dall’uso delle costrizioni che ha a disposizione per far emergere nuovi comportamenti spontanei.

L’allenatore incide anche quando non incide. Anche non decidere è decidere, nel calcio, poiché la neutralità non esiste: lasciare libertà di auto organizzazione assoluta a una squadra è una scelta radicale tanto quanto cercare di controllare il gioco in ogni suo aspetto. La bravura di chi allena sta proprio nel trovare i vincoli più adatti, i linguaggi più efficaci da utilizzare affinché il talento pratico possa fiorire e le squadre abbiano una direzione stabile verso cui tendere, anche quando le cose non stanno funzionando. Anche se la gerarchia appare invertita, è l’allenatore che lavora per i suoi giocatori, e non viceversa. L’allenatore (con lo staff) deve fare il lavoro “sporco” per facilitare chi gioca. Dallo studio degli avversari a quello della propria squadra: tutto ciò serve solo a sintetizzare la mole di informazioni per metterle al servizio, implicitamente o esplicitamente, di chi deve scendere in campo.

L’allenatore che riesce a raggiungere questi obiettivi ha semplicemente fatto il suo lavoro al meglio. I risultati, in tutto questo, sono solo delle conseguenze eventuali di tutto ciò, e non sempre rispecchiano la bontà del suo lavoro, semplicemente perché a volte le cose funzionano solo fino a un certo punto, o non funzionano affatto. Nel calcio, come in tutto il resto d’altra parte, è impossibile controllare davvero tutto: sembra una banalità ma bisogna fare uno sforzo ogni volta per ricordarcelo.

Tutto questo non significa deresponsabilizzare il ruolo dell’allenatore completamente, abbandonarsi al fatalismo totale. Ma avere una prospettiva diversa sulla sua funzione all’interno di una squadra, questo sì. Riflettere cioè sugli strumenti a sua disposizione, sulle abilità necessarie per svolgere questo lavoro al meglio, che non è facile come sembra. Bisogna arricchirsi di competenze e rimanere con la mente più aperta possibile, e al tempo stesso aiutare i veri protagonisti del gioco ad avere delle certezze, in un gioco che per sua natura le certezze tende a demolirle.

Non sembra roba da poco, vero?

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