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Nikhil Jha
Il più grande ciclista di cui non avete mai sentito parlare
05 mag 2020
05 mag 2020
La storia di Arthur August Zimmerman.
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Nikhil Jha
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La Pinacoteca Brera di Milano e il Kunstsammlung di Düsseldorf posseggono due quadri di una testa di toro mozzata ad opera di Pablo Picasso – la prima più giovane di circa un mese rispetto alla seconda, più astratta – poste su un tavolo di fronte ad una finestra, chiusa. Entrambe le opere hanno lo scopo di trasmettere allo spettatore una sensazione di “angosciante isolamento”. Picasso avrebbe potuto usare qualsiasi altro animale, ma l’artista spagnolo aveva una particolare attrazione verso la figura del toro, che peraltro appare anche nella sua Guernica.


 

Picasso non si limitò però a dipingere teste di toro: nel 1943 ne costruì una, oggi conservata nel museo a lui dedicato a Parigi. Lo fece partendo dal sellino di una bicicletta – usato come muso, con la parte anteriore a simulare il naso – cui l’artista intersecò, immaginandolo come delle corna, il manubrio della stessa. Era il concetto di metamorfosi ad appassionare l’artista, che così raccontava la sua opera, dopo aver trasformato la bicicletta in toro: “[…] mi auguro che un’altra metamorfosi si compia in senso contrario. Supponete che la mia testa di toro sia gettata tra i rottami. Un giorno forse un  ragazzo, vedendola, si dirà: «Ecco qualcosa che potrebbe servire molto bene come manubrio per la mia bicicletta…». Così una doppia metamorfosi si sarà compiuta” (sconsigliamo comunque al lettore di provarci).


 

Guardando l’opera ci si accorge subito che si tratta di bici d’epoca: la forma e il materiale di sellino e manubrio appartengono all’epoca del ciclismo pioneristico, spesso definito eroico, quello delle corse estenuanti e sovrumane, dei campioni che oggi vengono visti come i padri fondatori del mondo delle due ruote di oggi.


 

Coppi, Bartali, Binda: nomi di giganti che sono arrivati lucidi ed intatti a noi. Ma alle loro spalle, cronologicamente parlando, c’è un sottobosco che non emerge al di fuori delle nicchie di appassionati, fatto di atleti capaci di gesta irripetibili, campioni forse ancor più grandi di quelli che ricordiamo oggi. Tra questi, sicuramente, c’è Arthur August Zimmerman, americano, che rientra agevolmente nel novero dei più grandi ciclisti di tutti i tempi, sebbene non ne abbiamo mai letto, né sentito parlare.


 


Zimmy, così veniva soprannominato, nasce nel 1869 a Camden, città del New Jersey. Le sue qualità atletiche emergono sin da subito, e il giovane Arthur si distingue nel salto in alto, nel salto in lungo, nel salto triplo. Comincia correre in bicicletta a 17 anni – altrettanti ne dovevano ancora passare per poter veder correre il primo Tour de France. Che poi, chiamarla bicicletta è cosa grossa. Quello su cui Zimmerman comincia a correre è un biciclo, quel mostro che si vede talvolta nelle foto dall’Ottocento con una ruota anteriore enorme (55 pollici, ossia 1,43 m di diametro), al di sopra della quale deve salire l’atleta, e una posteriore piccolissima. Passa poi al biciclo Star, che inverte l’ordine delle ruote (molto piccola davanti, molto grande dietro) e permette al guidatore di pedalare non secondo il classico movimento circolare delle gambe, ma attraverso un moto perpendicolare al terreno in cui i due pedali sono in realtà disarticolati – permettendo di portarli entrambi su insieme, assicurando così una partenza sprint.



Se tornassi indietro nel tempo e dovessi spiegare il significato della parola flexare ad un uomo del 1890, salirei su uno Star.


 

Sul suolo natale inizia a dominare, accompagnato dal soprannome di the Jersey Skeeter, “il moscerino del Jersey” – in Europa diventerà anche lo Yankee volante. Nel 1890 balza agli onori della cronaca battendo Willie Windle, altro campione a stelle e strisce, fino ad allora il migliore della categoria, conquistando il primo titolo di campione statunitense. Ma la sfida più intrigante, all’epoca, è quella tra biciclette e cavalli.


 

Non è solo un confronto tra mezzi di locomozione: si tratta di un duello filosofico, tra la carne ed il sangue dell’arte equestre e la freddezza della bicicletta, percepita – ironia della storia – come simbolo della crescente meccanizzazione della società. Negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, biciclette e cavalli si sfidano sia a cronometro sia uno a fianco dell’altro – le cronache citano Lizzie Bayer come il primo essere umano in bici a sfidare un cavallo, nel 1880 a Sacramento. Le gare strettamente ciclistiche si svolgono peraltro spesso direttamente negli ippodromi, già attrezzati a tutte le evenienze. Zimmerman è tra i primi (proprio insieme a Windle) ad abbassare il record del miglio detenuto da un cavallo, Nancy Hanks - un successo che sembra poter proiettare la specie umana nel futuro. Negli States il ciclismo di quel tempo compete per fama e seguito con il baseball, mentre l’altro sport americano per eccellenza, il football, è ancora ben al di là da venire.


 

Zimmy inizierà presto a dominare il giovane mondo ciclistico del tempo e il suo talento da sprinter non conosce rivali. Nel 1892 nasce la ICA, Internation Cycling Association (antesignana dell’odierna UCI), e a Chicago vengono organizzati i primi campionati del mondo su pista ufficiali di sempre, anche se l’ostacolo dell’Oceano Atlantico priva la competizione di tanti tra i migliori atleti europei dell’epoca. Come è costume a cavallo dei due secoli, però, si decide di assegnare le competizioni sportive a luoghi dove sono in programma grandi esposizioni e fiere capaci di attirare pubblico, come accadrà poi per le Olimpiadi del 1900 a Parigi e per quelle del 1904 a Saint Louis. E a Chicago Zim domina, vincendo lo sprint e la 10 km senza scia, due delle tre categorie a disposizione.


 

Zimmerman corre nell’epoca del grande dibattito tra professionismo e dilettantismo, categoria in cui lui formalmente partecipa e che viene sostenuta dalla ICA, sospinta dalla britannica National Cyclists’ Union (NCU), la federazione più importante al suo interno e principale promotrice della sua nascita. Zimmy svolge infatti tutta la prima parte di carriera da amatore e questo, nella pratica, significa non poter ricevere premi in denaro per le sue prestazioni. Questo non significa, però, che non ci fossero premi. Nel 1892 Zimmerman ritorna dall’Inghilterra, dove ha vinto 75 delle 100 gare disputate, con 10 secondi posti e 5 terzi posti, trionfando nei campionati britannici di 1, 5, 25 e 50 miglia, con un corredo notevole, composto da ventisette valigie di cinghiale, una rastrelliera di fucili, servizi di porcellana, spille d’oro, poltrone, orologi, persino una pariglia di cavalli bianchi. Le fonti discordano sulle quantità dei vari beni, ma ci siamo capiti.


 

L’anno dopo è ancora pesca grossa, sempre in Europa: diamanti, anelli, biciclette, medaglie, coppe d’oro, bronzi, parures per camicia, altri orologi, pendole, servizi da tè, altri fucili, cappotti, pianoforti. Alcuni citano anche stalloni, carri, un lotto di terreno cittadino. Altri scrivono addirittura di una bara – quando si dice sistemarsi.


 


L'unico strappo alla regola che si concede Zimmerman è quello di gareggiare con biciclette sponsorizzate, e questo sì che fa storcere il naso alla NCU, che gli impedisce di gareggiare su suolo britannico in quanto evidentemente professionista. Si accontenterà di continuare il suo tour in Irlanda e in Francia. Vince 101 delle 110 gare disputate: centouno su centodieci.


 

A Parigi diventa un idolo: c’è chi parla di 45.000 spettatori che accorrono al Velo d’Hiv – in pieno centro – per assistere al suo folle mulinare. Copre il chilometro in 1’9.2”(oggi il record del mondo è di 56.303”), ma sulle distanze più brevi è ancora più formidabile. Le cronache dell’epoca raccontano che riusciva a percorrere i 200 metri in 12 secondi, con un rapporto che sviluppava appena 5,33 metri. È accettato che andasse sopra le 120 pedalate al minuto, si dice pure 187. Probabilmente si tratta di numeri gonfiati, spinti dalla fama che Zimmy portava con sé.


 

Nel 1894, altra tournée, sempre in Europa. Lo si vede anche in Italia, all’Arena di Verona e alle Cascine di Firenze. Finalmente si parla apertamente di soldi: 25mila franchi una volta raggiunte le coste del Vecchio Continente, 1.250 franchi per ogni apparizione (più il 30% degli incassi), corse non superiori a 10 miglia nelle 16 settimane previste. In caso di gare non disputate causa maltempo, una garanzia di 25mila franchi depositati presso la Banca di Francia.


 

Quello di Zimmerman è un vero e proprio tour globale. Salperà addirittura per l’Australia, invitato dalla moglie del governatore dello stato di Victoria, per una dimostrazione di ciclismo nella sala da ballo del palazzo. Poi ricomincia a viaggiare: a Sidney si radunano 27mila persone a vederlo, migliaia accorrono anche ad Adelaide. Arthur August Zimmerman, partito da una cittadina del New Jersey, all’alba del decimo anno di carriera ha conquistato il mondo intero.


 

Nel 1896 dice addio alle corse in bicicletta, se si escludono apparizioni sporadiche e inviti qua e là, anche Oltreoceano. Si fionda nell’imprenditoria, conduce il resto della sua vita senza scossoni. E così lentamente il mondo si dimentica del fu fenomeno planetario, nato troppo presto perché anche le forme più rudimentali di trasmissione e collezione dell’informazione potessero catturarne la grandezza.


 

Ma a quei tempi come Zimmy non c’era nessuno, e l’appellativo di “nuovo Zimmerman” era un onore da custodire stretto. Tra chi ci era particolarmente affezionato un altro corridore di poco più giovane, Major Taylor, formidabile pistard afroamericano, costretto a una vita difficile negli Stati Uniti tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Ma questa è davvero un’altra storia.


 

 

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