In un ambiente in cui l’espressione “more than athletes” è molto di moda, Luigi Datome non fa certo eccezione. Al di là della connotazione spesso politicizzata del termine, infatti, l’immagine che restituisce a chi lo ascolta è quella di un (grande) giocatore prestato a tempo determinato all’esclusività del basket, con una vasta gamma di interessi e passioni fuori dal campo che reclamano spazio. Nel frattempo, è diventato capitano della Nazionale italiana di basket ed uno dei cestisti più rappresentativi e vincenti dell’ultima generazione azzurra, con anche un trascorso in NBA.
«Sembro un alieno: uno sportivo che legge», scherza, discostandosi dall’appellativo di “filosofo” che non di rado gli viene accostato, ma che «sarebbe davvero una prova della decadenza di questi tempi». Potreste esservi imbattuti nelle sue recensioni di libri su Instagram, ad esempio, o magari lo avete visto con la chitarra in mano al fianco di Patti Smith. La scorsa settimana, ha presentato Il Gigante del Campetto, un libro fumetto per ragazzi edito da Mondadori (per Il Battello a Vapore) e supportato dalla creatività interattiva di EXPlus.
“Lo so, ragazzi, molti di voi mi vedono solo come un adulto che gioca a basket in televisione”, si legge nell’introduzione. “Ma vi svelo un segreto: anch’io ho avuto la vostra stessa età, ed è stato proprio allora che ho mosso i primi passi nei campetti e mi sono innamorato della pallacanestro. Ecco perché mi sono emozionato moltissimo quando mi hanno proposto di scrivere un libro per voi giovani sportivi”.
Il Gigante del Campetto è una testimonianza, l’ennesima, dell’indole creativa e della vena artistica di Datome, ma anche della sua sensibilità verso le problematiche dei più giovani. «È una storia che al Gigi bambino sarebbe piaciuta molto», racconta, spiegando quello che si augura di trasmettere ai suoi lettori: l’idea di sport, a qualsiasi livello, come veicolo di valori ed esempi positivi, e come ambiente inclusivo in cui «ognuno può diventare qualcuno». Un messaggio che i due protagonisti del racconto, “una ragazza e un ragazzo cicciottello”, raccolgono grazie agli insegnamenti di quel Gigante barbuto che incontrano al campetto, che chiaramente è l’alter ego di Datome («atletismo a parte, quella è tutta fiction!»).
In occasione della presentazione del suo libro, abbiamo fatto una chiacchierata con l’ala dell’Olimpia Milano e della Nazionale, sfogliando le pagine del suo lungo viaggio, umano e cestistico, tra Italia, Stati Uniti e Turchia. L’altra opera, oltre a Il Gigante del Campetto, di cui Datome è orgogliosamente protagonista.
Prima di tutto: chi è stato il Gigante della tua carriera?
In generale, ho avuto la fortuna di incontrare tanti punti di riferimento, tanti begli esempi da vivere nella quotidianità. Che poi gli esempi positivi non sono per forza di cose più grandi di te: Bogdan Bogdanovic, per dirne uno, è più giovane di me, ma era un punto di riferimento per l’impegno e l’etica del lavoro. Tutti abbiamo la possibilità di vedere i buoni e i cattivi esempi: poi sta a noi scegliere da che parte andare.
A proposito di valori ed esempi: negli ultimi giorni si è parlato molto, e lo hai fatto anche tu durante la presentazione del libro, del “fallimento” dei Bucks e delle parole di Giannis Antetokounmpo.
Il mancato obiettivo sportivo non ha niente a che vedere con il fallimento umano. Bisogna accettare la sconfitta, analizzarla e fare di tutto per migliorare. Come faranno a Milwaukee, ovviamente. Forse basterebbe trovare una parola che rispetto a “fallimento” renda più merito all’impegno sportivo a quel livello.
La mentalità per cui solo chi vince può parlare, può dire la sua ed essere ascoltato, è una questione culturale, quindi è difficile da cambiare. Io nel mio piccolo cerco sempre di far capire l’importanza di competere, di essere lì ogni anno. In carriera ho vinto 13 titoli, e ne vado fiero, ma nello sport si può perdere.
Se dovessi descrivere il Gigi Datome giocatore con un personaggio di un fumetto, chi sceglieresti?
Il prossimo autunno compirai 36 anni. Pensi mai al ritiro?
Questa sicurezza ha mai vacillato?
E alla vita dopo il ritiro, ci pensi? Ti spaventa il risveglio del giorno dopo, o dopo tutti questi anni lo stai aspettando?
Prima di tutto, però, il finale di stagione con l’Olimpia e poi il Mondiale. Con la Nazionale ci sarai?
E Paolo Banchero, ci sarà?
Ti ha impressionato la sua stagione da rookie in NBA?
E della prima stagione NBA di Simone Fontecchio, cosa dici?
Passando alla tua, di avventura in NBA: a posteriori, come valuti la tua esperienza – umana e professionale – a Detroit? Provavi più frustrazione per il poco spazio a disposizione, o orgoglio per aver raggiunto quel livello?
Io ero e sono orgoglioso di essere arrivato lì e di esserci stato due anni, ma ancora di più lo sono di essere stato pronto quando ho avuto la mia vera opportunità, a Boston. Prima ci sono stati mesi e mesi di lavoro individuale, perché a Detroit, specialmente con Stan Van Gundy, non giocavo mai. Quindi il mio lavoro era prettamente individuale, e grazie a quel lavoro sono stato pronto a dare una mano a Boston a raggiungere i playoff. È un bel ricordo, sono stati due anni belli, perché far parte del mondo NBA è davvero figo per un giocatore. E mi hanno temprato molto, mi hanno lasciato grande forza e sicurezza in me stesso.
Hai giocato anche qualche partita in D-League. Come ti sentivi in quel contesto?
Poi, nel 2015, lo scambio che ti ha portato ai Celtics. Ci racconti il giorno della trade?
Poco dopo, comunque, mi squilla ancora il telefono, era Jerebko. “Jonas, alla fine vado a Boston”, “Eh, lo so… vengo anche io!”. Pazzesco: non sapevamo niente fino a un quarto d’ora prima. Anche quello fa parte del concetto di business della NBA, e venendo dalla cultura europea è strano. Da noi non può succedere: se una squadra non ti vuole più può decidere di tagliarti, quindi di pagarti e lasciarti libero di andare dove vuoi, ma non può spedirti altrove. È stata molto sballottante come cosa, ma devi stare al gioco se vuoi resistere in NBA.
Alla fine è arrivata anche la chiamata di Danny Ainge, “Benvenuto nei Celtics”… figo, sì, ma pensavo: porca miseria, mi fate giocare? Perché non sai cosa può succedere, avrebbero anche potuto tagliarmi per firmare qualcun altro. Tra l’altro, quello stesso giorno a Boston era arrivato Isaiah Thomas, c’erano stati tanti movimenti nella lega nelle ultime ore. Fai le valigie, parti, lasci la casa, raggiungi la squadra che era a Los Angeles… una confusione totale, insomma. È stato un momento veramente destabilizzante.
Rimanendo sulle differenze tra Europa e USA: pensi che sia diverso il modo in cui si guarda alle statistiche?
E tu che rapporto hai con le statistiche?
Adesso la vedo così, e in generale credo che non veniamo più giudicati soltanto in base alle statistiche: ci sono talmente tante cose importanti nella pallacanestro che non finiscono nelle statistiche, che non ha più senso pensare di strappare contratti migliori perché si hanno statistiche migliori.
Ci racconti il tuo rapporto – si fa per dire – con coach Van Gundy?
E Brad Stevens, invece?
Una volta mi ha preso da parte e mi ha spiegato perché aveva dato più spazio a Gerald Wallace: io ero a posto, non mi lamentavo, ma lui ci teneva a tenere tutti sul pezzo. E questa è una cosa che ho apprezzato molto, perché per un allenatore è facile fare il simpatico, ridere e scherzare con le stelle della squadra, con quelli che giocano di più, ma penso che siano molto più umani e intelligenti gli allenatori che si prendono cura anche di quelli che non giocano. Perché poi le squadre, soprattutto in stagioni così lunghe, hanno davvero bisogno di tutti.
Finita la stagione a Boston, poi, è arrivata la chiamata di Obradovic, che ti prometteva un ruolo importante al Fenerbahce. È stata una scelta difficile tornare da questa parte dell’Oceano?
Dall’altra parte invece c’era il Fener, una squadra ambiziosa che gioca per vincere, a Istanbul, in cui avrei avuto un ruolo importante. Io non avevo ancora vinto niente in carriera da protagonista, e poi c’era Obradovic, e anche Gherardini, che è stato molto importante… Mi sono detto: “Sai che c’è? Ci ho provato, ma evidentemente non sono così bravo da avere un ruolo fisso e garantito in una squadra NBA”.
Volevo tornare a giocare per vincere, avendo delle responsabilità. È stata una scelta veramente a cuor leggero. Da qui può essere sembrato un “fallimento”, tornando al discorso di prima, ma io non l’ho mai vissuto così. L’ho preso come un cambiamento di direzione. Potevo continuare a combattere in NBA per trovare spazio, oppure tornare e vivere da protagonista l’Eurolega ad alto livello, cosa che non avevo mai fatto. Sono strafelice di quella scelta: la rifarei tutte le volte.
E all’offerta di Memphis di cui parlavi, ci ripensi?
A Memphis avrei avuto una vera possibilità, magari. E quello che mi offrivano era un ottimo contratto, 11 milioni in due anni. Però io ho sempre fatto scelte di pancia, cercando situazioni che mi gratificassero e contesti giusti per me, e a Istanbul avevo legato con tutti, era un gruppo veramente super. Sentivo di voler rimanere e alla fine sono contento della scelta che ho fatto.
Ci racconti lo “shock” dei giocatori europei che passano da una sponda all’altra dell’Oceano?
Ti ha cambiato l’esperienza negli Stati Uniti?
Alla fine, sei tornato in Italia nel 2020, dopo sette anni. Come hai ritrovato il nostro campionato?
La domanda che ti hanno fatto tutti: esiste un aneddoto che ancora non conosciamo su Zelimir Obradovic?
Per chiudere: l’allenatore con cui berresti una birra stasera, quello che vorresti ti avesse allenato più a lungo, e quello con cui ti sei trovato meno bene.