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Andrea Lamperti
Più di un atleta, intervista a Luigi Datome
18 mag 2023
18 mag 2023
Abbiamo parlato con l’ala dell’Olimpia Milano del suo passato NBA e del suo presente in Europa.
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Andrea Lamperti
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IMAGO / Gruppo LiveMedia
(foto) IMAGO / Gruppo LiveMedia
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In un ambiente in cui l’espressione “more than athletes” è molto di moda, Luigi Datome non fa certo eccezione. Al di là della connotazione spesso politicizzata del termine, infatti, l’immagine che restituisce a chi lo ascolta è quella di un (grande) giocatore prestato a tempo determinato all’esclusività del basket, con una vasta gamma di interessi e passioni fuori dal campo che reclamano spazio. Nel frattempo, è diventato capitano della Nazionale italiana di basket ed uno dei cestisti più rappresentativi e vincenti dell’ultima generazione azzurra, con anche un trascorso in NBA.«Sembro un alieno: uno sportivo che legge», scherza, discostandosi dall’appellativo di “filosofo” che non di rado gli viene accostato, ma che «sarebbe davvero una prova della decadenza di questi tempi». Potreste esservi imbattuti nelle sue recensioni di libri su Instagram, ad esempio, o magari lo avete visto con la chitarra in mano al fianco di Patti Smith. La scorsa settimana, ha presentato Il Gigante del Campetto, un libro fumetto per ragazzi edito da Mondadori (per Il Battello a Vapore) e supportato dalla creatività interattiva di EXPlus."Lo so, ragazzi, molti di voi mi vedono solo come un adulto che gioca a basket in televisione”, si legge nell’introduzione. “Ma vi svelo un segreto: anch’io ho avuto la vostra stessa età, ed è stato proprio allora che ho mosso i primi passi nei campetti e mi sono innamorato della pallacanestro. Ecco perché mi sono emozionato moltissimo quando mi hanno proposto di scrivere un libro per voi giovani sportivi”.Il Gigante del Campetto è una testimonianza, l’ennesima, dell’indole creativa e della vena artistica di Datome, ma anche della sua sensibilità verso le problematiche dei più giovani. «È una storia che al Gigi bambino sarebbe piaciuta molto», racconta, spiegando quello che si augura di trasmettere ai suoi lettori: l’idea di sport, a qualsiasi livello, come veicolo di valori ed esempi positivi, e come ambiente inclusivo in cui «ognuno può diventare qualcuno». Un messaggio che i due protagonisti del racconto, "una ragazza e un ragazzo cicciottello”, raccolgono grazie agli insegnamenti di quel Gigante barbuto che incontrano al campetto, che chiaramente è l’alter ego di Datome («atletismo a parte, quella è tutta fiction!»).In occasione della presentazione del suo libro, abbiamo fatto una chiacchierata con l’ala dell’Olimpia Milano e della Nazionale, sfogliando le pagine del suo lungo viaggio, umano e cestistico, tra Italia, Stati Uniti e Turchia. L’altra opera, oltre a Il Gigante del Campetto, di cui Datome è orgogliosamente protagonista.Prima di tutto: chi è stato il Gigante della tua carriera?[reply]Ce ne sono stati tanti in varie fasi. Sicuramente Angelo Gilardi quando ero a Olbia, che era un veterano con tanti anni di esperienza in Serie A e anche in Nazionale. A Siena penso a Chiacig e Marconato, ma anche a Pecile, che non era molto più grande di me ma è stato un bel modello. A Roma, Tonolli e De La Fuente. In NBA c’è stato Chauncey Billups.In generale, ho avuto la fortuna di incontrare tanti punti di riferimento, tanti begli esempi da vivere nella quotidianità. Che poi gli esempi positivi non sono per forza di cose più grandi di te: Bogdan Bogdanovic, per dirne uno, è più giovane di me, ma era un punto di riferimento per l’impegno e l’etica del lavoro. Tutti abbiamo la possibilità di vedere i buoni e i cattivi esempi: poi sta a noi scegliere da che parte andare.[/reply]A proposito di valori ed esempi: negli ultimi giorni si è parlato molto, e lo hai fatto anche tu durante la presentazione del libro, del “fallimento” dei Bucks e delle parole di Giannis Antetokounmpo.[reply]Sicuramente quello di Giannis è stato un discorso che fa pensare. Credo che sia impossibile paragonare il lavoro e la stagione sportiva di un giocatore con il lavoro di un giornalista: sono due mondi diversi per mille motivi. Quello che pensava e voleva dire Giannis è: se io ho fallito nel mio lavoro quest’anno, allora hai fallito anche tu? Il problema è che “fallimento” è una parola che suona male: un’azienda che fallisce è un’azienda che muore, mentre una stagione fallimentare fa parte della vita di tanti sportivi.Il mancato obiettivo sportivo non ha niente a che vedere con il fallimento umano. Bisogna accettare la sconfitta, analizzarla e fare di tutto per migliorare. Come faranno a Milwaukee, ovviamente. Forse basterebbe trovare una parola che rispetto a “fallimento” renda più merito all’impegno sportivo a quel livello.La mentalità per cui solo chi vince può parlare, può dire la sua ed essere ascoltato, è una questione culturale, quindi è difficile da cambiare. Io nel mio piccolo cerco sempre di far capire l’importanza di competere, di essere lì ogni anno. In carriera ho vinto 13 titoli, e ne vado fiero, ma nello sport si può perdere.[/reply]Se dovessi descrivere il Gigi Datome giocatore con un personaggio di un fumetto, chi sceglieresti?[reply]Sicuramente Pippo per i primi anni, quando ero a Olbia. Ero molto grande, scoordinato, goffo nei movimenti. Non avevo proprio coordinazione motoria. Poi c’è stata una maturazione che mi ha portato a essere… un Pippo più coordinato, esiste? Ci sono state varie fasi della mia carriera, comunque, e per ogni fase potresti trovare un eroe diverso. L’unico paragone che mi viene dal cuore però è Pippo: nei primi anni ero davvero come lui.[/reply]Il prossimo autunno compirai 36 anni. Pensi mai al ritiro?[reply]Ci penso da tempo, ormai. Guardando indietro ho fatto talmente tanta strada in questi anni che, quando arriverà il momento, sarò felice. E questo già da un po’. Finché continuo a ritenermi utile alla causa per poter vincere dei trofei, però, continuerò a giocare. Almeno fino al momento in cui non mi renderò conto che il basket non è più questa cosa elettrizzante che è adesso, e finché qualcuno mi vorrà in squadra. Ma finché mi diverto, finché trovo un contesto in cui mi sento partecipe per vincere qualcosa, e finché questo contesto riconosce a me le capacità per contribuire a raggiungere certi obiettivi, andrò avanti. Quando non ci sarà più una di queste cose, allora sarà il momento di smettere.[/reply]Questa sicurezza ha mai vacillato?[reply]In realtà no, neanche nei momenti brutti. Penso che se in quei momenti, anziché una sana incazzatura, ti viene il menefreghismo, allora devi farci un pensiero e chiederti se è ancora importante come prima. Per me, però, le incazzature sono ancora all’ordine del giorno (ride), quindi vuol dire che la voglia di fare bene e l’orgoglio sono ancora vivi.[/reply]E alla vita dopo il ritiro, ci pensi? Ti spaventa il risveglio del giorno dopo, o dopo tutti questi anni lo stai aspettando?[reply]Lo sto aspettando con grande curiosità. E con un certo fatalismo, perché mi rendo conto che ci si dovrebbe preparare di più. Io in parte mi sto preparando, ma la nostra è una vita talmente fitta che è difficile trovare lo spazio per dedicarsi ad altro. Anche perché se dovessi davvero fare qualcosa per prepararmi, sembrerebbe che sto smettendo, e non voglio dare quell’impressione. Quando succederà, senza ansie e anzi con curiosità, farò le mie scelte.[/reply]Prima di tutto, però, il finale di stagione con l’Olimpia e poi il Mondiale. Con la Nazionale ci sarai?[reply]Mi piacerebbe. È stata una stagione travagliata, ho avuto qualche problema fisico, e ora sono concentrato solo su finirla bene. Comunque ne sto parlando con il Poz [Gianmarco Pozzecco, ct della nazionale, ndr], faremo insieme le nostre valutazioni.[/reply]

E Paolo Banchero, ci sarà? [reply]Io penso che non lo sappia neanche lui. Gli fanno tutti la stessa domanda, e ogni risposta viene interpretata in qualche modo… immagino che anche lui si sia un po’ stufato. Credo che adesso che è finita la stagione, comunque, può avere le idee un po’ più chiare, perché l’ha finita da sano fortunatamente, e quello è un punto a nostro favore. Però deve fare tante valutazioni, e ovviamente deve volerlo, perché la Nazionale è una scelta. È un sacrificio, ma non nel senso che è una cosa brutta, nel senso che è una cosa sacra, quindi devi volerla veramente con tutto te stesso. Deve capire se è il momento giusto per lui, e tante cose. Noi aspettiamo, fino a un certo punto ovviamente, ma non si dovrà condannare il ragazzo qualsiasi scelta faccia.[/reply]Ti ha impressionato la sua stagione da rookie in NBA?[reply]Ha fatto benissimo, ha un talento notevole. Se ha fatto così bene al primo anno ha sicuramente grandi margini di miglioramento. Penso che non ci sia mai stato un giocatore così: italiano ma che non è mai stato in Italia, così forte, così pronto, che però si deve adattare al sistema FIBA e che quindi da tanti punti di vista è un’incognita. Non so davvero cosa succederà e al momento non credo lo sappia neanche lui. Se decidesse di venire, mi auguro che sia perché sente dentro di volerlo davvero: solo così si può fare bene in Nazionale.[/reply]E della prima stagione NBA di Simone Fontecchio, cosa dici?[reply]Ha avuto un bell’assaggio. In NBA tu puoi far vedere che sei pronto, ma poi ci sono tante dinamiche e tu devi rimanere lì, capire come funziona quel mondo, farti sempre trovare pronto. Simone lo ha fatto molto bene quando è stato chiamato in causa, penso che sia stato un buon primo anno per lui. L’augurio che gli faccio per il prossimo è che trovi più continuità, anche fisicamente. Può far vedere che lui ci sta lì, perché si vede che vale la NBA. [/reply]Passando alla tua, di avventura in NBA: a posteriori, come valuti la tua esperienza - umana e professionale - a Detroit? Provavi più frustrazione per il poco spazio a disposizione, o orgoglio per aver raggiunto quel livello?[reply]Un mix di cose. Sicuramente quando sei lì è tutto bellissimo, perché sei in NBA. Ma un giocatore di basket vuole giocare. Adesso a quel periodo ci penso e ne parlo con molta calma, però non era facile per me da capire, anche perché arrivavo da un contesto diverso sotto tanti punti di vista. Se vuoi far parte di quel mondo devi stare alle sue regole, devi accettarle ed essere pronto a quello che succede. Ti insegnano a controllare le cose che puoi controllare: l’impegno, la puntualità, il lavoro extra, essere un buon compagno di squadra… tutte queste cose dipendono da te, il resto no.Io ero e sono orgoglioso di essere arrivato lì e di esserci stato due anni, ma ancora di più lo sono di essere stato pronto quando ho avuto la mia vera opportunità, a Boston. Prima ci sono stati mesi e mesi di lavoro individuale, perché a Detroit, specialmente con Stan Van Gundy, non giocavo mai. Quindi il mio lavoro era prettamente individuale, e grazie a quel lavoro sono stato pronto a dare una mano a Boston a raggiungere i playoff. È un bel ricordo, sono stati due anni belli, perché far parte del mondo NBA è davvero figo per un giocatore. E mi hanno temprato molto, mi hanno lasciato grande forza e sicurezza in me stesso.[/reply]Hai giocato anche qualche partita in D-League. Come ti sentivi in quel contesto?[reply]È una lega di giocatori che cercano possibilità. Per me era strano perché è un contesto in cui si gioca praticamente a briglia sciolta, mentre io sono un giocatore di sistema, pulito, con determinate caratteristiche. Sinceramente era un contesto con cui avevo paura di confrontarmi. La mia paura era: e se faccio vedere che non valgo neanche la D-League, come posso pensare che mi chiami un’altra squadra NBA? È stata una delle poche volte in cui ho sentito la pressione, molto più di quando ho giocato gli Europei, le finali di Eurolega, le finali Scudetto. Molto di più. Perché non era il mio contesto e non mi ero mai allenato con quella squadra. Alla fine però ho segnato molto e ho giocato bene, fortunatamente, ed erano tutti contenti. Dopo un settimana sono tornato ai Pistons. È un mondo così: devi accettare quelle regole ed essere pronto, non c’è altro modo.[/reply]Poi, nel 2015, lo scambio che ti ha portato ai Celtics. Ci racconti il giorno della trade?[reply]È stata un’esperienza anche quella, perché ho vissuto una trade degli ultimi minuti. Avevo appena finito l’allenamento con la squadra, e stavo parlando con Jonas Jerebko in doccia. Lui non era contento, io… figurati. Entrambi speravamo di essere tradati. Gli ho chiesto se sapesse qualcosa e mi ha detto di no: aveva sentito il suo agente e non si era mosso niente, quindi avrebbe finito la sua stagione a Detroit. E anche io non avevo saputo niente. Tempo di asciugarci e tornare in spogliatoio, e troviamo tutti col telefono in mano: Twitter stava impazzendo, c’erano un sacco di movimenti dell’ultimo minuto. Mi suona il telefono: era Van Gundy. Non mi aveva mai chiamato in tutti i mesi precedenti, ho capito che stava succedendo qualcosa. Mi ha detto che ero stato mandato a Boston e mi ha ringraziato, e poco dopo il telefono ha iniziato a suonare in continuazione, mi scrivevano in tanti. Ho subito pensato di dirlo a casa, prima che lo venissero a sapere da Twitter. Veramente un momento concitato, con tutti i pensieri che ti possono venire in mente: Boston, i giocatori che avrei trovato nel mio ruolo, lo spazio che avrei avuto…Poco dopo, comunque, mi squilla ancora il telefono, era Jerebko. “Jonas, alla fine vado a Boston”, “Eh, lo so… vengo anche io!”. Pazzesco: non sapevamo niente fino a un quarto d’ora prima. Anche quello fa parte del concetto di business della NBA, e venendo dalla cultura europea è strano. Da noi non può succedere: se una squadra non ti vuole più può decidere di tagliarti, quindi di pagarti e lasciarti libero di andare dove vuoi, ma non può spedirti altrove. È stata molto sballottante come cosa, ma devi stare al gioco se vuoi resistere in NBA.Alla fine è arrivata anche la chiamata di Danny Ainge, “Benvenuto nei Celtics”… figo, sì, ma pensavo: porca miseria, mi fate giocare? Perché non sai cosa può succedere, avrebbero anche potuto tagliarmi per firmare qualcun altro. Tra l’altro, quello stesso giorno a Boston era arrivato Isaiah Thomas, c’erano stati tanti movimenti nella lega nelle ultime ore. Fai le valigie, parti, lasci la casa, raggiungi la squadra che era a Los Angeles… una confusione totale, insomma. È stato un momento veramente destabilizzante.[/reply]

Rimanendo sulle differenze tra Europa e USA: pensi che sia diverso il modo in cui si guarda alle statistiche? [reply]In America analizzano tantissimo le statistiche. Tantissimo. Poi magari la maggior parte delle cose non vengono condivise dallo staff, si tende a focalizzarsi solo su alcuni aspetti. In Europa sicuramente le analizzano, le guardano, ma l’approccio è diverso: le statistiche non sono viste come la risposta a tutto, ma come uno strumento per analizzare l’andamento di alcuni aspetti del gioco.[/reply]E tu che rapporto hai con le statistiche?[reply]Personalmente ho smesso da anni di guardarle. Lo faccio raramente, e più per noia che per altro. Quando ero più giovane, a Roma per esempio, ricordo invece che tutti i lunedì guardavo le mie cifre, come stavo andando, come stavo tirando, eccetera. Ora invece l’importante è che la squadra vada bene, e a fine partita non ho più bisogno dei numeri per sapere se ho giocato bene o meno. Lo so già.Adesso la vedo così, e in generale credo che non veniamo più giudicati soltanto in base alle statistiche: ci sono talmente tante cose importanti nella pallacanestro che non finiscono nelle statistiche, che non ha più senso pensare di strappare contratti migliori perché si hanno statistiche migliori.[/reply]Ci racconti il tuo rapporto - si fa per dire - con coach Van Gundy? [reply]È semplice: non mi salutava neanche, non mi diceva niente. Non giocavo, e quindi per lui non esistevo. Lo incrociavo, dicevo “buongiorno coach”, e non mi rispondeva. La prima volta ho pensato che non mi avesse sentito, e quindi il giorno dopo ancora: “buongiorno coach”… di nuovo, niente. Ho smesso di salutarlo anche io, allora: cosa faccio, il coglione che saluta a vuoto ogni giorno? Anche perché quello dietro di me veniva salutato, abbracciato... era veramente una cosa allucinante. Era molto bravo come allenatore, questo di sicuro. Mi piaceva come allenava. Mi spiace per lui, però, che non valorizzasse la parte umana.[/reply]E Brad Stevens, invece?[reply]Un cambiamento totale. Mi ricordo che nelle prime due partite non avevo giocato, contro i Lakers e Phoenix, e pensavo: ma come, non gioco neanche qui, non è cambiato niente? E invece Stevens mi ha mandato un messaggio dopo la seconda partita e mi ha detto di aver apprezzato il mio coinvolgimento in panchina, e che il mio momento sarebbe arrivato. È bastato poco, è stato un piccolo gesto ma mi ha acceso, mi ha dato coraggio. E davvero non serviva molto, bastava un messaggio. Perché poi non giocavo né a Detroit, né a Boston, ma Stevens era diverso.Una volta mi ha preso da parte e mi ha spiegato perché aveva dato più spazio a Gerald Wallace: io ero a posto, non mi lamentavo, ma lui ci teneva a tenere tutti sul pezzo. E questa è una cosa che ho apprezzato molto, perché per un allenatore è facile fare il simpatico, ridere e scherzare con le stelle della squadra, con quelli che giocano di più, ma penso che siano molto più umani e intelligenti gli allenatori che si prendono cura anche di quelli che non giocano. Perché poi le squadre, soprattutto in stagioni così lunghe, hanno davvero bisogno di tutti.[/reply]Finita la stagione a Boston, poi, è arrivata la chiamata di Obradovic, che ti prometteva un ruolo importante al Fenerbahce. È stata una scelta difficile tornare da questa parte dell’Oceano?[reply]Nel 2015 avevo due proposte da squadre NBA, Dallas e Washington, mentre da Memphis ho ricevuto una grossa offerta l’anno successivo. Però non vedevo delle opportunità incredibili. Sarebbero state altre situazioni in cui avrei dovuto ritagliarmi uno spazio e in cui le cose non sarebbero dipese solo da me; avrei fatto ancora parte di quella giostra, magari sarei stato scambiato di nuovo senza saperlo.Dall’altra parte invece c’era il Fener, una squadra ambiziosa che gioca per vincere, a Istanbul, in cui avrei avuto un ruolo importante. Io non avevo ancora vinto niente in carriera da protagonista, e poi c’era Obradovic, e anche Gherardini, che è stato molto importante… Mi sono detto: “Sai che c’è? Ci ho provato, ma evidentemente non sono così bravo da avere un ruolo fisso e garantito in una squadra NBA”.Volevo tornare a giocare per vincere, avendo delle responsabilità. È stata una scelta veramente a cuor leggero. Da qui può essere sembrato un “fallimento”, tornando al discorso di prima, ma io non l’ho mai vissuto così. L’ho preso come un cambiamento di direzione. Potevo continuare a combattere in NBA per trovare spazio, oppure tornare e vivere da protagonista l’Eurolega ad alto livello, cosa che non avevo mai fatto. Sono strafelice di quella scelta: la rifarei tutte le volte.[/reply]E all’offerta di Memphis di cui parlavi, ci ripensi?[reply]Sì, mi è stata fatta quell’offerta… che era abbastanza clamorosa. Memphis metteva sul piatto tanti soldi, però quella stagione l’avevamo finita perdendo la finale di Eurolega al supplementare, e con il titolo nel campionato turco in cui io ero stato MVP. Ci siamo lasciati dicendo che l’anno dopo ci avremmo riprovato. Mi sarei sentito in difetto ad andarmene, anche perché ho capito che potevamo davvero vincere l’Eurolega e che volevo restare per provarci. E fortunatamente è andata così, visto che abbiamo vinto.A Memphis avrei avuto una vera possibilità, magari. E quello che mi offrivano era un ottimo contratto, 11 milioni in due anni. Però io ho sempre fatto scelte di pancia, cercando situazioni che mi gratificassero e contesti giusti per me, e a Istanbul avevo legato con tutti, era un gruppo veramente super. Sentivo di voler rimanere e alla fine sono contento della scelta che ho fatto.[/reply]

Ci racconti lo “shock” dei giocatori europei che passano da una sponda all’altra dell’Oceano?[reply]Le due cose che mi vengono in mente sono gli spazi e l’atletismo. All’inizio ho dovuto abituarmi a muovermi in campo: uscivo dai blocchi, ad esempio, e dovevo fare un passo in più per arrivare alla linea del tiro da tre. Il campo mi sembrava veramente infinito. Poi, erano tutti di un livello atletico impressionante, e anche la velocità delle reazioni e delle decisioni dei giocatori era diversa.[/reply]Ti ha cambiato l’esperienza negli Stati Uniti?[reply]Sicuramente sono tornato più forte a livello mentale, come dicevo, ma anche fisicamente: assorbivo meglio i contatti, avevo messo su muscoli. E poi avevo velocizzato il mio tiro: con i super-atleti che ci sono in NBA, per tirare dovevo riguadagnare quello spazio e quindi ho lavorato per accelerare la mia meccanica. Penso di aver fatto fruttare il tanto tempo in cui non ho giocato per lavorare sulla tecnica, e questo sicuramente mi è servito.[/reply]Alla fine, sei tornato in Italia nel 2020, dopo sette anni. Come hai ritrovato il nostro campionato?[reply]Non l’ho trovato troppo cambiato. Qualche piazza nuova, e qualcuna storica che non c’è più, come la mia Virtus Roma. Prima c’era Siena, adesso ci siamo noi e Bologna. Ma in generale non l’ho trovato troppo cambiato, mi sembra che l’attrattiva del campionato sia sempre la stessa. A parte il fatto che io sono arrivato nell’anno senza pubblico, che è stata una stagione sui generis, vedo che è tornato l’entusiasmo nei palazzetti. Vedo passione, realtà nuove, allenatori di nuove generazioni.[/reply]La domanda che ti hanno fatto tutti: esiste un aneddoto che ancora non conosciamo su Zelimir Obradovic?[reply]In passato una volta avevo raccontato questo aneddoto, e non so come mai non avesse fatto notizia. Ho questo ricordo fulminante: ci stavamo allenando contro una difesa a zona e Obradovic si incazzava perché non facevamo bene un movimento; a un certo punto ha detto “Basta, gioco io”, si è tolto l’orologione ed è venuto in campo. Noi giocavamo piano, e lui ci ha detto “No no, giocate veramente”. È entrato e ha fatto un taglio, un velo, e ha creato un buon tiro per un compagno di squadra. A 60 anni, solo per un movimento fatto meglio di altri. Questa è la sua conoscenza del gioco. “Avete visto, quanto ci vuole?” - e lì capisci perché ha vinto così tanto, uno con quella sapienza…[/reply]Per chiudere: l’allenatore con cui berresti una birra stasera, quello che vorresti ti avesse allenato più a lungo, e quello con cui ti sei trovato meno bene.[reply]Birra con Željko, sicuramente. Più a lungo, vado con Boniciolli. E meno bene, facile… con Van Gundy.[/reply]

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