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Pioniere, profittatore, patriota
06 ott 2016
06 ott 2016
Fare a pezzi Jorge Mendes per capirlo.
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È sorprendente accorgersi da quanti punti di vista possa essere guardata la figura di Jorge Mendes. L’unico modo per ricostruire la sua immagine, o almeno la sua immagine pubblica, è, per paradosso, frantumarla, scindere tutte le storie che contiene al suo interno: quella del pioniere del capitalismo sportivo, quella del motivatore carismatico, quella del lavoratore instancabile, quella del profittatore e quella del patriota.

Non so quale di queste storie restituisca la vera anima dell’agente portoghese. Jorge Mendes è tutte queste cose insieme, o forse solo una di queste.

Il pioniere del capitalismo sportivo

La narrazione sportiva è soltanto l’ultimo dei prodotti culturali influenzati dall’era del capitalismo mitico che stiamo vivendo. Un’epoca che rende possibile l’uscita di due film su Steve Jobs nell’arco di pochi anni e che permette ad un agente di calciatori di pubblicare un’autobiografia che è quasi indistinguibile da un manuale motivazionale su come raggiungere il successo.

La clave Mendes, il titolo spagnolo della sua autobiografia, è diviso in undici capitoli, e ognuno rappresenta una caratteristica che ha portato Mendes a diventare “il miglior agente del mondo”, come scrive Cristiano Ronaldo nel suo prologo: onestà, persistenza, porsi degli obiettivi, lavoro, ambizione, dedizione, spirito di sacrificio, famiglia, determinazione, empatia, senso di responsabilità. Il sottotesto illusorio di tutto il libro è che chiunque potrebbe essere al suo posto, se solo volesse.

Nel libro sono tracciate le origini mitiche di Mendes, aneddoti che contengono il suo destino più grande. Jorge, figlio di un impiegato e di una casalinga, che a tredici anni aiutava i suoi genitori vendendo cappelli di paglia e i cesti di vimini fatti a mano dalla madre sulle spiagge vicino Lisbona nei finesettimana estivi. «È sempre stato più sveglio di noi», dice un suo amico d’infanzia «Jorge vendeva più di tutti. Aveva qualcosa di speciale per gli affari. Perspicacia».

La descrizione di Mendes prima che entri nel mondo del calcio è quella di una persona dalle qualità imprenditoriali innate, che arriva a farci dimenticare che un agente, teoricamente, non dovrebbe comprare e vendere giocatori ma curare i loro interessi.

A 23 anni Mendes si trasferisce da Lisbona a Viana do Castelo, una piccola cittadina nel nord del Portogallo, e inizia a giocare col Vianense. Ma la sua carriera calcistica non decollerà mai: a causa dei suoi altri impegni, Mendes arrivava spesso assonnato e in ritardo agli allenamenti ed era costretto a pagare diverse multe.

A Viana do Castelo, con l’aiuto economico del fratello, Mendes apre invece un videonoleggio che in pochi mesi diventa molto frequentato grazie ad alcune sue idee controcorrente, come l’eliminazione della quota d’iscrizione e l’affitto di un locale periferico ma con parcheggio.

Grazie a quel successo l’attività imprenditoriale di Mendes fiorisce, e dopo il videonoleggio arrivano un fast food, un noleggio di slot machine e infine un grande complesso turistico sulla spiaggia, completo di piscina, bar, ristorante e discoteca. È qui che nell’estate del 1996, un giorno, entra a sorpresa il giovane portiere del Vitoria de Guimaraes, Nuno Espirito Santo. Ed è qui che, in realtà, inizia la storia del Mendes pioniere del capitalismo sportivo.

Non tanto perché Espirito Santo è il primo giocatore di una qualche rilevanza ad essere rappresentato da Mendes (nel libro si legge con poca chiarezza che “Jorge aveva già iniziato a rappresentare qualche giocatore, ma nulla di serio”), quanto per i metodi utilizzati, che rappresentano lo stato embrionale di quel passaggio di mano dalle società agli agenti (e alle altre entità che verranno successivamente, come le TPO) nel controllo dei destini dei calciatori, che forse è la vera essenza di quello che chiamiamo “calcio moderno”.

Mendes, infatti, convince Espirito Santo a lasciare il Vitoria Guimaraes contro la volontà della società, che per lui spara una richiesta da un milione di dollari giusto per frenare l’insistenza di un agente allora del tutto sconosciuto. Attira quindi prima l’interesse del Porto, che però non è disposto a pagare la cifra richiesta dal Guimaraes, e poi quello del Deportivo La Coruña che, dopo un lunghissimo e faticosissimo corteggiamento («Tutti i giorni Jorge prendeva la macchina e percorreva l’autostrada da Guimaraes a La Coruña. Arrivava, si riuniva con Augusto César Lendoiro, presidente del Deportivo, e tornava alle tre o alle quattro del mattino per raccontare le novità a Nuno»), si decide ad offrire il milione di dollari.

Quando il presidente del Guimaraes, mai realmente intenzionato a cedere Espirito Santo, rifiuta l’offerta del Deportivo, Mendes decide di ricorrere a un espediente che solo vent’anni dopo sarebbe diventato abituale. Nasconde Espirito Santo a casa sua per tre mesi, occupandosi personalmente di mantenerlo in forma, ma soprattutto togliendolo alla disponibilità del Guimaraes e della stampa. A ottobre, dopo un’estate estenuante, il Guimaraes cede e Nuno viene presentato dal Deportivo.

Il motivatore carismatico

Ma Mendes non è solo un venditore innovativo, ma anche un gran motivatore. Del suo carisma parlano tutti i suoi assistiti, compreso uno che sul carisma e sulla motivazione ci ha basato un’intera carriera come Mourinho, cosa che in qualche modo rassicura sulla sincerità delle dichiarazioni contenute in un libro a dir poco celebrativo.

Il carisma di Mendes ha una componente fideistica che sfiora il religioso. Si basa sulla convinzione speculare che la fiducia nelle sue possibilità di successo da agente si rifletta in quella che i giocatori che rappresenta devono avere in sé stessi. È proprio Nuno a ricordare le parole di Mendes in quell’estate delicata, durante la quale comunque stava mettendo le sorti della sua giovanissima e fragilissima carriera in mano ad un quasi sconosciuto di appena trent’anni (il presidente del Guimaraes in quel periodo dichiarava che se non fosse riapparso non avrebbe più rivisto un campo da calcio): «Jorge ti trasmette fiducia, ti dice: “Sei il migliore e io farò in modo che la gente lo veda”. […] Trasmettere la convinzione che qualcosa sicuramente succederà è molto difficile, non ci riesce nessuno».

Un altro testimone delle capacità salvifiche di Mendes è Deco. Due anni dopo il “rapimento” di Espirito Santo, Mendes e uno dei suoi soci, Sergio Alves, vanno a Ospinho, vicino ad Oporto, a vedere giocare quello che pensano sia il giocatore che li farà svoltare, Hugo Leal, che a quel tempo giocava all’Alverca. In quella piccola squadra di Serie B portoghese gioca anche Deco, notato da Mendes alla prima occasione.

Deco è uno dei tanti giovani brasiliani attirati in Europa dal miraggio del successo e finiti nella periferia del gioco. Gli era stato promesso che avrebbe giocato in Europa ai massimi livelli e invece è finito all’Alverca in prestito dal Benfica perché l’allora allenatore de “As Aguias”, Graeme Souness, vuole solo inglesi e comunque non lo considera all’altezza. Adesso è in Serie B e non gli viene nemmeno pagato tutto lo stipendio.

Mendes trova un giocatore depresso (secondo Alves «piangeva tutti i giorni») e in procinto di tornare in Brasile, e ci vede una miniera d’oro. Dopo la fine del prestito all’Alverca convince il Salgueiros, un altro piccolo club (ma di Superliga) vicino ad Oporto, a prenderlo in prestito a sua volta. Lo stipendio piuttosto alto del brasiliano sarà ripagato dalla clausola sulla futura cessione, assicura l’agente portoghese.

E così avviene. Il successo del Mendes agente motiva il giocatore e la profezia si auto-avvera. Deco splende nelle poche partite giocate col Salgueiros (appena dodici, di cui una ovviamente contro il Porto) e a dicembre di quell’anno i Dragões si convincono ad acquistarlo versando otto milioni di euro nelle casse del Benfica. Il resto, come si dice, è storia.

Oggi Deco gestisce la filiale della Gestifute, l’azienda di Mendes, in Brasile e grazie a lui in Europa sono arrivati giocatori come Fabinho e Miranda. «Se Jorge non mi avesse scoperto» dice Deco in relazione a quel terribile periodo all’Alverca «sarei tornato in Brasile».

Il lavoratore instancabile

«Considera che il tempo è denaro; chi potrebbe guadagnare col suo lavoro dieci scellini al giorno e per mezza giornata va a spasso, o poltrisce nella sua stanza, anche se spende solo sei pence per i suoi piaceri, non deve contare solo questi». Questo estratto dal testo di Benjamin Franklin che secondo Weber meglio incarnava lo spirito del capitalismo moderno, sarà stato sicuramente pronunciato almeno una volta, anche se con parole diverse, da Jorge Mendes, che in questo senso rappresenta nel calcio una delle incarnazioni più veritiere di quello spirito.

Date le origini umili, l’agente portoghese ha sempre dovuto lavorare per garantirsi i piccoli lussi dell’adolescenza, come le uscite nei weekend o le vacanze estive. Lo trovavi alla Feria de Ladra, un mercatino dell’usato di Lisbona; o a tagliare il prato nei terreni della compagnia dove lavorava il padre, la Petrogal; o a collocare le cialde nei macchinari della fabbrica dell’Algida, per produrre i Cornetti.

L’agente portoghese nella sua autobiografia non fa che ripetere ossessivamente che la persistenza nel lavoro è l’elemento più importante che l’ha portato al successo e anche inconsciamente è indicativo il fatto che il capitolo che racconta la trattativa che ha portato Cristiano Ronaldo al Manchester United, di gran lunga la più importante di tutta la sua carriera, si chiami proprio “Lavoro”.

Si potrebbe arrivare a dire che, a etica del lavoro, nel senso più letterale del termine, Cristiano Ronaldo sia il riflesso di Jorge Mendes in campo, ed è anche probabile che l’agente portoghese abbia lasciato un segno indelebile su CR7 in questo senso: «Devo pensare come Cristiano quando segna: non puoi riflettere sul gol che hai appena segnato, devi pensare al prossimo obiettivo. Non ci può essere riposo. Il riposo è lavorare e pensare al prossimo obiettivo».

Lo stesso CR7, che non è certo uno che si risparmia in questo senso, ricorda con stupore il giorno in cui è passato al Manchester United: «Io ero un ragazzino di diciotto anni, emozionato per aver firmato col Manchester. Dopo [aver firmato, nda] torniamo in hotel e gli dico: ‘Jorge festeggiamo!’. E non so che è successo, Jorge stava già facendo altro, doveva andarsene. Ho festeggiato da solo».

Il profittatore

Ma questo afflato religioso verso la propria professione può anche trasformarsi in filosofia dell’avarizia. Un sospetto che nasce anche leggendo l’autobiografia di Mendes, quando, all’inizio del capitolo successivo, viene presentato questo suo aforisma: «Nel lavoro devi riuscire ad essere ambizioso e volere sempre di più. E se stai bene quando hai fatto una buona partita, devi sempre rimanere con la convinzione che puoi avere di più e che si può migliorare alla prossima, che ti puoi superare, che puoi ottenere ancora di più».

E come questa citazione si può leggere sotto una luce positiva o negativa a seconda della sensibilità, allo stesso modo si possono interpretare le accuse rivolte a Mendes, a volte quasi inconfondibili rispetto a quelli che lui chiama pregi.

La prima di queste accuse è che Mendes si appropri di giocatori che hanno un regolare contratto con un altro agente. È successo, per esempio, con Nani, passato con Mendes al Manchester United nel 2005 mentre era teoricamente rappresentato da un altro agente. Ma anche con Bébé, uno dei fallimenti sepolti dell’agente portoghese, passato dalla strada (letteralmente: abbandonato dai genitori, è cresciuto in un rifugio per senzatetto) al club di Ferguson nell’arco di pochi anni.

Mendes non ha mai smentito veramente quest’accusa, anzi in un certo senso l’ha confermata. In relazione al trasferimento di Nani, per esempio, ha dichiarato: «Ci sono persone che firmano contratti con giocatori che stanno aspettando che un Jorge Mendes appaia e li porti in un grande club. Vogliono rimanere connesse all’operazione anche se non hanno fatto niente per promuoverla».

La capacità magnetica di Mendes di attirare i giocatori verso di sé, insomma, sembra essere di molto superiore rispetto ai suoi colleghi, un fattore predominante in un ambiente in cui non esiste una regolamentazione chiara.

Anche questo sembra un dono innato. Secondo João Camacho, suo amico di vecchia data e collaboratore, Mendes «può stare con Obama, con calciatori, imprenditori o gente umile e convincerli tutti allo stesso modo a parlare con lui». Visto da questo punto di vista, il confine tra il motivatore carismatico e il millantatore è molto meno marcata di quanto non si pensi. Quando mise sotto contratto Cristiano Ronaldo, Quaresma e Hugo Viana, Mendes li convinse con la promessa di portarli in un grande club e con un contratto da “almeno un milione di euro”.

Un’altra accusa, ben più grave, risiede nella sua torbida relazione con le TPO, acronimo che sta per third-party ownership e che in realtà indica le società offshore che detengono parte dei diritti economici di alcuni giocatori. Una pratica, questa, vietata dalla FIFA dal maggio del 2015, ma che continua ad essere di fatto la regola più che l’eccezione (come l’ultimo scandalo che ha coinvolto Allardyce ha confermato).

Secondo una lunga e articolata inchiesta del Guardian, ad esempio, Mendes avrebbe comprato il 30% dei diritti economici di Bébé poco prima di cederlo al Mancester United, ricavandoci, insieme alle commissioni d’agente, quasi la metà dell’intera cifra versata dal club inglese: 2,9 milioni di pound su un totale di 7,4.

Ma è il quadro di generale conflitto d’interessi ad essere ben più inquietante. Secondo l’inchiesta, infatti, Mendes ricoprirebbe in realtà un doppio ruolo: da una parte quello di agente dei calciatori e dall’altra quello di advisor di fondi d’investimento con base in paradisi fiscali, come Gibilterra, l’Irlanda e lo stato americano del Jersey (le cosiddette TPO, per l’appunto). Mendes, quindi, verrebbe pagato da questi fondi per individuare i prospetti più interessanti, spostarli in quelli che vengono definiti development clubs (cioè piccoli club spagnoli e portoghesi) e poi venderli a grosse cifre ai Big 10, cioè i top club europei.

Il conflitto d’interesse potenziale sarebbe inoltre multiverso. Non solo perché Mendes potrebbe rappresentare giocatori i cui diritti economici sono posseduti in parte da un fondo per cui è advisor, ma anche perché l’agente portoghese agisce anche da consigliere di mercato (ma secondo molti il suo livello di influenza andrebbe ben oltre l’eufemistico “consigliere di mercato”) per numerosissimi club di diversa taglia. Mendes ormai ha un controllo incisivo sul mercato dei club più diversi: dai tre principali di Portogallo (Benfica, Porto e Sporting) al Manchester United (grazie all’amicizia con Peter Kenyon, ex advisor del Chelsea, che lo stesso Mendes nella sua biografia chiama “l’introduttore”), dal Valencia alle due rivali di Madrid, dal Monaco al Besiktas. E questo solo per citare i principali.

Il motivo per cui un sistema simile è penetrato in maniera così capillare nella stragrande maggioranza dei club europei e soprattutto sudamericani è che questi fondi non sono solamente in grado di fornire un sistema di scouting superiore rispetto a quello che gli stessi club hanno a disposizione ma soprattutto perché sono questi stessi fondi a finanziare di fatto il loro mercato.

Non è un caso che l’influenza dei fondi aumenti soprattutto in casi di club finanziariamente disastrati, con i presidenti che gli si appoggiano per mantenere uno stile di vita altrimenti insostenibile. In questo rapporto, però, i club hanno il coltello dalla parte della lama. Se collaborare con le TPO, infatti, vuol dire arrivare a giocatori che in condizioni normali sarebbe impossibile prendere, dall’altra parte implica anche abdicare gradualmente al controllo sulle proprie finanze.

È quello di cui si accorse Bruno de Carvalho, presidente dello Sporting, che si ritrovò a rinunciare a 11 dei 16 milioni di sterline (il 75%) pagati dal Manchester United per Marcos Rojo, a favore della Doyen Sports, uno dei fondi d’investimento calcistici più conosciuti al mondo. De Carvalho assunse il suo ruolo nel 2013 e si ritrovò un club dalle finanze disastrate, e con la maggior parte dei giocatori in rosa il cui cartellino era di proprietà di fondi offshore, con percentuali che arrivavano fino al 95%.

È comprensibile, quindi, che Mendes oggi proietti un’ombra di gran lunga più grande di quello che probabilmente è il suo reale potere (l’inchiesta del Guardian si chiede, già nel titolo, se Mendes non sia “l’uomo più potente nel mondo del calcio”). Talmente lunga da far circolare, quest’estate, la notizia che l’agente portoghese fosse in procinto di fare un’offerta d’acquisto per il Milan.

Il patriota

In un quadro che dipinge quasi solamente la ricerca del profitto, ci sono dei numeri che sembrano indicare anche altro. Come quelli che dicono che nel primo decennio del 2000 Mendes avrebbe condotto il 68% dei trasferimenti dei tre grandi club portoghesi: il Benfica, il Porto e lo Sporting (con quest’ultimo che tocca l’apice del 78%). Allo stesso modo, è impossibile non notare che la stragrande maggioranza degli assistiti di Mendes siano portoghesi o lusofoni.

Se è azzardato arrivare a dire che Mendes abbia ricamato la propria carriera su un disegno nazionalista, dall’altra parte è anche fuori di dubbio che il suo successo, la sua capacità di portare i suoi giocatori ai massimi livelli abbia in qualche modo trainato la rinascita del calcio portoghese degli ultimi vent’anni, sia a livello individuale che collettivo.

Dal 1996 a oggi la Nazionale portoghese si è sempre qualificata agli Europei, arrivando, sulle sei apparizioni totali, due volte in semifinale e due volte in finale (nei precedenti 36 anni il Portogallo si era qualificato agli Europei solo una volta). I club portoghesi sono tornati a raggiungere dei successi europei, anche dopo quelli incredibili del Porto di Mourinho (solo la maledizione di Bela Guttman ha impedito al Benfica di mettere le mani sull’Europa League). Ma è soprattutto il talento individuale ad essere tornato come un uccello migratorio sulle coste lusitane, in maniera incomparabile rispetto al passato. Manco a dire che ovviamente Mendes ha sotto contratto quasi tutta la nuova generazione d’oro del Portogallo, quella composta da Bernardo Silva, Renato Sanches, William Carvalho, André Gomes e Rubén Neves.

È per questo motivo che quella di Mendes in Portogallo viene generalmente vista come una storia di successo, in un paese che mai come oggi ha perso la sua antica centralità a livello globale ed europeo. Nel documentario “Jorge Mendes: The Super Agent”, i presidenti di Porto e Benfica concordano sull’indicarlo come una sorta di eroe nazionale, al confine col genio incompreso: «Diverse centinaia di milioni di euro sono entrati [grazie a lui, nda], ma il paese non lo riconosce». In maniera totalmente assonante, anche il presidente del Vitoria, Emilio Macedo, ha dichiarato: «Questo paese gli deve molto perché [Mendes, nda] gestisce grossi trasferimenti e porta denaro».

Nell’era del capitalismo mitico non sono più gli imperatori, gli esploratori e i santi a salvare le nazioni. Tra qualche anno, i monumenti sul lungofiume di Belem saranno dedicati ai mercanti, ai presidenti d’impresa e agli agenti.

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