Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Pietre, ammortizzatori, Appenninica
21 ott 2020
21 ott 2020
Il racconto dal vivo della prima corsa a tappe di mountain bike in Italia.
(articolo)
27 min
Dark mode
(ON)

«Mi sento così colpevole a non essere là fuori, a soffrire con lei. Vorrei poterle dare una mano». Sono parole di Eugenia, che si è ritirata a seguito di una caduta nel crono-prologo. Ha un polso gonfio come un melone e ora, all’arrivo di Fanano nella seconda tappa, non può fare altro che incitare Maria, sua amica; passarle una borraccia, accompagnarla nell’ultimo strappo, dirle che presto si potrà riposare.

Eugenia e Maria si sono conosciute anni fa grazie ad amici in comune. Sono entrambe russe, ma vivono una a Cipro e l’altra in Austria. Per preparare la seconda edizione dell’Appenninica, la corsa a tappe di mountain bike sull’Appennino tosco-emiliano, si sono allenate usando Skype, tenendosi compagnia durante tante ore in sella.

A migliaia chilometri di distanza, Eugenia e Maria si preparano ad affrontare gli oltre 450 km e i sedicimila metri di dislivello positivo delle sette tappe di corsa. Dopo il comodo volo di “Genia” dall’isola a Vienna, le due hanno raggiunto Porretta Terme, sede della grand depart, in macchina. Non è andata come si aspettavano: Eugenia, come detto, si è ritirata alla prima tappa; Maria non è andata oltre i 105 km della queen stage.

A stento Maria riesce a mangiare qualcosa dopo ogni arrivo. Non si aspettava di trovare così tante difficoltà sul percorso: salite impervie, discese vertiginose, pochissimi metri di pianura. Eppure, quando un membro dello staff le porta un piatto caldo di minestra, sorride e con un filo di voce ricorda quanto era bella la vista dai crinali del Corno alle Scale.

Questo e tutti i video che troverete nel pezzo sono opera di The Outdoor Lab.

Si fa presto a dire mountain bike

«Iniziamo con un po’ di storia, ti va?» mi dice Luca Bortolotti, membro dello staff di Appenninica e insegnante di tecnica ciclistica della Federazione. Se le prime bici modificate appositamente per andare fuoristrada appaiono a fine Ottocento, è solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che diventano popolarissimi i cruiser. Sono bici con ruote più larghe, freni più robusti, spesso single speed, cioè con una singola marcia, quindi senza cambio né corone o pignoni. I cruiser erano tutt’altro che bici da competizione: li usavano, per dire, i postini per consegnare il giornale a domicilio.

Poi arrivano gli Anni Settanta. Un gruppo di giovani californiani noto come The Larkspur Canyon Gang inizia a usare bici che oggi definiremmo cancelli con ruote per sfrecciare giù dalle pendici di Mount Tamalpais, nella parte nord-ovest della Baia di San Francisco. Il verbo si diffonde così velocemente che antenati di MTB sono già alle Olimpiadi di Atlanta 1996.

«Da quando la mountain bike è diventata uno sport agonistico, sono cominciati sviluppi a non finire. Presto viene vista come una cosa divertente, commercialmente valida e tanti brand ci hanno puntato» dice Luca Bortolotti. Ma attenzione a non fare di tutta l’erba un fascio: «Non esiste un tipo di MTB. Cross-country, marathon, trail, all-mountain, enduro, free-ride, downhill sono tutte cose diverse tra loro e per ognuna serve una bici diversa».

Le principali differenze tra le tipologie di bici riguardano l’escursione degli ammortizzatori e le geometrie. Altre innovazioni che, col passare degli anni, hanno contribuito a rendere le mountain bike più leggere, più sicure o entrambe le cose sono il diametro delle ruote, l’introduzione di materiali come il carbonio, i pneumatici tubeless e il sellino telescopico.

Le sfaccettature, come avrete capito, sono migliaia. Alcune sono evidenti (una bici front ha la sospensione solo sulla forcella anteriore, mentre una full ne prevede una anche in posizione centrale), altre meno e per occhi esperti, come l’altezza del movimento centrale.

Nella prima foto, la Protek Futura con cui Hans Becking ha vinto Appenninica. Il telaio pesa meno di due chili. La bici dal vivo sembra un’astronave e presenta caratteristiche tipiche delle MTB moderne come la mono-corona anteriore (e conseguente padellone al posteriore) e peculiarità che solo Becking predilige, come le corna sul manubrio. Nella seconda foto, invece, una bici totalmente diversa, da strada: la Trek Emonda SLR di Vincenzo Nibali. Due sport diversi richiedono bici diverse.

Anche il tipo di sforzo, il posizionamento degli atleti sulle bici, l’equilibrio e la scorrevolezza variano molto. Non solo da strada a off-road, ma anche nelle varie declinazioni della MTB. Se le discipline fondative, le uniche di cui si organizza un Mondiale UCI dal 1990, sono cross-country e downhill, ne sono nate diverse altre:

  • il cross-country (XCO) ha un tipo di percorso breve, ad anello, da ripetere un certo numero di volte. È una disciplina per atleti esplosivi e potenti, raramente lo sforzo dura più di un’ora e mezza. La stella di questa specialità è l’otto volte campione del mondo Nino Schurter.

  • il ciclo-cross (CX) è solo in apparenza simile al cross-country. È una disciplina molto più antica e le bici utilizzate somigliano più a quelle da strada. Si svolge solo d’inverno e non è raro vedere gli atleti scendere dalla bici e portarla in spalla per superare ostacoli come scale, barriere o sabbia. Tre nomi per cui non servono presentazioni che vengono dal ciclo-cross: Mathieu van der Poel, Wout van Aert e Marianne Vos.

  • lo svolgimento delle gare di downhill (DH) è piuttosto semplice: chi impiega meno tempo ad arrivare a valle, dopo aver superato un bosco, fatto salti, evitato pietre, vince.

  • anche nel four-cross (4X) si va in discesa, ma anziché singolarmente gli atleti si sfidano in batterie da quattro, una run è molto più breve (una trentina di secondi rispetto ai quattro minuti) del downhill e la gran parte degli ostacoli è artificiale.

  • le marathon (XCM) sono competizioni più lunghe e point-to-point, cioè senza circuiti. Alcune corse possono durare anche più di 100 km e, al contrario, delle discipline precedenti, le marathon sono anche gare a tappe.

Appenninica è la prima gara in Italia di quest’ultimo tipo: due tappe su sette oltre i 100 km nell’arco di una settimana, una prova contro il tempo, itinerante come vogliono le vere marathon, per un totale di circa 450 km di lunghezza e sedicimila metri di dislivello.

La genesi di un evento sportivo di nicchia nel 2020

Seconda tappa, mattina presto. I corridori stanno lasciando Porretta Terme, mentre tutta l’organizzazione si è già spostata a Fanano, dove arriverà la corsa. Milena Bettocchi ha l’aria concentrata e fissa un pc da cui partono almeno cinque cavi di colore diverso. «Nella vita sono controllore di volo», confessa qualche sera dopo, in una delle poche occasioni in cui ha tempo per respirare. «Essere al controllo di qualcosa è una forma mentale» conclude sorridendo.

Con Beppe Salerno coordina un bellissimo staff di una ventina di membri, tutti appassionati di mountain bike. Gianluca è uno di questi: è l’uomo dietro le quinte che si occupa di tutto, dalla logistica al tracciamento del percorso. C’è lo stand per misurare la temperatura, quello dove siede il team di cronometristi, qualche gonfiabile per gli sponsor. Poco più in là l’area ristoro ha già messo a mano una forma di Parmigiano Reggiano.

È dalla Cape Epic in Sudafrica che prende spunto Appenninica: la corsa di MTB aperta ad amatori forse più famosa al mondo è diventata un fenomeno globale, tanto che competizioni simili sono nate ovunque. La Transrockies in Canada, la Swiss Epic in Svizzera, la Pioneer in Nuova Zelanda, la Cape to Cape in Australia. Dopo aver girato il mondo per correrle, Salerno e Bettocchi hanno portato lo stesso concetto di gara anche in Italia.

Nell’Appennino trovano una terra fertile per mettere in piedi questa corsa. Lo staff è instancabile (secondo Federica la giornata tipo inizia alle 5:30 del mattino e continua fino alle 23), i volontari in ciascun comune danno una grossa mano (gran parte delle realtà locali sono state ben felici di accogliere un evento in un anno in cui tante manifestazioni sono state cancellate), la risposta e la qualità degli atleti iscritti è stata ottima. Qualunque amatore può competere coi più forti del pianeta: nella stessa startlist convivono l’ex campione del mondo marathon Tiago Ferreira, una quinta classificata alle Olimpiadi di Londra 2012 nel cross-country come Esther Süss e le già citate Maria e Eugenia.

Causa pandemia da coronavirus, alla corsa quest’anno non ci si poteva iscrivere a coppie e non hanno potuto raggiungere l’Italia atleti canadesi, sudafricani e australiani. Eppure, sono arrivati atleti da Svezia, Polonia, Regno Unito e da tutte le parti d’Italia, oltre che dai paesi in cui queste corse sono una religione (Olanda, Belgio, Germania).

Alla seconda edizione, Appenninica non ha la visibilità e il budget delle varie Epic, ma per il momento, assicurano Salerno e Bettocchi, «va bene rimanere piccoli. Un’atmosfera familiare, riuscire ad impattare i comuni attraversati dalla corsa, far assaggiare ai corridori i piatti tipici di queste zone, rilanciare le montagne dell’Appennino che per troppi anni si sono concentrate solo sugli sport invernali: sono queste le carte vincenti».

Varie contingenze, innanzitutto la pandemia, hanno suggerito all’organizzazione di rimanere almeno un paio di giorni in ciascun comune, per limitare gli spostamenti. «L’anno scorso nevicò a maggio e dovemmo cambiare tutto il percorso all’ultimo minuto. Quest’anno la pandemia ci ha costretto a posticipare la corsa, da luglio ai primi di ottobre. Ha reso le cose molto più difficili, ma ci siamo preparati per tempo» commenta Bettocchi, che aggiunge: «Alla Transrockies ricordo che mi dissero: ‘Arriva là in fondo e attenta agli orsi’. Avevamo intenzione di fare una gara così, dura». Che Appenninica sia selettiva è confermato anche da Salerno: «Se non si ritira o non finisce entro tempo massimo circa il 20% degli atleti, la corsa non è stata dura abbastanza».

E quindi, la corsa?

Vince la prima tappa, la cronometro individuale di Porretta Terme, il campione olandese marathon Hans Becking. Precede il campione europeo marathon Tiago Ferreira, che di recente - per dire - ha completato un doppio Everesting. I due sono le punte di diamante del DMT Racing Team, una delle più forti squadre d’Europa. Dietro il loro successo c’è il team manager Andrea Marconi, ex ciclo-crossista di buon livello.

La squadra di San Severino Marche, tuttavia, non è l’unica che punta alla vittoria finale. Il team KTM Alchemist arriva terzo tra gli uomini con Lorenzo Samparisi, mentre Gaia Ravaioli è seconda tra le donne. Già dalla prima tappa, infatti, la regina della corsa è Esther Süss. A 46 anni, il suo peak atletico è alle spalle, ma è qui col marito, sorride, batte la gran parte degli uomini nella categoria Master, si diverte un casino.

È competitivo anche lo spagnolo di origini honduregne Milton Ramos, soprannominato “Zorro del Deserto” non per una particolare somiglianza con Don Diego de la Vega, ma a causa dei suoi ottimi piazzamenti alla Titan Desert, una corsa in Marocco (zorro in spagnolo significa volpe). Nel partire, si è curato poco dei secondi che avrebbe perso e ha fatto una ventina di metri impennando.

Al termine della tappa si aggira furtivamente nella zona ristoro, dove vuole ricoprire il piatto di riso con una montagna di Parmigiano. Non parla granché l’inglese, ma un po’ gesticolando un po’ ridendo riesce a esprimere bene la sua lista di priorità: (1) mangiare quanto più Parmigiano possibile, (2) vincere una tappa. E potrebbe riuscirci: secondo tanti è il più forte in discesa.

Nella cronometro si intravede un altro trend che certifica l’aumento della competitività della corsa: il vincitore della passata edizione, Lukas Kaufmann, arriva solo tredicesimo. Quest’anno non solo vede col binocolo i due del DMT Racing Team, ma non è neppure l’amatore più forte. È arrivato ad Appenninica dopo aver corso gli oltre duemila chilometri della Race Around Austria e ha un’aria molto felice ogni volta che si accenna al cibo italiano.

Nella seconda tappa, Porretta Terme-Fanano, i corridori fanno i conti col crinale appenninico. La salita vera e propria comincia al Rifugio della Segavecchia, il cui nome può derivare o dalla vicina (e scomparsa) segheria o da una leggenda del folclore romagnolo.

È durissima arrivare ai 1847 metri del Passo dello Strofinatoio: in alcuni passaggi al 33% tanti rider scendono e portano la bici in spalla per far passare il peggio. Finalmente ai corridori si spalanca - o meglio si spalancherebbe, dato il nebbione clamoroso - la vista sulla Toscana, fino al mare. Insomma, ci siamo: il crinale.

In rapida successione, rimanendo in quota si affrontano: Passo dei Tre Termini, Monte Cupolino, Lago Scaffaiolo e Passo di Croce Arcana. Il Passo dei Tre Termini si chiama così perché qui si incontrano i confini di tre province una volta Stati: Santa Sede (Bologna), Granducato di Toscana (Pistoia) e Ducato di Modena (Modena). Il Lago Scaffaiolo, invece, è citato persino da Boccaccio nel “De Montibus” (1373).

L’ultima asperità di giornata è quella che porta i corridori dal capanno Tassoni al Passo del Colombino, tra le vette di Monte Rondinara e Monte Lancio. Scollinato il passo, iniziano i 13 km finali, pressoché solo di discesa (quasi mille metri di dislivello negativo). La corsa si immette sul sentiero del C.A.I. 425, uno dei più apprezzati dai locali perché veloce e tecnico. Sul traguardo di Fanano i due del DMT Racing Team arrivano assieme, un po’ come abbiamo visto fare a Kwiatkowski e Carapaz al Tour de France.

Ramos ha sfruttato discese e problemi alla catena di Samparisi («ho fatto un fuori-giri in salita per recuperare, mi sono venuti i crampi e ho pensato che fosse meglio pensare a domani») per centrare il primo podio del suo 2020. Come dice un passaggio piuttosto azzeccato sulla Rider Guide, il vademecum che l’organizzazione ha fornito ai corridori, «in una gara come Appenninica potete essere ben allenati, ma mai pronti al 100%».

Tra i ritirati c’è Jan-Frederik Finoulst, che è giovane e alto e si è preparato a lungo per Appenninica. Ma non ce l’ha fatta ad arrivare a Fanano: due cadute nelle prime due tappe lo hanno costretto al ritiro. Siccome finora gli è andato tutto storto, ha molta voglia di chiacchierare: è un ricercatore nel settore dei materiali riciclabili, vive al confine tra Belgio e Paesi Bassi e mi presenta Joan, un attempato signore olandese che ha accompagnato lui e altri corridori fino in Italia. Quando gli chiedo cosa lo ha spinto a fare tutti questi chilometri, Joan risponde: «Sono un pensionato con la passione della bici, che dovrei fare?».

Yeah!

Tutti, mi spiegano quelli dell’ufficio stampa, conoscono Pier Paolo “Pippo” Marani nel mondo della mountain bike. È un eccentrico trackbuilder (cioè colui che va nel bosco e realizza il tracciato della corsa) emiliano, la cui opera d’arte sta in Val di Sole. Si chiama Black Snake: è forse la più bella e impegnativa discesa di Coppa del Mondo di downhill. Secondo tanti rider è la Kitzbühel della bici, secondo il suo creatore «se la subisci passivamente vai a casa» e nel 2021 ospiterà di nuovo i Mondiali.

Il soprannome della pista deriva dalle radici di cui è pieno il bosco: con la pioggia si anneriscono e secondo Marani è fondamentale lasciare la pista quanto più naturale possibile. Appenninica ha avuto la malsana idea di far tracciare a Pippo la terza tappa, che si chiama Yeah! proprio perché è una cosa che Pippo ripete spesso.

Lo incontro a Fanano mentre i corridori si sono già avventurati nei 50 km della terza tappa. Pippo ha una passione sconfinata per questo mondo, i capelli bianchi tirati su in un accenno di cresta, gli occhiali con montatura colorata e abbigliamento sportivo. È stato delegato tecnico della nazionale italiana di downhill e parla di ogni sua creazione come se fosse un figlio: parla per esempio della “Trail of Pioneers - Felix Pedro’s Gold, una traccia che ha dedicato alla memoria di Felice Pedroni.

Nato a Trignano di Fanano nel 1858, poco più che ventenne Pedroni cerca fortuna in America. La trova in Alaska, nella forma di oro: si apre un nuovo capitolo per Fairbanks, che grazie all’arrivo di cercatori d’oro diventa la città più popolosa dell’Alaska centrale. Oggi Fanano e Fairbanks sono gemellate. «Ho chiamato la corsa “dei Pionieri” perché già nel 1989 avevo un noleggio di mountain bike. Anch’io, a modo mio, sono stato un pioniere» afferma Marani.

Il percorso porta i corridori nuovamente sul crinale appenninico, per poi rientrare verso Fanano attraverso i cosiddetti Monti della Riva. Sono zone incredibilmente ricche di storie e tradizioni: ci si lascia sulla destra, per esempio, il lago di Pratignano, che vanta una mezza dozzina di fantasiose leggende su fate ed esseri del bosco.

Il finale è particolarmente tortuoso: si passano i torrenti Leo e Fellicarolo prima di rientrare a Fanano. Dopo aver condotto la gara per tutta la sua durata, Samparisi riesce ad avvantaggiarsi di qualche secondo su Becking, che gli è sempre stato un’ombra. Nelle battute finali, però, Samparisi sbaglia strada: rientra qualche secondo dietro Becking, che si rifiuta di fare la volata perdonando l’errore al valtellinese e lasciandogli la vittoria.

Samparisi, il più forte oggi, ha l’obiettivo di scalzare Ramos dal gradino più basso del podio. I passaggi più tecnici spaventano Ferreira: il gigante portoghese arriva solo, si fa per dire, quarto. Ma i minuti veri, come si dice, voleranno domani.

Queen stage

La quarta tappa di Appenninica parte poco dopo le otto del mattino. Fa un freddo inverosimile e, mentre l’organizzazione è concentrata su due fronti (garantire una partenza ottimale e smontare ciò che dev’essere trasportato all’arrivo di tappa), si possono osservare gli atleti mentre si preparano. Salta all’occhio come sia differente la preparazione di ciascun atleta: chi si cambia sul pullman della squadra, chi arriva già pronto per partire, chi non sembra pronto per nulla nemmeno una volta partito.

Un giudice di corsa ha qualcosa dire sulla telecamerina montata sul manubrio dal nono in classifica generale, il francese Joseph De Poortere. La mantellina viene smessa solo all’ultimo secondo utile da Milton Ramos; nelle retrovie qualcuno il passamontagna non si sogna nemmeno di toglierselo.

E poi si parte: è in programma la tappa regina, la Fanano-Castelnovo Monti. Oltre cento chilometri, oltre 4000 metri di dislivello positivo per circa sei ore previste di corsa. Dai 623 m.s.l.m. di Fanano, in 16 chilometri si arriva ai 1824 del Salto della Capra. È una delle tante cime con nome incredibile che fanno da contorno alla vetta più alta dell’Appennino settentrionale, il Cimone. Dopo l’ultimo breve tratto in costa, si scende attraverso suggestivi boschi di castagni. Il torrente Scoltenna - che dà il nome ad una battaglia tra longobardi e bizantini - viene guadato all’ingresso di Pievepelago.

Da questo splendido borgo di montagna si sale nuovamente verso la frazione di Sant’Anna Pelago. Un posticino di duemila anime in cui gli highlights sono una citazione in una canzone di Guccini e un paio di seggiovie per lo sci. Sant’Anna Pelago è - soprattutto - la patria del foionco, un animale di fantasia un po’ puzzola un po’ faina, che si dice succhi sangue, riesca a volare e sia il responsabile delle stragi di galline nella valle. Nel libro “Leggende del Frignano” di Scanabissi e Spennato, le due autrici ne fanno un ritratto del tutto assurdo: oltre alle caratteristiche precedenti, ha tre zampe, si accoppia solo in occasione di terremoti ed è molto goloso di vino rosso.

Lasciando il foionco ai criptozoologi, la corsa si inerpica sulle pendici del Monte Saltello e per brevissimi tratti sconfina in Toscana. In oltre 100 km di Appennino, i rider incontrano qualunque cosa: vecchie mulattiere abbandonate, strade forestali, asfalto rotto, prati erbosi, un’ampia carraia ghiaiata e discese single track (nelle quali cioè lo spazio dove far passare la ruota è inferiore al mezzo metro di larghezza), su un sentiero di montagna a mezza costa, su ponti di legno e in mezzo a ruscelli. Devono passare all’ombra di un faggeto e sopra le radici in un querceto, di fianco a castelli in rovina o per un paesino semi-deserto.

Così si arriva ad uno dei valici mitici che collegano Garfagnana e l’alta valle del Secchia: il Passo delle Radici. Si torna oltre quota 1600 con due passi relativamente vicini, Giovarello e Forbici, un altro dei posti in cui vale la pena fare una piccola sosta. Sul Passo delle Forbici si svolgono tuttora un sorprendente numero di eventi, gran parte dei quali con lo stesso protagonista: Giovanni Pascoli. In Le stagioni dimenticate. Gente di crinale, Luciano Rondanini riporta che il 6 agosto 1933 si tenne la prima, annuale celebrazione pascoliana «affidata all’amico del poeta, Gabriele Briganti. In quella occasione, Maria (Mariù) Pascoli, per la prima volta, abbandonò il “nido” di Castelvecchio e raggiunse il valico appenninico».

La carovana di Appenninica è già pronta ad accogliere i corridori in cima all’ultimo, asfaltato strappo di Via della Pieve. Quello di Castelnovo Monti è un finale breve, duecento metri al massimo, ma con pendenze in doppia cifra che non lasciano scampo a chi ha le gambe vuote. Becking e Ferreira vincono di nuovo in solitaria, dando almeno nove minuti a tutti. Per il terzo posto, invece, c’è molta più bagarre: De Poortere centra il primo podio ad Appenninica grazie a uno sprint prepotente su Samparisi. Il francese, poco dopo la tappa, pubblica su Instagram una foto del suo potenziometro: nel momento di massimo sforzo sulla rampa finale ha toccato quota 1580 watt, un dato spaventoso dopo sei ore di tappa.

Durante ogni frazione, l’organizzazione deve affrontare i problemi più disparati: dagli atleti che si perdono nonostante la traccia sul GPS (in particolare durante la Queen stage un atleta ha mancato di netto l’imbocco al Passo delle Radici) all’irrefrebabile voglia di agricoltori locali di passare sul percorso di gara coi loro trattori mentre passano i rider.

L’organizzazione, che mette a disposizione degli atleti tante cose tra cui tracker per seguire l’andamento della corsa live e due moto per il servizio medico, è a detta di tutti eccezionale. «Ma potrebbe migliorare» riflette Andre Marconi, team manager del DMT Racing Team, con cui ha girato tutto il mondo facendo questo tipo di gare. «Lasciami dire, intanto, che era ora qualcuno mettesse in piedi una corsa del genere in Italia. Abbiamo partecipato perché il progetto ci interessa e vogliamo sostenerlo. Detto questo, non puoi mettere due atleti tra i migliori del mondo in un due stelle. Sarebbe stato carino poter, che ne so, scegliere tra il due stelle vicino al paese o il quattro stelle un po’ più lontano». È una critica interessante perché arriva da un altro punto di vista: un amatore olandese in corse del genere ha vissuto condizioni ben peggiori, ma un atleta top vuole un livello top. È comprensibile.

The Rock

Tiago Ferreira non ha mai avuto, in tutta la settimana di corsa, particolare voglia di fare conversazione. Per questo non ci si crede quando, pochi minuti prima del via della quinta tappa, ride e scherza col cronometrista Nabucco (è di origine brasiliana e si chiama davvero così: «mio padre guarda troppe opere di Verdi»). Parlano in portoghese e, mi confesserà in seguito Nabucco, stanno insegnando parolacce a Becking.

Dal centro di Castelnovo, attraverso carraie piuttosto agevoli la corsa arriva al borgo montano di Montemiscoso. Qui ci si immette sulla durissima provinciale del Ventasso, che porta i rider fino alla partenza degli impianti sciistici della zona. Comincia qui, lasciando l’asfalto, la breve ma intensa ascesa al punto più alto di giornata, il Lago Calamone, a oltre 1400 m.s.l.m. Costeggiato il lago e il rifugio Venusta, meta di pellegrinaggio preferita dai turisti in estate, i trail diventano veloci e divertenti. In località Ginepreto l’ultimo strappo verso la pietra di Bismantova, che viene aggirata per rientrare in Piazza Peretti a Castelnovo.

55 km con 2000 metri di dislivello non facili dopo la tappa regina di ieri e in vista dell’altra tappa oltre i 100 km di domani. Anche per questo, fino al Lago Calamone, nessuno vuole premere sull’acceleratore e comanda la corsa un drappello compatto di nove corridori. In un finale che il nono classificato Juul van Loon ha definito «sgangherato, che assomiglia alle corse delle Ardenne», un corridore potente come Tiago Ferreira è riuscito a spianare le pietre e portare a casa la vittoria di tappa.

L’ex campionessa del mondo e due volte vincitrice della Cape Epic (2012, 2017) Esther Süss centra la quinta vittoria in altrettante tappe. «Mi piace di più andare in salita che in discesa. Vincere tutte le tappe? L'ho già fatto alla Transalp, alla 4 Islands e all'Andalucia Race, quindi perché no».

Arrivano nuovamente al traguardo assieme Lucia Minervino e Carmelo Luciano. Vestono la stessa maglia, quella del Pollino Bike Tours, «ma lei è calabrese e io pugliese. Quando hanno tolto la categoria a coppie, abbiamo pensato di rimanere sempre insieme lo stesso» dice Carmelo. Mentalmente nella MTB è fondamentale non essere sempre lasciati soli. «Ieri siamo arrivati al traguardo grazie all’aiuto di due atleti olandesi, che ci hanno prestato pompa e l’azoto liquido per cambiare e gonfiare il copertone di Lucia. Ci si aiuta».

Mentre Lucia parla al telefono, sopraggiunge Nicola Pastena. È un ragazzo solare nonostante sia stato uno dei più colpiti da problemi meccanici. «Tutte queste rocce mi stanno facendo venire il mal di testa», scherza Pastena. Una frase di Carmelo che sento mentre mi defilo un po’, lasciando che gli atleti si rilassino dopo un’altra sfacchinata: «Siamo italiani, ma l’Appennino non lo conosciamo proprio. Pensiamo sempre e solo alle Alpi quando parliamo di montagna. I paesaggi appenninici sono altrettanto mozzafiato».

Si aggira per il race village anche Enrico Bini, il sindaco di Castelnovo Monti: «Quest’anno non abbiamo potuto organizzare, causa pandemia da coronavirus, la storica fiera di San Michele» dice con rammarico Bini. Come lo scorso anno, Appenninica ha portato nel comune un sacco di persone, italiane e non. «Chi viene da queste parti per la prima volta, torna».

Bini è seduto di fronte sul prato soleggiato di fronte alla parrocchia Don Bosco. Tutto attorno a noi, accade Appenninica: gli ultimi arrivati barcollano all’arrivo affaticati, chi ha già tagliato il traguardo mangia e se la ride, qualcuno passa l’olio sulla catena in vista di domani. Matteo Tiberi, mentre lava la bici del fratello Enrico, con marcato accento romagnolo dice, riferendosi alla bici di Ferreira: «Serve coraggio a farla viaggiare, diobono sarà neanche otto chili».

Four Rivers

Vecchia regola del ciclista: non festeggiare se stai allegramente oltrepassando un fiume. Ci sono ottime possibilità, infatti, che si debba risalire il fianco della montagna scavato dal fiume stesso. Nella sesta tappa di Appenninica si incontrano ben quattro corsi d’acqua: Enza (oltrepassato il quale si entra nel parmense), Parma, Baganza e Taro. Come vuole il precetto dei fiumi, altrettante salite: Monte Piano, Monte Fuso (vetta più alta di giornata) e Valico di Fragno. Nell’abitato di Boschi di Bardone comincia la salita finale. Svolta a destra e ci si inerpica su per le pendici del Monte Prinzera, l’unico rilievo ofiolitico della zona. Nella picchiata verso Fornovo si incrocia di nuovo il tratto parmense della Via Francigena e, costeggiando il Taro per una dozzina di chilometri, si scorre verso l’arrivo.

L’arrivo nel cortile interno della Corte di Giarola, sorta nel VIII secolo e tuttora sede di enti naturalistici, musei e ristoranti, è festeggiato con particolare calore dai presenti. C’è un ulteriore fattore, infatti, di cui non abbiamo parlato, ma che ha accompagnato i corridori dal chilometro zero della tappa odierna: la pioggia. Se per cinque giorni le giornate erano state meteorologicamente più che discrete, nella sesta tappa è venuto giù il diluvio universale. I corridori entrano alla Corte di Giarola pieni di fango, fin sulle lenti degli occhiali. Le foto sono piuttosto eloquenti:

Visualizza questo post su Instagram

Mud faces 😬 Congrats you all for finishing this epic stage 💪🏻 📸 @theoutdoorlab #appenninicafamily #noshortcuts #adventure #bikelife #bikelove #mtblife #mtb #stagerace #appenninicamtb #parmigianoreggiano #InEmiliaRomagna #mtbstagerace #altaviadeiparchi #mountainbike #apennine #mountainlove #ciclismo #etappenrennen #italy #bikevacation #bikebuddies #marathonmtb #mountainbikeracing#mtbislife #bikeforever #keeppedaling #mtbitalia #appenninotoscoemiliano #igersemilia #mud

Un post condiviso da Appenninica MTB Stage Race (@appenninicamtb) in data: 2 Ott 2020 alle ore 8:12 PDT

Anche le condizioni dei sentieri, ovviamente, ne hanno risentito: il segmento finale di discesa dal Prinzera prevedeva un paio di chilometri su terreno argilloso, che appena ha incontrato le ruote grasse dei corridori è diventato colla. Il più veloce degli atleti ad aver attraversato il pantano, Milton Ramos, lo ha fatto in quasi undici minuti. In condizioni normali se ne impiegano circa la metà.

Qualcuno, appena taglia il traguardo, si corica per terra chiudendo gli occhi. Le pupille di tanti sono rosso fuoco per quante volte hanno dovuto sfregare via terriccio e acqua. Altri pensano sia meglio sfruttare l’idropulitrice e spararsela addosso per levarsi quello strato di fango che li ricopre. Non passa molto tempo prima che bagnarsi a vicenda con la canna dell’acqua diventi uno scherzo.

Il video-racconto della tappa è un must watch, soprattutto nella parte finale. Il britannico Edward Gurney non ce l’ha fatta a finire entro tempo massimo e, mentre ha ancora fango sulle labbra e nelle orecchie, esclama felicissimo che «questo non è un giorno bello o brutto. Questa è ciò che chiamiamo giornata memorabile».

Il gran finale

L’ultima tappa è la meno impegnativa. Solo 30 km per 600 metri di dislivello nei Boschi di Carrega, un parco naturale celebre per la mountain bike nel parmense. Dalla partenza all’arrivo, sempre in Corte di Giarola, passa poco più di un’ora: per tipo di sforzo assomiglia ad una gara di cross-country.

Qualche membro dello staff, tra cui Simone, una guida ciclo-escursionista di Moncalieri, mi porta con sé al punto di ristoro. Arrivare al posto designato, tuttavia, è più difficile del previsto: un cancello chiuso costringe il pulmino (che per le tortuose stradine dei Boschi traina a fatica un rimorchio) a fare un giro lungo, invadendo - senza lasciare traccia - un paio di proprietà private. Et voilà, obiettivo raggiunto.

Parcheggiato in una radura, si traina il rimorchio per un centinaio di metri. Se oggi la tappa è breve e probabilmente nessuno si fermerà nemmeno all’unica feeding zone, ieri invece è stato un delirio, mi dice Simone: «Con tutto quel fango, abbiamo dovuto bucare le bottiglie d’acqua per spruzzarne a pressione il contenuto sulle parti meccaniche delle bici. Avessimo avuto un’idropulitrice e quel coso per le carte di credito, il POS, saremmo diventati ricchi».

Viene montato il tendone, sotto al quale un tavolo è imbandito con bevande energetiche, snack e altri sfizi per ciclisti. Attaccano la segnaletica che avvisa i corridori del punto ristoro, ma come previsto nessuno dei primi 40 si ferma. Siamo nella parte esterna di un tornante nel bosco, vengono su che fan paura. Fa la curva esterna e tenta di prendere un bicchiere al volo il numero 43, Peter Wouters, ma lo sforzo fisico gli rallenta le dita, che riescono solo a rovesciare Coca-Cola dappertutto.

I distacchi all’arrivo sono minimi, le velocità da capogiro. Il vincitore di tappa, Rob van der Werf, quinto in classifica generale, ha tenuto una media di quasi 30 km/h. Joseph De Poortere chiude secondo, battuto allo sprint, mentre i due DMT fanno terzo e quarto.

È arrivata sera, l’ultima. Il ristorante nella di Corte di Giarola sta preparando la cena dei finisher, cioè il pasto in cui tutti finalmente festeggiano la medaglia ricevuta per aver terminato la corsa. Mentre tutti attendono un Grand Master per la premiazione finale (ha dormito un po’ troppo, si scoprirà in seguito), Lorenzo Samparisi mi porta a bordo del pullman della sua squadra.

Ha già la medaglia di bronzo al collo mentre apre la portiera. Se già fuori dal pullman c’è una considerevole quantità di roba - un gazebo sotto al quale lui e Gaia Ravaioli fanno i rulli, un mobiletto portatile pieno di pezzi di ricambio, materassini per lo stretching - dentro sembra una casa ambulante. Tra le altre cose, lì dentro ci sono fino a nove posti letto, doccia, lavatrice, forno, fornello a gas, tavoli e cassetti dappertutto. «È un bel lusso» ammette Samparisi, che qua dentro sta benissimo. «Una volta siamo stati a bordo anche per tre settimane filate. C’è pure una Play-Station».

Chiedo a Lorenzo cosa si porterà dietro di questa esperienza Appenninica, lui ci pensa un po’ poi risponde: «Ricordo che durante una tappa eravamo in testa alla corsa io, Becking e Ferreira. Ci siamo guardati e ci siamo detti: ‘Facciamo una foto?’ Era troppo bella la vista da lassù».

Non è facile decidere con quale storia finire, quale ultima sfumatura raccontare di una corsa che ha offerto così tanti spunti e così tante storie. Luoghi, eventi, persone. Maria ed Eugenia, per esempio, dopo aver seguito Appenninica fino alla fine, progettano di passare gli ultimi giorni in Italia alle Cinque Terre. Durante la serata finale, l’organizzazione ha deciso di rendere Milton Ramos l’uomo più felice del pianeta regalandogli una mezza forma di Parmigiano Reggiano.

Probabilmente, però, la cosa più Appenninica di tutte è opera del numero 49, il polacco Zbigniew Mossoczy. Capelli lunghi e biondi, mascella sporgente e quadrata, secondo van Loon di lavoro fa il venditore di cucine ed è pure molto indaffarato a giudicare dal numero di chiamate che riceve ogni giorno. Ecco, a una ventina di chilometri dalla fine della quinta tappa, a Mossoczy si sfilaccia la catena. Il supporto tecnico è già parecchio alle spalle, l’unica possibilità è andare avanti. A piedi, di corsa, usando la bici a mo’ di monopattino. Sul traguardo di Castelnovo, stremato, urla di gioia: è arrivato.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura