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Foto di Doug Pensinger/Getty
NBA Nicolò Ciuppani 12 gennaio 2017 14'

Pietra angolare

Nikola Jokic è il miglior lungo passatore dei prossimi 10 anni di NBA.

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Nel giugno del 2014, quasi nessuno poteva dirsi certo certo che Nikola Jokic sarebbe sbarcato in NBA per restarci a lungo. Persino i Denver Nuggets, che lo avevano chiamato al secondo giro con la scelta numero 41 del Draft, erano internamente in conflitto sulla bontà del giocatore.

 

Quattordici mesi dopo quella data, Jokic ha effettuato il salto nel basket americano a tutti gli effetti, presentandosi al training camp con oltre 10 chili in meno rispetto al momento in cui i Nuggets si erano accaparrati i suoi diritti. Come confessato in un’intervista con ESPN, durante l’estate le sue abitudini alimentari erano state stravolte dai preparatori atletici della squadra e i tre litri di Coca Cola che tracannava quotidianamente erano stati eliminati del tutto. Dopo una vera e propria metamorfosi fisica, Denver ha pensato di fargli effettuare il salto al di qua dell’oceano Atlantico e di contarlo a roster per la stagione seguente.

 

Nikola era comunque solamente il terzo centro nelle rotazioni dietro all’infortunato Jusuf Nurkic e a Joffrey Lauvergne. Oggi, a distanza di pochi mesi, sembra assurdo pensare che a Malone e al resto del coaching staff siano volute 30 partite persino in questa stagione per capire che Jokic è il loro miglior giocatore, dopo l’eccellente annata da rookie disputata in Colorado.

 

Da quando Jokic è entrato stabilmente in quintetto l’intero gioco dei Nuggets passa da lui e Denver è in qualche modo tornata in corsa per i playoff, sebbene non abbia trovato un calendario così probante e soprattutto la corsa all’ottavo posto si sia rivelata una sorta di guerra tra poveri. Ad ogni modo, il quintetto con Mudiay, Harris, Gallinari, Chandler e il serbo è arrivato a toccare quota 112 punti segnati su 100 possessi, che sarebbe la media con cui Houston sta sotterrando di triple chiunque gli capiti a tiro da tutto l’anno. Ma di indizi per far capire al suo coaching staff e a tutti noi che ci stavamo perdendo qualcosa di grosso, ne aveva lasciati parecchi nei mesi precedenti.

 

 

Statement game(s)

 

Quando si valuta un giocatore scelto al secondo giro si è soliti partire con tutte le inibizioni e i pregiudizi del caso, specie se lo scouting report parla di un giocatore fuori forma, lento, non adatto al gioco moderno. Jokic aveva fatto piuttosto bene in Summer League e in pre-season, ma nulla che concretamente avesse fatto pensare a tutto ciò che è seguito.

 

La sorpresa vera e propria è arrivata il 18 di novembre contro i San Antonio Spurs, quando Jokic ha preso per il collo la partita senza lasciarla più andare via. Ha segnato 23 punti mostrando il repertorio completo fatto di floater, deviazioni a rimbalzo e tocchi morbidissimi sotto canestro; ha fatto canestro in post contro Tim Duncan e David West; stoppato Aldridge al ferro; rubato palla a Kawhi in transizione e, sul proseguo dell’azione, è andato a segnare una tripla a rimorchio marcato dallo stesso. Praticamente chiunque a quel punto si è sentito costretto a chiedersi chi diavolo fosse e da dove diamine fosse uscito.

 

La prima statement game della carriera di Jokic

 

Dopo quella partita, esattamente come qualunque MyPlayer di NBA 2K, Jokic ha cominciato a rosicchiare minuti ai compagni e arrivati a Gennaio è diventato titolare. Ad aprile è stato nominato terzo miglior rookie dietro a due mostri come Towns e Porzingis (che ha superato per rendimento nella seconda parte di stagione, a dirla tutta). Ma la seconda partita in cui Jokic ha costretto tutti a segnarsi il suo nome invece è arrivata nell’estate olimpica, ovviamente contro Team USA.

 

Dopo tre partite piuttosto incolori, Jokic è quasi riuscito nell’impresa di trascinare la Serbia in un upset storico, perdendo di soli tre punti contro Durant e soci. Jokic è stato il migliore in campo di entrambe le squadre per gran parte della partita, chiudendo a quota 25 punti con soli 15 tiri, 6 rimbalzi e 3 assist. Ancora una volta sembrava non esistesse nulla che potesse realmente fermarlo: alternando tiri dall’arco, clinic di post basso, transizione e due-contro-uno, coach K è dovuto ricorrere a tutte le carte del mazzo per evitare il tracollo. La perdita di peso avvenuta l’anno prima è stata fondamentale in questa prestazione, dando la possibilità al serbo di muoversi senza sosta a tutto campo e sgusciare tra le maglie avversarie per ricevere palla dalla media e dare vita allo show.

 

Nonostante le prestazioni precedentemente elencate e aver mantenuto una stagione da rookie sullo stesso livello di quelle di Towns e Porzingis, coach Michael Malone non è sembrato comunque deciso sulle gerarchie della squadra, in particolar modo nel reparto lunghi. Inizialmente i Nuggets hanno provato a far coesistere entrambi i loro centri balcanici sotto canestro, e non è stato affatto un bello spettacolo. Il quintetto con Jokic e Nurkic era troppo lento in difesa, venendo vivisezionato da ogni penetratore che incontravano, e la quantità di massa accorpata in attacco creava un ingorgo tale che diventava impossibile sfruttare il gioco dalla media di Gallinari; inoltre le linee di passaggio utili venivano ridotte all’osso e Mudiay, che non ha mai brillato per letture, si è ritrovato continuamente a palleggiare contro una falange di difensori. L’esperimento di far giocare due centri nel gioco moderno sembrava destinato al fallimento sin dal principio, e non ha aiutato il fatto che Jokic abbia avuto molte meno possibilità di creare gioco in prima persona o che fosse marcato dal 4 avversario, che generalmente è sempre estremamente più veloce di lui e spesso anche più forte fisicamente.

 

Dopo una sconfitta contro Dallas (e non la versione vagamente presentabile delle ultime settimane) Malone ha colto l’occasione del rientro dall’infortunio al piede di Gary Harris (il quale è ancora vergognosamente sottovalutato, ma questo è un altro discorso) per cambiare strutturazione, eppure inizialmente il giocatore che ha visto ridurre sensibilmente il proprio minutaggio sul parquet è stato proprio Jokic. La stagione sembrava per lui segnata, e perfino lo sviluppo futuro sembrava essere in discussione.

 

Le fortune sono però cambiate quando il coach ha deciso di effettuare un altro ritocco al quintetto base inserendo il nostro tra i titolari. Magicamente, dopo le prime quattro partite Jokic ha toccato medie da 15 punti, 9 rimbalzi e 5 assist tirando con il 71% dal campo. I Nuggets si sono finalmente resi conto della loro pietra angolare e, più che trovargli ritagli di gioco tra gli avanzi degli altri, hanno iniziato a costruire attorno a Jokic. Meglio tardi che mai, direbbe qualcuno.

 

 

Point Center

 

Il trend della NBA si sta indubbiamente spostando verso il playmaking 4, con giocatori versatili che fungono da facilitatori per spaziare il campo e creare nuove linee di passaggio. Jokic è un giocatore diverso: è un vero e proprio point center. L’asse play-centro (che appartiene a un modo di pensare talmente decrepito che vorrei non leggere o sentire mai più) collassa con Jokic in un unico punto, dove i due ruoli coesistono nello stesso giocatore. Infatti non è solo uno dei migliori passatori tra i lunghi – e parlo di migliori due, perché a parte Marc Gasol non esiste un centro in NBA che la passi meglio già adesso – ma perché i Nuggets si affidano a lui per fare le cose che, nella retorica classica, entrambi i ruoli dovrebbero svolgere.

 

 

Jokic è spesso colui che porta palla oltre la metà campo, azzerando il rischio di palla persa per un passaggio in uscita alla difesa o un entry-pass in attacco. È lui stesso a posizionarsi dove dovrebbe ricevere in post alto, sfruttando poi l’altezza e la delicatezza della mano per servire Harris che gli orbita attorno.

 

Nel caso precedente Jokic inizia l’azione da rimessa da fondo, ma i Nuggets non disdegnano di fargli guidare la transizione in attacco. Il serbo non sarà mai il giocatore più fulmineo in un campo da basket, ma ha mani sapienti per difendere il palleggio e una visione di gioco celestiale, che spesso risulta comunque nella migliore opzione per un contropiede anche quando non è eseguito al massimo della velocità.

 

 

Eliminando la necessità di servire una guardia per aprire la transizione, i Nuggets possono sfruttare i loro piccoli per sorprendere i lunghi avversari quando questi sono lenti a rientrare. Rubio attacca Jokic non appena questo passa sulla mano sinistra, ma Nikola torna subito sulla mano forte e serve il taglio di Harris con un no look schiacciato a terra di una bellezza folgorante.

 

Ovviamente Jokic non è sempre l’addetto a portare palla, anche perché i vari Mudiay, Harris e occasionalmente Gallinari possono farlo, ma è la possibilità di poterlo fare che cambia completamente il modo di giocare dei Nuggets. Sono concetti molto più vicini al basket di George Karl, di cui a Denver ha lasciato senz’altro un buon ricordo negli anni in cui ha allenato, che a quelli di Malone.

 

La capacità di Jokic di passare è altamente spettacolare e divertente per chi guarda, ma altrettanto utile quando si gioca a metà campo. Jokic ama servire passaggi no look in tutte le direzioni, premiando con generosità i compagni che si smarcano. Gioca il pick and roll sia da bloccante che da portatore di palla, serve da entry passer in punta e più in generale esegue sempre il ruolo del facilitatore.

 

 

Questo è un gioco che i Nuggets chiamano almeno un paio di volte a partita: Jokic si posiziona sulle tacche alla destra del canestro, un compagno lo serve con un lob e taglia alla sua destra. Se ha bruciato l’avversario Jokic lo serve da sopra la spalla oppure, in alternativa, inizia ad attaccare il centro in post basso.

 

Un’abitudine che deve imparare a perdere in fretta è quella di sfruttare la sola mano destra, perché ha la tendenza ad usare sempre quella e preferire i passaggi da quel lato del corpo, risultando prevedibile – una cosa che ai playoff finirebbe velocemente negli scouting report avversari. Denver non ha un esercito di tiratori piedi per terra – il migliore potrebbe essere a sorpresa Gallinari, con un insospettabile 53.3% dagli angoli – ma la carenza di tiro viene sopperita da un elevato numero di giocatori dinamici e in moto perpetuo. Harris sa zigzagare come pochi altri tra la selva di corpi in area; Faried riesce sempre in qualche modo a balzare davanti al proprio difensore: sono tutte facili soluzioni per Jokic e la sua capacità magica di servire sempre qualcuno libero. Questa quantità di giocatori estremamente mobili permette a Denver di spaziare il campo come non avrebbe mai potuto fare con la presenza contemporanea di due centri, aprendo nuove linee di taglio e di passaggio.

 

 

Occasionalmente i Nuggets riescono a costruire un tiro dall’angolo, verso il quale il nostro point center preferito effettua un passaggio di ordinaria amministrazione, impugnando la palla con una mano sola e rigorosamente senza guardare il tiratore.

 

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Tags : denver nuggetsnba 2016/17

Nicolò Ciuppani: parla di basket su Ball Don't Lie, ne scrive sul Buzzer Beater Blog e programma analytics per Chartside.

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