Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
La più grande gara di nuoto di tutti i tempi
24 giu 2022
24 giu 2022
Storia della finale dei 100 metri farfalla alle Olimpiadi di Pechino.
(di)
(foto)
Dark mode
(ON)

Brett Hawke ha la testa liscia come un parquet appena lucidato, gli occhiali spessi, due labbra talmente fine che sembrano due pagine di un giornale. A vederlo non si direbbe che un tempo si guadagnava da vivere facendo il nuotatore professionista. Adesso sembra più nella parte dentro le sue anonime polo nere, dietro un microfono, mentre conduce uno dei podcast più seguiti dagli appassionati di nuoto, Inside with Brett Hawke. Le sue interviste non sembrano mai poter andare particolarmente in profondità, eppure in qualche modo ci riescono sempre.


 

Durante una delle fasi più dure della pandemia, tra ottobre e novembre del 2020, Hawke ha intervistato due tra gli attori non protagonisti di quella che viene generalmente considerata la più grande gara di nuoto di tutti i tempi, la finale dei 100 metri farfalla delle Olimpiadi di Pechino del 2008. E cioè Bob Bowman, lo storico allenatore di Michael Phelps, che quella gara la vinse, e Milorad Cavic, il nuotatore serbo che in quella gara arrivò secondo per appena un centesimo di secondo.


 

Ci sono svariati motivi per cui quella gara, e in particolare il finale di quella gara, è rimasta nella storia, e proverò a elencarli tutti in questo pezzo, ma per adesso vi basti sapere che si è saldata a tal punto nella memoria collettiva che persino Brett Hawke - un ex nuotatore, oggi allenatore e tra i massimi esperti di questo sport - non riusciva a ricordare chi fosse arrivato terzo. Nell’intervista con Cavic, dopo 50 minuti densi come il petrolio, lo ammette sciogliendosi in una risata, come se stesse cercando la complicità del suo interlocutore: «Mentre preparavo la puntata me lo sono chiesto ma proprio non riuscivo a ricordarmelo. Mi dispiace per quel ragazzo».


 


Nemmeno il tempo di finire la frase che Cavic ha già preso la rincorsa per dimostrare che invece lui se lo ricorda benissimo chi è quel ragazzo. È l’ex nuotatore australiano Andrew Lauterstein e Cavic invita tutti a seguirlo sui social. Dice che è una dose di ispirazione quotidiana perché si allena più duramente di quando era un atleta, che sembra più in forma oggi di quando nuotava tra i professionisti. Cavic sembra avere un particolare riguardo per i dimenticati dalla Storia ma nell’impeto finisce per fare una riflessione più ambigua di quanto l’inizio del discorso non lasciasse presagire. «Mi chiedo se tutto questo non abbia a che fare con il fatto che è arrivato terzo», si lascia scappare Cavic, che dopo un momento si corregge: «Non che ci sia nulla di male».


 

Non ho capito esattamente cosa intendesse Cavic, soprattutto alla luce del fatto che la carriera ad alti livelli di Lauterstein è durata appena tre anni e che quella medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Pechino, in una gara in cui correvano il più grande nuotatore della storia e uno dei più grandi specialisti farfalla della sua generazione, è stata l’unica in una gara individuale di tutta la sua vita. La sensazione è che comunque ci credesse davvero che quel terzo posto avesse influenzato tutta la sua vita successiva. E il motivo, credo, è che più che di Andrew Lauterstein stesse parlando di sé stesso.


 

Milorad Cavic è nato ad Anheim, in California, ma quasi subito ha deciso di rappresentare la Serbia. Nell’intervista con Brett Hawke, per spiegare questa decisione, parla dell’importanza delle tradizioni per suo padre, scappato da Belgrado prima in Canada e poi negli Stati Uniti nei giorni del collasso dell’ex Jugoslavia. Poi, in maniera molto onesta, aggiunge il timore di non riuscire ad entrare nella Nazionale a stelle e strisce, che ancora prima di Phelps aveva visto l’ascesa di un altro specialista farfalla come Ian Crocker. Nonostante sin da subito si sia rivelato un nuotatore di alto livello, se avesse scelto la Nazionale statunitense forse Cavic non sarebbe mai arrivato a competere per gli eventi individuali ma il paradosso è che probabilmente avrebbe vinto più medaglie attraverso le gare a squadre. In ogni caso, Cavic ha finito per abbracciare la sua identità serba al punto che agli Europei del 2008, dopo aver vinto i 50 farfalla e aver battuto il record europeo, si presenterà alla cerimonia del podio con una maglia con scritto “Kosovo is Serbia” (rischiando di perdere sia la medaglia che il record). Su questo probabilmente ebbe davvero una grossa influenza il padre, un uomo a quanto pare estremamente esigente nei confronti dei figli, come spesso accade nelle famiglie di immigrati. Cavic ha raccontato che quando con suo fratello più piccolo si lamentavano di qualcosa, il padre gli diceva di vedere cosa aveva fatto nella vita Kobe Bryant (per ironia della sorte un altro campione definito dall’ossessione verso il più grande di sempre).


 

Cavic, però, non è il Kobe Bryant di Michael Phelps. Alle Olimpiadi di Atene del 2004, mentre Phelps va già vicino allo storico record di medaglie d’oro vinte in una singola edizione dei Giochi fissato da Mark Spitz nel 1972 (il record era di sette, Phelps ad Atene arriva a sei), Cavic non riesce a qualificarsi alla finale dei 100 metri farfalla per il più ridicolo dei motivi. In semifinale, arrivato primo alla virata dei 50 metri, il suo costume intero si piega in maniera innaturale all’altezza del petto e inizia a imbarcare acqua. Zavorrato in questo modo, il nuotatore serbo arriva ultimo e viene eliminato. Cavic non riesce ad arrivare in finale nemmeno nei 50 metri e nei 100 metri stile libero, eliminato ancora prima della semifinale (nel secondo caso non riuscirà a qualificarsi per due centesimi di secondo). Cavic ha raccontato ad Hawke che dopo le Olimpiadi di Atene il padre non gli ha parlato per tre mesi.


 

C’è da dire che, almeno per come si racconta, Cavic non è un nuotatore come gli altri e sembra meno ossessionato dalla vittoria di quanto la sua epoca gli imporrebbe. Mentre Phelps faceva evolvere il nuoto con un approccio scientifico ed efficientista, che puntava a studiare ogni gara vasca per vasca calcolando i tempi e l’esatto numero di bracciate per vincere, Cavic ha invece un approccio da artista, nella speranza di fare qualcosa per cui venga ricordato. «Se trasformi tutto in qualcosa che è specificamente scientifico ed analitico penso che si perda la possibilità che accada qualcosa di magico e bello», dice Cavic nell’intervista a Brett Hawke. Il nuotatore serbo rifiuta qualsiasi approccio strategico al suo sport; tra le sue massime ispirazioni cita Steve Prefontaine, il celebre mezzofondista statunitense che ai Giochi Olimpici del 1972, nei cinquemila metri piani, decise di guidare il gruppo dall’inizio alla fine senza alcun tatticismo. Prefontaine alla fine arrivò quarto ma su quella gara esistono oggi due film e un documentario, e la sua storia ispirò il cosiddetto running boom degli anni ’70 (merito anche del fatto che uno dei suoi primi allenatori era uno dei cofondatori della Nike, i cui quartier generali in Oregon hanno oggi un edificio a lui dedicato).


 

Cavic invidia la capacità di Prefontaine di essere andato oltre lo sport, e cioè di aver contribuito a renderlo interessante al di là del semplice numero di medaglie e record. Per la stessa ragione dice di essere un ammiratore di Gary Hall Jr, il nuotatore statunitense che si presentava a bordo vasca con un accappatoio di seta a stelle strisce e dei pantaloncini da pugile con scritto in rosso il suo nome. Gary Hall Jr in realtà si comportava veramente da pugile, utilizzando il trash-talking a pochi minuti dall’inizio della gara ed entrando in piscina facendo finta di boxare, e Cavic sembra affascinato dalla naturalezza con cui metteva in discussione il limite tra sport e spettacolo, che per lui è ciò che rende veramente interessante una gara. «Annunciare cosa farai alza la posta in palio e ti mette a tuo agio con la pressione della gara», dice Cavic «Penso che non solo io ma anche tutto il nuoto abbia tratto vantaggio dalla mia spavalderia, perché rende le cose più interessanti».


 

Cavic, parlando della sua spavalderia, si riferisce a ciò che successe prima delle Olimpiadi del 2008, quando Phelps annunciò di voler battere il record di Mark Spitz (anche su invito della Speedo, uno dei suoi sponsor, che su quel record aveva messo una “taglia” da un milione di dollari), e lui di tutta risposta, nel contesto di un evento preparatorio negli Stati Uniti, disse: «Io voglio uccidere il drago», dove il drago ovviamente è Michael Phelps. Cavic utilizzò letteralmente queste parole, e ad infiammare ulteriormente l’attesa per il loro scontro c’era anche il fatto che la finale dei 100 metri farfalla avrebbe rappresentato la possibilità per Phelps della settima medaglia d’oro. La possibilità, cioè, di eguagliare Mark Spitz. Nelle settimane successive, poco prima della loro gara, Cavic specificherà: «Phelps è il migliore che questo sport abbia mai visto, non lo sto negando, il migliore che le Olimpiadi abbiano mai visto. Ma sarebbe positivo per il nuoto se perdesse. Siamo onesti, è vero, lo sapete che ogni tanto perdere fa bene, lo so perché ho perso un sacco di volte. Penso sia positivo per lo sport e per lui se perdesse una volta, solo una volta. […] Sarebbe bello se un giorno si parlasse delle sette medaglie d’oro di Phelps e del fatto che ha perso l’opportunità di vincere l’ottava. E quando se ne parlerà ci si chiederà chi è il tizio che gliel’ha portata via. E io vorrei tantissimo essere quel tizio».


 

L’aspetto più divertente di queste dichiarazioni è che Cavic non fa nemmeno trash-talking ma anzi esplicita subito che per lui il fatto che Phelps perda l’ottava medaglia d’oro è semplicemente più interessante. Cavic, lo dice esplicitamente, fa tutto questo non perché ci sia qualcosa di personale con Phelps ma per lo sport, e torna in mente quel limite tra sport e spettacolo, e tra sport e vita vera, di cui si parlava prima con Prefontaine. Il problema è che, per quanto ci si possa illudere il contrario, questo confine non è netto, tutt’altro, e fa impressione sentire Cavic, interrogato su quanto gli sia costata la sua assenza di strategia nella sua carriera, citare proprio Prefontaine, che quel limite era disposto a superarlo con tutte le scarpe. «A chi gli chiedeva di risparmiarsi, a chi gli diceva che non c’era bisogno di essere sempre primi, Prefontaine rispondeva che la peggiore sensazione del mondo era finire una gara sapendo che hai ancora qualcosa in corpo. E poi aggiungeva: e l’unico modo per sapere che ho dato tutto in una gara è se alla fine muoio».


 

L’altra cosa che non aveva calcolato Cavic è che Phelps non era tipo da finezze del genere, e al contrario era uno che prendeva qualsiasi cosa sul personale e si caricava di energie mentali proprio da affronti come questo. Bob Bowman, l’allenatore che lo ha seguito per tutta la sua carriera da quando aveva 11 anni, ha raccontato sempre a Brett Hawke che, dopo aver vinto la sesta medaglia d’oro a Pechino, Phelps era fisicamente esausto e aveva paura che potesse davvero perdere la settima nei 100 metri farfalla. Come soluzione estrema, allora, Bowman, che conosceva benissimo Phelps, fece una cosa che non aveva mai fatto prima. La mattina prima della finale, a colazione, si andò a sedere accanto a Phelps e gli disse: «Lo sai cosa ho letto sui giornali stamattina? Cavic ha detto che per il nuoto sarebbe meglio se tu non vincessi otto medaglie d’oro e che sarà lui a toglierti l’ottava». Bowman ha dichiarato di aver visto Phelps crescere fisicamente dalla rabbia, come pensiamo possa fare un drago. «Non dovevo fare altro», ha dichiarato Bowman «Ho pensato: ok, ho fatto tutto ciò che potevo. Era pronto a quel punto».


 

La gara andò come tutti si aspettavano. Cavic, muscolarmente massiccio e compatto, partì come un proiettile, arrivando primo alla prima e ultima virata. E Phelps, che invece era alto e slanciato, iniziò a recuperare terreno solo nella seconda e ultima vasca. Fu nell’ultima decina di metri che si decise tutto. Phelps, ancora in svantaggio nonostante la rimonta, decise di interrompere quella che sarebbe dovuta essere la sua ultima bracciata per caricarne un’altra e darsi più spinta sull’allungo finale. Per questa ragione, se vedete l’impressionante slow-motion del finale vi renderete conto che, nonostante arrivino quasi in contemporanea, Phelps e Cavic toccano il bordo in due modi completamente diversi: il primo senza nemmeno riuscire a chiudere del tutto la bracciata in superficie, il secondo in allungo sott’acqua.


 


Ora, non voglio rovinare con del pathos inutile il finale di quella gara. Questo è quello che è successo nel modo più lineare possibile. Nonostante dalle immagini Cavic sembri toccare il bordo per primo, Phelps viene dichiarato vincitore con un vantaggio di appena un centesimo di secondo - la distanza più piccola che può esistere tra due nuotatori in una piscina olimpionica. Come ormai sapete, al terzo posto arriva Andrew Lauterstein. Quello che non sapete (scusate, piccoli trucchetti del mestiere) è che anche lui vince la sua medaglia di bronzo per un centesimo di secondo, lasciandosi alle spalle (si fa per dire) Ian Crocker - il nuotatore che aveva portato Cavic a scegliere la Serbia invece degli Stati Uniti. Subito dopo la fine della gara la federazione serba contesta il risultato costringendo la Federazione Internazionale di Nuoto a rivedere lo slowmotion dell’arrivo.


 

Dopo una lunga diatriba, la federazione serba concede la sconfitta ma rimane ufficialmente sulla sua posizione. Branislav Jevtic, vice capo della missione olimpica della Serbia, dichiara: «Secondo me non è giusto ma dobbiamo seguire le regole. Tutti hanno visto cos’è successo». Anche Cavic, subito dopo la gara, dice di prenderla con filosofia, ma rilascia comunque dichiarazioni sibilline: «La gente mi chiederà di questa gara per anni, mi diranno ‘L’hai vinta te’. E questo mi fa sentire bene, sono contento di dove sono». Dal suo punto di vista, Cavic ha raggiunto il suo obiettivo, lasciando al nuoto una gara che rimarrà per sempre nella storia. Ma è qui che le cose si fanno complicate.


 

Negli anni successivi, mentre Michael Phelps diventa l’atleta olimpico più medagliato di tutti i tempi vincendo altri 9 ori e 3 argenti tra le Olimpiadi di Londra e quelle di Rio, di quell’arrivo irreale non si smette più di parlare, proprio come aveva previsto Cavic. Su quel centesimo di secondo gira addirittura una teoria del complotto, dato che la Omega, che è il brand ufficiale delle Olimpiadi per la gestione dei cronometri, è anche uno degli sponsor di Michael Phelps. In realtà è qualcosa di più di una teoria del complotto perché la stessa Omega, nelle settimane successive a quella gara, ha ammesso che qualcosa è andato storto. Christophe Berthaud, allora general manager dell’Omega, ha dichiarato: «C’è una grande, grande, grande differenza tra toccare il bordo e schiacciarlo. È certo - e il video lo dimostra - che Cavic ha toccato il bordo prima di Phelps, ma lo ha fatto mentre scivolava in avanti. Phelps, invece, lo ha fatto caricandosi. E la differenza tra queste due cose è davvero un centesimo di secondo».


 

Per capire queste dichiarazioni bisogna andare un minimo sul tecnico. Nelle gare di nuoto i cronometri vengono stoppati da delle piastre metalliche che sono poste sul bordo della vasca. Ma per far sì che il cronometro venga effettivamente azionato c’è bisogno che il nuotatore apponga una certa pressione sulla piastra. Nello specifico, la Omega ha dichiarato, una pressione tra gli 1.5 e i 2.5 chili. Ecco, in quel chilo di pressione probabilmente c’è il mistero del centesimo di secondo che divide Cavic da Phelps, che come forse ricorderete ebbe l’intuizione quasi divina di interrompere l’ultima bracciata per arrivare con più forza sul finale. Su questo aspetto, nel sottobosco di forum e appassionati, non si è mai smesso di discutere. Nell’aprile del 2015, poco più di un anno prima delle ultime Olimpiadi di Phelps, anche Mark Spitz è intervenuto nella discussione, dichiarando di aver ricevuto un’email della Omega in cui il brand di orologi ammetteva che in realtà era stato Cavic a vincere la finale dei 100 farfalla del 2008.


 

Non c’è nemmeno bisogno di dire che non sapremo mai come sono andate veramente le cose, sempre che sia possibile in ogni caso. Ciò che è più interessante è che ciò che Cavic anelava - cioè rendere una gara indimenticabile, fissarla per sempre nella storia - ha mangiato ciò che rimaneva del limite che aveva messo tra lo sport e la vita vera, o meglio, tra la sua identità tra atleta e quella da essere umano. Dodici anni dopo quella finale, nell’intervista con Brett Hawke, Cavic dimostra ad esempio di non aver mai superato quel momento. Quando l’ex nuotatore australiano gli chiede in maniera secca «Perché pensi di aver perso quella gara?», lui senza pensarci un attimo risponde: «Non penso di aver perso quella gara». E poi, sulla teoria del complotto che riguarda la Omega, rilancia ricordando che è tra gli sponsor ufficiali di Phelps e affermando che il suo sistema di misurazione del tempo non è mai stato migliorato perché non ha mai avuto reale concorrenza. «Ci sono molte… miliardi di ragioni per cui le cose dovevano andare in un certo modo».


 

Questa intervista con Brett Hawke arriva dopo 12 anni in cui Cavic è tornato sull’argomento svariate volte e ciò che è più interessante non è tanto il suo senso di rivalsa per quella medaglia d’oro persa per sempre, quanto la sua ripetuta disperazione per non essere mai riuscito ad avere un contatto umano con Michael Phelps. L’8 agosto del 2016, pochi giorni dopo l’inizio dei Giochi Olimpici che sarebbero stati gli ultimi di Phelps, Cavic, parlando con Vice, ha dichiarato di averlo voluto conoscere davvero ma di averci parlato complessivamente 15 minuti in tutta la sua carriera: «Eravamo sempre in punti opposti degli Stati Uniti o del mondo». Cavic sembra soffrire particolarmente l’essenza stessa di Phelps, la sua spregiudicata assenza non solo da un punto di vista mediatico ma anche personale, per esempio nei minuti precedenti alle gare, quando sembra immergersi nel suo subconscio con delle cuffie giganti ad isolarlo dal mondo.


 

«Se leggi le interviste di Michael Phelps», ha detto Cavic «Penso ce ne siano al massimo due o tre che contengano davvero parole sue. […] Quello che sto dicendo è che è stato un corporate guy, perché è quello che gli veniva richiesto». Cavic, nella stessa intervista, ha anche rivelato di aver pregato la notte prima della finale dei 100 metri farfalla delle Olimpiadi di Londra, che invece sono state le ultime per il nuotatore serbo. «Non sono molto religioso ma ho detto: “Dio ti prego, finita questa gara, vittoria o no, medaglia o no, ti prego dammi la pace, fammi andare avanti con la mia vita”». Ma evidentemente lassù nessuno ha ascoltato le sue suppliche, perché in quella finale il tempo gli ha giocato un altro scherzo crudele. Non tanto perché Phelps, ovviamente, ha vinto, tanto per il fatto che, dietro di lui, Yevgeny Korotyshkin e Chad Le Clos sono arrivati secondi con lo stesso identico tempo, con la conseguenza che verranno assegnate due medaglie d’argento e nessuna di bronzo. Cavic aveva fatto il terzo tempo e quindi si vedrà privato persino della consolazione del bronzo prima del ritiro e dell’inizio di una nuova vita in Serbia da istruttore di nuoto.


 

Cavic tornerà a parlare di Phelps nell’estate del 2020, in un’intervista fiume a The Ringer in cui sarà se possibile ancora più esplicito. «Le persone mi chiedono che tipo è [Phelps, nda] ma io non ne ho idea. La puoi chiamare rivalità, ma che diamine, nelle rivalità di solito ci si parla. Ci si può buttare la merda addosso. Non c’è nemmeno bisogno di parlare della gara. Voglio solo conoscere la persona a cui sarò legato per il resto della vita». Cavic ha dichiarato di aver sognato per anni ad occhi aperti di poter parlare da amico con Phelps, di aver aspettato anche solo un cenno che significasse «che ero stato un degno avversario, e di essere stato parte della sua storia quanto lui è stato parte della mia».


 

Il nuotatore serbo, nella sua supplica apparentemente disperata, fa venire in mente la scena biblica che più simboleggia l’incomunicabilità tra umano e divino, in cui Gesù sulla croce chiede al Dio padre perché lo ha abbandonato senza ricevere risposta. D’altra parte, Cavic nella stessa intervista arriva a paragonare davvero Phelps a un Dio presente e assente allo stesso tempo, con un paragone un po’ contorto con Mad Max. Cavic parla degli scagnozzi che per tutto il film inseguono Charlize Theron, che muoiono nei modi più disparati con il sorriso sulle labbra, e il motivo per cui sono così spensierati e pazzi, secondo lui, è che il loro reale obiettivo in realtà è essere visti, riconosciuti dal proprio leader. «Il sogno è essere riconosciuti dagli dei o dai propri simili. Per me questo riconoscimento è dirmi: Milo, ti vedo. Nonostante il risultato, cazzo, ti vedo».


 

Nella stessa intervista Cavic è tornato a parlare di Steve Prefontaine, citando quella volta in cui disse che «una gara è un’opera d’arte che può essere compresa in tutti i modi che l’essere umano possiede». Oggi, a quattordici anni dalla finale dei 100 metri farfalla del 2008, possiamo rivivere quell’opera d’arte solo attraverso riproduzioni sbiadite dal tempo. Le dichiarazioni dei protagonisti, i video sgranati di YouTube, gli articoli di giornali, le teorie del complotto, soprattutto le splendide foto scattate quel giorno da dentro la piscina da Heinz Kluetmeier, diventate tra le più famose e importanti nella storia dello sport.


 

In questi quattordici anni, nel grande silenzio di Phelps fatto di frasi volutamente vuote, l’unico dettaglio rilevante che abbiamo saputo da lui su quella gara riguarda proprio una di quelle foto. A quanto pare, infatti, dopo le Olimpiadi di Pechino, Phelps ha appeso una gigantografia di una di quelle foto nel suo ufficio personale. Ma non sappiamo nient’altro. Possiamo solo chiederci se, sedendosi sulla sua sedia e alzando gli occhi al quadro, lo apprezzi come un’opera d’arte qualsiasi, come faremmo noi con la Vocazione di San Matteo dentro San Luigi dei Francesi a Roma, o se effettivamente, guardandolo, pensi al dramma umano che contiene.


 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura