
Pubblichiamo un estratto da "L'unico finale possibile", il nuovo romanzo di Paola Cereda edito da Bollati Boringhieri. Se volete acquistare il libro, potete farlo cliccando qui.
A Dakar, è soprattutto di notte che Momo pensa alla madre, alle sue carezze, al suo camminare nel cortile tra i figli che le stanno attorno per chiederle da mangiare o pretendere da lei un compito o un’attenzione. Yaay che sa di anacardi, affumicatura e latte di capra, yaay che è l’odore della terra, l’odore primordiale. Dopo la nascita di Coumba, l’ultimogenita, yaay ha afferrato un coltello e si è tagliata i capelli cortissimi. Se solo potesse parlare con lei e dirle che l’accademia non è affatto il sogno raccontato dal pieghevole che Babacar Ndanane le aveva mostrato: non ci sono i tre campi d’erba, la palestra con gli armadietti, i bagni con le docce e la mensa dove mangiare due volte al giorno, non ci sono i dormitori, l’aula scolastica e lo spazio dedicato alla preghiera. Il campo da calcio è uno sterrato irregolare, chiuso su un lato da una fila di container e sull’altro da quattro o cinque baracche di mattoni a crudo dove i ragazzi vivono ammassati gli uni sopra gli altri. A nord di quel confine artificiale svetta il più grande monumento del continente, con i suoi quarantanove metri di bronzo che hanno il compito di raccontare al mondo l’orgoglio del Rinascimento africano. L’uomo rappresentato al centro del monumento, con una mano protegge la donna che gli sta accanto e con l’altra spinge il figlio verso il domani. Durante i primi giorni in accademia, Momo era rapito dalla solennità di quei quarantanove metri di bronzo ma ora, dopo poche settimane, il monumento gli sembra una promessa mancata che rende più faticoso il suo presente. Il quotidiano è fatto di giorni ripetitivi che si consumano dentro due stanze intonacate dove lui e i suoi compagni dormono a terra, senza nemmeno una stuoia o una coperta sulla quale stendersi. Si lavano a turno da un tubo di gomma dal quale esce un rivolo marrone e maleodorante, mangiano due ciotole di riso bollito al giorno, certe volte addirittura niente. Gli allenamenti sono partitelle improvvisate perché in accademia non ci sono preparatori atletici, programmi da rispettare, obiettivi da raggiungere e il mister è solo un cattivo padrone che li costringe a calarsi dentro container di rottami per smistare il vetro dai metalli: «Lavorate, pezzenti! O pensavate di vivere a mie spese, incapaci che non siete altro?»
Rutta e sputa, Babacar Ndanane, e ripete che i quattro franchi che le famiglie hanno anticipato non bastano certo a coprire il vitto e l’alloggio: «Lo sapete, teste di legno? Sapete quanto mi costate? Sono io che vi do da mangiare, io che vi faccio crescere, io che pago per fare arrivare gli osservatori dall’Europa, con le loro belle valigette piene di contratti!»
«Le vostre famiglie, invece, che cosa fanno? Niente, non fanno niente per darvi una possibilità. E smettetela di piagnucolare, non voglio più sentirvi lamentare o piangere. Fino a quando non riceverò il saldo, starete qui dentro e vi guadagnerete il riso perché io, di mestiere, faccio il procuratore e non il benefattore. Per anni mi sono rotto la schiena per costruirmi una carriera e adesso pretendo il guadagno che mi spetta. Ho ragione? Ho ragione oppure no? Rispondete!»
E giù una cinghiata sulla schiena del più vicino.
«Sì sì, mister, ha ragione mister» si affrettano a rispondere i ragazzi mentre smistano i rottami, spazzano il cortile, riordinano il magazzino e gli servono bicchieri grandi di bissap.
«Un altro bicchiere! Più fresco, ho detto più fresco, di più!»
Tramite certe conoscenze al Ministero, Babacar Ndanane è riuscito a fare avere loro i preziosi passaporti che tiene sotto chiave nella cassaforte dell’ufficio, in mezzo alle tute e alle maglie che arrivano due volte al mese dalla Cina. Roba taroccata che i ragazzi devono vendere al mercato di Dakar e guai se, durante i turni settimanali, a qualcuno viene in mente di sparire.
«Se fate i furbi, vi vengo a cercare, vi prendo a bastonate e poi vi brucio i documenti. Sapete che cosa significa non avere i documenti? Bye bye Europa, adieu! Con me non si scherza. Se sento anche solo mezza bugia sul mio conto, vado dritto nei vostri merdosissimi villaggi e la mia non sarà una visita di piacere. Voi e le vostre famiglie avete un debito e, fino a quando non lo avrete ripagato per intero, farete quello che dico io».
In accademia Youssuf detesta gli ordini di Babacar Ndanane e la puzza di tabacco che gli esce dalla bocca insieme al fiato. Youssuf è destro di piede e ha un fisico tozzo, da mastino. Davanti alle provocazioni del finto allenatore, chiude gli occhi e chiede ad Allah di non farlo cedere alla rabbia ma, dopo dieci settimane, quando arriva il suo giorno di mercato, si carica in spalla il borsone e comincia a pensare. Ha due possibilità: fottere la gente con quello schifo di maglie taroccate oppure fottere Babacar Ndanane e non tornare più da quel bastardo che lo prende a cinghiate. L’uomo si era vendicato delle sue lamentele: «Come dici, ragazzino? Non vuoi? Non vuoi lavorare per me? Non è giusto? Non sei a Dakar per essere mio schiavo? Vieni qui che ti rompo una caviglia, ti spacco il naso, ti spezzo una gamba, disgraziato! Vieni qui, ho detto!»
La volta in cui si era ribellato, Babacar Ndanane lo aveva picchiato a sangue con la fibbia della cintura. Youssuf se l’era fatta addosso ma non aveva gridato per non dare all’aguzzino la soddisfazione di godere del suo dolore. Si era rannicchiato e si era preso la testa tra le mani per resistere ai colpi di fronte ai compagni che lo guardavano ammutoliti, incapaci di avvicinarsi per paura di subire la stessa punizione. Non era questo che Aissa aveva insegnato a Momo quando, nei giorni di festa, arrostiva le interiora dell’agnello e le mischiava al riso, alle patate e a una polvere di radici che serviva a fargli crescere il coraggio. Inutile. Davanti alla punizione toccata a Youssuf, Momo era rimasto a guardare.
A Dakar spira un vento caldo il giorno in cui Youssuf scompare. È sera, i ragazzi stanno ancora lavorando e Babacar Ndanane guarda più volte l’orologio d’impor- tazione: «Cheikh, Moussa!»
I due hanno poco più di vent’anni, anche loro erano arrivati a Dakar per diventare dei professionisti del pallone ma adesso sono i tuttofare di Babacar Ndanane che li ha comprati per un pugno di soldi, qualche sigaretta e tre scodelle di miglio al giorno.
«Youssuf non è tornato, andate a vedere dove si è cacciato. E voi, di corsa nelle vostre baracche. Oggi niente cena. Sbrigatevi!»
I ragazzi escono dai container, si danno una pulita rapida ai vestiti e si incamminano verso le baracche che Babacar Ndanane chiude a chiave. In tutto sono una trentina, hanno tra gli undici e i diciannove anni e una famiglia da qualche parte che li crede al sicuro. Si siedono schiena contro schiena per cercare conforto nel- la reciproca presenza. I più piccoli singhiozzano, qualcu- no si accarezza la testa, nessuno parla. Chissà che fine ha fatto Youssuf, pensa Momo, chissà se è riuscito a fuggire, se si è perso a Dakar o se, come spera, ha trovato rifugio da un amico o in una moschea. Di certo non tornerà al villaggio per non mettere in pericolo la madre che ha dato tutto quello che aveva e che ha ancora un debito da saldare. Come yaay.
Uno dei ragazzi inciampa nel secchio dei bisogni e sparge ovunque i liquami maleodoranti. «Ma cosa fai!» La puzza è così forte che Momo si tappa il naso per non vomitare. Da sotto la porta arriva un filo di aria e nessuna luce: da quante ore è chiuso lì dentro insieme agli altri? Vorrebbe addormentarsi in fretta e risvegliarsi la mattina successiva accanto a Youssuf. Lui e Momo sono stati circoncisi nello stesso giorno e dalla stessa mano, insieme hanno giocato a calcio sulla stessa terra rossa e, tra i due, Youssuf era sempre il più generoso, capace di passaggi precisi che arrivavano sui piedi di Momo per spingerlo a gran velocità verso la porta. Correre, Momo ha bisogno di correre, di uscire all’aria aperta e di sfrecciare sull’unica strada del villaggio. Quando corre, allinea il baricentro alla gamba alternando la destra e la sinistra lungo una linea immaginaria, con una sicurezza che gli permette di andare incontro a ciò che più gli piace: il calcio, la luce, il vento. Dakar però non è il villaggio ma un posto ostile. Momo non riesce a dormire. Si mette su un fianco, si gira sull’altro e quando finalmente entra in un dormiveglia che lo consola, Youssuf si avvicina per scuoterlo dal suo torpore: Svegliati, amico mio – gli sussurra in sogno – che cosa ci fai ancora qui? L’accademia non esiste e Babacar Ndanane è soltanto un imbroglione! Nessun osservatore arriverà per te dall’Europa, lo capisci? Alzati subito, alzati adesso, apri quella porta, vai, corri Momo corri e non farti prendere, non farti più trovare. Qualsiasi sfida è meglio di questo incubo.
Momo sta per risvegliarsi ma un’altra mano lo trattiene, una mano conosciuta e calda, ruvida per il troppo lavoro e la necessità di nutrire sempre qualcun altro, una mano che tante volte si è posata su di lui per lavarlo, sfamarlo e farlo sentire amato. La mano si infila sotto un sacco di anacardi e riemerge portando con sé una busta di tela blu. «No!» grida Momo nel sonno. Vorrebbe impedirle di agire, trattenerla dalla possibilità di sbagliare. La mano lo respinge e si allontana, lasciandolo nella profondità del buio. Momo sa che per lui è finita: non può fuggire, non più.
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