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Perché un allenatore straniero non può allenare l'Italia?
30 giu 2018
30 giu 2018
Matteo ci ha chiesto perché non si è neanche mai pensato a portare uno straniero sulla panchina della Nazionale italiana. Risponde Dario Saltari.
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Quando bisognava annunciare il nuovo ct della Nazionale italiana si sono fatti i nomi di Mancini, Ranieri, Ancelotti e l'Ultimo Uomo in parte ne ha già scritto. Mi chiedo perché non si sia MAI fatto il nome di un allenatore straniero.

 

In altri Paesi sembra piuttosto normale non avere un allenatore della stessa nazionalità dei giocatori, vedi gli esempi degli stessi italiani che hanno guidato altre nazionali, tra i più famosi: Maldini con il Paraguay, Lippi con la Cina, Scoglio con Tunisia e Libia, Capello con Inghilterra e Russia, Dossena con Ghana, Paraguay e Albania. E via dicendo.

 

Osservando la lista degli allenatori di quest'anno vedo - ahimè - che non ci sarà nemmeno un allenatore italiano a Russia 2018, ma ben 5 argentini Sampaoli (Argentina), Pekerman (Colombia), Gareca (Perù), Cúper (Egitto) e Bauza (Arabia Saudita). La lista continua con altri 9 allenatori stranieri sulle panchine di Belgio, Svizzera, Danimarca, Iran, Nigeria, Giappone, Marocco e Panama.

 

Mi vengono in mente diverse riflessioni - più o meno intelligenti - da porvi:

- Se la nazionale rappresenta il meglio di un Paese, con un limite geografico di selezione, perché l'allenatore non dovrebbe fare parte di questa logica?

- Pensate che l'Italia potrà mai avere un allenatore straniero e, se sì, chi potrebbe essere quello più adatto a riformare il nostro sistema?

- Quale invece quello più assurdo?

 

Matteo

 



 

Per rispondere alle tue domande, Matteo, bisogna partire dal dato di fatto – ovvio, ma rilevante ai fini del nostro discorso – che la Nazionale è una squadra di calcio. E una squadra di calcio non rappresenta necessariamente il meglio di un Paese, al di là dei limiti geografici, storici e giuridici che assume nel corso del tempo. Pensa alle innumerevoli discussioni che accompagnano le scelte dei selezionatori riguardo le convocazioni alla vigilia di ogni grande competizione internazionale: quelle che, tanto per prendere ad esempio il Mondiale che stiamo vivendo in questi giorni, hanno seguito l’esclusione di Nainggolan dal Belgio, di Icardi dall’Argentina o di Payet dalla Francia, tanto per citare i casi più famosi. Non sono forse esempio del meglio del calcio belga, argentino e francese?

 

Ma un CT della Nazionale non è tenuto a chiamare i migliori giocatori del suo paese, qualunque cosa significhi, per il semplice fatto che ha un numero di scelte limitato (per esempio, 23 giocatori per un Mondiale) e che per ogni giocatore che convoca, un altro rimane a casa a guardare i compagni in TV. È vero: in alcuni casi un giocatore può essere escluso perché si ritiene che non sia degno di farsi immagine dei valori che quella Nazionale, e quindi quella Nazione, rappresenti (pensa al caso di Benzema con la Francia). Ma nella maggior parte dei casi quelle scelte sono di natura esclusivamente sportiva: si convoca un giocatore anziché un altro semplicemente perché si ritiene possa dare più chance di vincere, a ragione o meno. Le federazioni ragionano seguendo lo stesso ragionamento, non solo per i giocatori, per i quali competono in quello strano calciomercato che riguarda quelli con più di un passaporto, ma anche per gli allenatori. Se alcune ritengono che un allenatore straniero le avvicini maggiormente al successo, di solito è perché hanno un rapporto conflittuale con la propria identità calcistica. L’Inghilterra, ad esempio, che da sempre alterna l’orgoglio per il proprio passato glorioso a un senso d’inferiorità represso nei confronti delle altri grandi scuole calcistiche del Continente, è una delle grandi Nazionali europee ad aver avuto un allenatore straniero sulla propria panchina in tempi recenti (in realtà addirittura due, consecutivamente: Sven-Göran Eriksson e Fabio Capello dal 2001 al 2012).

 

Portando il discorso a un livello d’astrazione minore: se le federazioni assumono CT stranieri è perché non c’è nessuna regola che lo vieta. Perché manca la stessa rigidità che c’è con i giocatori? La mia interpretazione è che se per i giocatori la questione identitaria è ineludibile (alla fine sono loro a determinare direttamente i risultati della squadra e a portare indosso la maglietta della Nazionale, la cosa più vicina alla bandiera sul campo da calcio), gli allenatori invece sono stati a lungo avvertiti come semplici tecnici, nel senso letterale del termine. Agli albori, le Nazionali erano addirittura allenate da commissioni tecniche, cioè da riunioni di persone (non sempre allenatori veri e propri) che discutevano sulle tattiche e le strategie che avrebbero dovuto tenere le Nazionali in campo. L’idea dell’allenatore come figura carismatica portatrice di 

 di gioco è relativamente recente e se questo trend dovesse acuirsi ulteriormente nei prossimi anni chissà che le regole per i CT delle Nazionali non cambino veramente. Nel frattempo è interessante vedere come le Nazionali, anche in Europa, stiano provando a importare con gli allenatori DNA calcistici provenienti da altri paesi. Il Belgio, ad esempio, dopo aver plasmato il suo modello su principi di gioco “spagnoli” (dominio del possesso, gioco di posizione, superiorità posizionale attraverso i triangoli) ha ingaggiato un allenatore catalano per guidare la sua Nazionale.

 

Quanto all’Italia, Matteo, non è del tutto vero che non abbia mai avuto allenatori stranieri sulla propria panchina, seppur in coabitazione con colleghi italiani e per periodi molto brevi di tempo: parlo dell’ungherese Lajos Czeizler e dell’argentino Helenio Herrera, che tra il 1953 e il 1954, e tra il 1966 e il 1967 hanno affiancato sulla panchina della Nazionale rispettivamente Angelo Schiavio e Ferruccio Valcareggi. Al netto di queste due piccole parentesi, però, è vero che nel nostro paese sembra esserci un conservatorismo estremo sul tema, dettato probabilmente della profonda diffidenza dell’opinione pubblica e della stampa verso le scuole calcistiche che ci circondano. Non bisogna dimenticare, a proposito di questo, che il blocco all’arrivo di calciatori stranieri imposto dalla federazione italiana nel 1965 

 anche gli allenatori (gli unici ammessi erano quelli che avevano preso il patentino in Italia) e sopravvisse formalmente fino all’inizio degli anni ’90. Per prendere allenatori stranieri, le squadre italiane in quel periodo erano costrette ad assumerli come direttori tecnici (il primo che ricorse a questo espediente fu Dino Viola nel 1984 quando ingaggiò Sven-Göran Eriksson come allenatore della Roma). Non è difficile intravedere gli effetti di quella misura ancora oggi. Lo scorso anno, tra i cinque maggiori campionati europei la Serie A è stato quello con il numero minore di allenatori stranieri: a fine stagione ce ne saranno appena due (cioè Diego Lopez e Igor Tudor, entrambi subentrati ad allenatori italiani). Per fare un paragone diretto: in Liga ce n’erano 3, in Bundesliga 5, in Ligue 1 6, in Premier League 12.

 

Se sono gli stessi club a essere così chiusi nei confronti degli allenatori stranieri, figuriamoci la Nazionale. Per questo mi sembra difficile che l’Italia possa avere un allenatore straniero nel prossimo futuro, a meno che non ci ritrovassimo nel giro di poco tempo di fronte a un fallimento equiparabile a quello vissuto lo scorso anno con l’esclusione dal Mondiale: per esempio, non giriamoci troppo intorno, se Mancini non riuscisse a portarci agli Europei. In quel caso, forse, la presa di coscienza sarebbe talmente forte da rompere persino questo tabù. Magari si aprirebbe addirittura la strada a una rivoluzione culturale che riesca finalmente a fare interiorizzare al calcio italiano quei principi del gioco di posizione, che la maggioranza dell’opinione pubblica, visceralmente, ha sempre rifiutato. In quel caso, servirebbe un allenatore idealista, possibilmente olandese, che sappia curare il talento dei giovani: che ne dici di Peter Bosz?

 

Abbiamo già portato l’asticella dell’assurdità piuttosto in alto, Matteo, ma visto che me lo chiedi voglio alzarla ancora un po’. E se sulla panchina dell’Italia ci finisse invece Roger Schmidt? In questi tempi in cui i politici fanno a gara a soffiare il fuoco sulla rivalità con la Germania avere un CT tedesco sarebbe un grande segnale di rottura culturale, senza contare quanto l’ex allenatore del Bayer Leverkusen migliorerebbe i meccanismi di pressing e l’intensità dell’Italia, due variabili che tendono a incidere molto nelle competizioni per Nazionali. Non ti piacerebbe vedere gli “Azzurri” senza alcun equilibrio attaccare gli avversari con sciami di pressing, creare entropia in campo per andare in verticale il più velocemente possibile? Magari non vinceremmo niente, ma di sicuro ci divertiremmo un mondo.

 

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