Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Tommaso Giagni
Perché odiate Diego Costa?
09 giu 2016
09 giu 2016
Le sfumature di Diego Costa sono più di quante riusciamo a immaginare.
(di)
Tommaso Giagni
(foto)
Dark mode
(ON)

Negli anni Novanta la Nike lanciò uno

dove i campioni del calcio affrontavano nel Colosseo una squadra di bruti. “Una forza maligna emerse dalle viscere della Terra per distruggere il gioco più bello” diceva la voce off. La forza pura, violenta, cieca, veniva fermata da un tackle di Maldini, sbalordita da una manovra collettiva, bucata da Cantona che si sollevava il colletto e trasformava il pallone in una sfera di fuoco.

 

Diego da Silva Costa mi è sempre sembrato uno di quei mostri.

 

“La pressione è uno stimolo”

ai tempi del Rayo Vallecano, quando ancora non aveva conosciuto la pressione vera. In tempi completamente diversi, cioè nella prima stagione in

,

a neutralizzarla e non ricercarla: «In campo la pressione, il passato o i ricordi scompaiono veloci come il rotolare della palla».

 

Un cono d'ombra si è posato quest'anno su di lui e sul Chelsea. Mentre la squadra si inabissava, lui si inabissava tanto da essere escluso dai convocati della Spagna per l'Europeo alle porte.

 

Diego Costa è nato il 7 ottobre, come Vladimir Putin. Il 7 ottobre come anche Jacques Cazotte, l'autore settecentesco del

, dove un giovane (spagnolo) sfida e viene sedotto dal diavolo, nelle fattezze di una ragazza, che a un certo punto gli sussurra: «Dimmi infine, se ti è possibile, con la stessa tenerezza che io provo per te: “Mio caro Belzebù, ti adoro...”».

 

Mi è capitato di vederlo giocare dal vivo, nel 2011/12. Di fronte alla sua corsa, mi suggestionava l'idea che fosse in qualche modo un'espressione del Male. Era un

vivente, o almeno mi sembrava tale. La ferocia con cui devastava il campo era senza grazia. Non vedevo umanità nel modo in cui aggrediva il pallone. Odiavo la volgarità del suo agonismo, e mi rassicurava come un punto fermo.

 

È nato nel 1988, a Lagarto, che in portoghese significa “lucertola” e conta quasi centomila abitanti. Si trova nell'entroterra del Sergipe, il più piccolo fra gli Stati brasiliani, affacciato sull'Atlantico a nord-est del Paese, razziato in età moderna da spagnoli e francesi come nulla fosse.

 

ai quindici anni, Diego ha giocato per le strade della città, senza allenarsi con una squadra. «Mi manca la formazione di base, per questo ho fatto male alcune cose». Tutte le testimonianze

: già da ragazzino era il più forte e il più competitivo, capace di risolverla a pugni se non vinceva. «Crescere in un

ti modella, ti dà una certa educazione, una disciplina che è necessaria. Io non l'ho fatto»

. Deve considerarlo un enorme rimpianto, se qualche mese fa

una

in Brasile.

 

A quindici anni

di andare a a São Paulo, per lavorare nel negozio dello zio. Da Lagarto significava attraversare tutto il Paese: «Lasciai i miei genitori in lacrime, varcando la porta di casa da solo». Nella capitale

iniziò a giocare con una squadra locale, il Barcelona de Ibiúna. «Era un buon giocatore ma aveva un carattere esplosivo»

il Ds della società: «Pensai di arrendermi con lui: nessuna squadra vuole calciatori del genere».

 

Ma non si arrese. E presto si ritrovò a parlare con un osservatore dello Sporting Braga. Era Jorge Mendes in persona.

 


Notare l'empatia del bambino dietro che soffia insieme a lui.


 

Aveva due settimane di vita e stava dormendo, quando un serpente velenoso

nella sua culla. Non lo morse, grazie all'intervento della madre.

 

Diego

che nel suo sangue scorra la voglia di vincere e lo spirito da battaglia. In Brasile

che da ragazzino prese a calci una palla di carta fin dentro la chiesa, e il parroco sentenziò: «Se non gioca a calcio, diventerà un diavolo».

 

José Luis Mendilibar, il suo tecnico al Valladolid,

che avesse in sé della

, un'espressione volgare che indica il latte cattivo ricevuto da un neonato. Il concetto è chiaro: l'atteggiamento negativo di Diego Costa è dentro di lui, da sempre e per sempre. Come se quel serpente l'avesse morso.

 

Mi è sempre sembrato un essere irrazionale, guidato dal solo istinto. Per il gol, certo, ma anche per il confronto fisico con gli avversari.

 

In Brasile

un soprannome, “Burrega”, che più o meno significa “capretto testardo che vuole combattere”. Ha una foga che dà l'impressione ci sia sempre qualcosa di personale. «Mi piace la sfida»

: «Ogni volta che incontro un buon difensore, non vedo l'ora di giocarci contro. Può anche battermi, ma io ne farò tesoro».

 

La sua data di nascita, il 7 ottobre, è anche la data di uno scontro fra i più celebri della Storia, come la battaglia di Lepanto. Per una coincidenza affascinante,

in cui è cresciuto si mette in scena tradizionalmente una danza folkloristica (la

) che riproduce la lotta fra cristiani e mori per il trono del Portogallo.

 

Quello dello scontro è un

delle narrazioni su Diego Costa. La sua

, uscita l'estate scorsa a firma di Fran Gullén, si intitola

. Viene riportato un aneddoto,

poi dal Chelsea, secondo il quale nel 2014, appena arrivato a Londra, si presentò ai nuovi compagni con le parole: «Vado in guerra. Venite con me».

 

Lui

di praticare un calcio brutale: «Non ho mai causato infortuni gravi. I miei contrasti sono duri, ma al tempo stesso nobili».

 

https://youtu.be/UbfFxGpHfK4

 

Un

del grande calcio, come se avesse fatto irruzione all'improvviso in una festa. In modo altrettanto repentino, oggi sembra aver perso le sue credenziali. L'hanno lasciato in un angolo, sempre più vicino alla porta, col gusto di averlo rimesso al suo posto. Manca poco, si direbbe, perché lo caccino fuori.

 

Già nell'agosto 2014, appena arrivato in Inghilterra, gli ospiti della festa lo soppesavano con fastidio. Aveva appena debuttato, e molto bene (4 reti in 3 presenze), ma i suoi modi lasciavano a desiderare. L'allenatore dell'Everton, Roberto Martínez,

di non avere rispetto per gli avversari, e proseguì: «Certi giocatori stranieri che arrivano in Premier, hanno bisogno di imparare l'etica e la cultura».

 

In campo, regolarmente, perde la testa. Il fratello Jair

con le emozioni che scuotono la sua interiorità: «energia repressa, rabbia, frustrazione». «Sono un po' nervoso»

Diego nel 2010. Al terzo turno del suo debutto in Premier, aveva già due cartellini gialli. Uno per simulazione, l'altro per un acceso scontro di gioco.

 

Provo a cambiare prospettiva. L'arbitro rappresenta ed esercita l'autorità in campo: è lo Stato ed è il genitore, figurativamente. Non può essere che, delegittimando il direttore di gara, Diego stia compiendo una delegittimazione dell'autorità in un senso più ampio? Quando provoca e colpisce gli avversari a palla lontana, sta sottraendosi alle regole che l'arbitro deve far rispettare. Quando si confronta quasi fisicamente con lo stesso direttore di gara, quando si pone alla pari con lui, non sta attuando un

e risolvendo certe questioni con l'autorità (lo Stato, i genitori)? Certo, anche quando giocava per strada si attaccava con chiunque. Ma adesso che è un uomo di ventotto anni, forse quell'aggressività ha accumulato qualche rappresentazione in più.

 



 

In effetti le cose migliori le ha fatte quando ad allenarlo era un certo tipo di tecnico. Energico, protettivo. È stato così a Valladolid, con Mendilibar, che Diego ha sempre

come una figura paterna. È stato così, ancora di più, con Simeone. E poi con Mourinho, ovviamente.

 

Di recente Quique Sánchez Flores, che lo ha avuto a Madrid e non è quel tipo di allenatore,

che il ragazzo ha bisogno di una mano a guidarlo.

 

Proprio il 2015/16 ha segnato una frenata, nella corsa di Diego Costa. Proprio la stagione in cui ha perso l'allenatore-padre, dopo tre anni d'oro con il

e Mou.

 


Davvero notevole la fisicità nel rapporto pubblico tra Simeone e il suo centravanti. Con la sinistra gli tiene la nuca, con la destra gli stringe la mano.


 

Chi lo conosce, dice che sul terreno di gioco si trasforma. Addirittura un compagno dell'Atlético Madrid, Mario Suárez,

avviene la trasformazione, cioè all'uscita dallo spogliatoio per andare in campo: «Prima, è calmissimo». Ne parla bene chiunque abbia condiviso la squadra con lui, in passato, e anche fra i compagni del Chelsea, oggi,

essere popolare per il suo calore e stimato per il suo carisma.

 

Spesso a proposito di Diego Costa

una storia alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde. A me sembra interessante affiancare, a questo, un paragone con

. Dove lui sarebbe la Creatura, il mostruoso gigante dalla forza sovrumana. Colpiscono in questo senso

che ha scelto per descriverlo Antonio Amaya, difensore del Betis, al termine di una rissa: “Non ha cuore”.

 

La Creatura di Viktor Frankenstein però è anche una figura classica d'emarginato. E sul piano pubblico, Diego Costa è evidentemente un reietto, considerato grosso modo come per anni l'ho considerato io: un bruto, un macchinario che serve a segnare e poi si spegne a fine partita. Per tacere di chi arriva ad attaccarlo in quanto “è scimmiesco” o “sembra un travestito”.

 

Eppure, nonostante tutto quello che gli dicono, e nonostante il

che lo vorrebbe incapace di usare la testa, lui tiene botta. Di recente

che le qualità su cui ha costruito la carriera sono lo spirito da combattimento e la capacità di recupero mentale. Niente di fisico, niente di strettamente tecnico.

 

Per conoscere l'immaginario che lo riguarda, c'è una storia significativa, una leggenda secondo la quale contrabbandava vestiti di marchi contraffatti. A darle credito, Diego prendeva i vestiti al confine col Paraguay e li rivendeva in un centro commerciale brasiliano. La leggenda ha una fonte autorevole,

, che la colloca ai tempi di Lagarto, cioè entro i suoi primi quindici anni d'età, cioè a quasi tremila chilometri dal Paraguay.

 

Mi sembra cruciale un'osservazione di Alex Reid, che lo ha

l'anno scorso per

. Se l'atto violento viene compiuto da un Cantona o Zidane, è l'espressione di

o genialità francesi tormentate. Se lo fa uno Shearer, è il comportamento virile di un centravanti inglese da tradizione. Se però a compierlo è un tipo robusto dall'aria ispanica, allora è una specie di delinquente, di bestia.

 

Che ci sia un pregiudizio antropologico può non essere troppo centrato. Ma che ci sia un pregiudizio contro di lui è sicuramente vero. E che Diego Costa sia soltanto una massa di potenza e fiuto da gol, è sicuramente falso.

 

 

https://youtu.be/s6ELlzwTdpM

 

 

Mi è sembrato un opportunista quando ha scelto di mollare la Nazionale brasiliana per quella spagnola. Nella primavera 2013 aveva giocato due amichevoli con la maglia verdeoro. Nell'estate seguente ottiene la cittadinanza spagnola. In autunno, firma e spedisce un documento in cui annuncia alla federazione di aver accettato la convocazione della

. Uno smacco, un atto di lesa maestà. La

  lo accusa di averlo fatto “per soldi”.

 

Quella spagnola era forse la selezione più forte al mondo, d'accordo, e in Spagna era diventato uomo. I Mondiali in arrivo però si tenevano in Brasile, che restava pur sempre il posto dove Diego è nato e cresciuto. A marzo 2014 esordisce con la

, a giugno è il centravanti titolare, fischiatissimo, della selezione di Del Bosque.

 

Mi è sembrato un opportunista, e di sicuro su questo ha pesato il naufragio spagnolo in quella Coppa del Mondo (eliminazione nel girone) e il nulla (un gol, due assist, tre ammonizioni) che Diego Costa ha fatto finora con quella maglia. Che senso ha, un tradimento del genere?

 

Di nuovo, provo a vederla da un'altra prospettiva, con il rischio di forzare.

 

Se il rapporto con il proprio Paese è evidentemente influenzato dall'educazione, il padre ha scelto il suo nome per un omaggio a Maradona (cioè “il massimo” nel 1988, come

lo stesso Diego Costa). Una scelta che in Brasile suona ben poco patriottica.

 

Soprattutto, c'è l'attitudine. Fin dalla prima scelta professionale, Diego sceglie l'Europa e rifiuta il Brasile. Deve ancora compiere diciott'anni, quando

l'offerta del Braga e l'accetta. Non ha ancora firmato, però, quando arriva l'offerta del São Caetano. Stesse condizioni. I genitori lo spingono a restare in Brasile, con gli

di São Paulo. Lui ha dato la sua parola al club portoghese. Litigano furiosamente. Ma non cambia idea. Forse quell'addio al Brasile racconta molto della scelta di Diego Costa riguardo la Nazionale. Racconta molto del passaggio in Europa che ha segnato un'indipendenza dai genitori. E preferire la maglia

può essere una conferma, in questo senso, di cui aveva bisogno.

 



 

Dopo un mese in Portogallo, comunque, vuole tornare indietro. Stavolta è il padre a insistere perché resti lontano da casa. Pian piano, in effetti, le cose si aggiustano.

 

Con il Braga, Diego giocherà solo la seconda parte del 2006/07, perché nei primi mesi della stagione era andato in prestito al Penafiel, Segunda Liga portoghese. Con la maglia del Braga esordisce in una competizione europea, la Coppa UEFA, contro il Parma: gli bastano 19 minuti per segnare.

 

Lascia il Portogallo già nell'estate successiva, dopo una sola stagione. Si affida al suo superagente, Jorge Mendes,

lo mette su un aereo senza spiegargli nulla: solo all'arrivo a Madrid gli spiega che sta andando a firmare per l'Atlético.

 

https://youtu.be/nFMJ5J9xNKs?t=28s

22 febbraio 2007. Il Braga fa il colpo a Parma nel turno di Coppa UEFA. Come dice la didascalia del video, per i portoghesi è un “momento memoravel”. Il gol è di Diego Costa, diciottenne, appena entrato.


 

Diego Costa non dice le cose che immaginavo potesse dire. Come quando

: “Dove sono cresciuto, è anomalo vivere in un modo diverso dai propri parenti. Ho sempre saputo di voler cambiare la vita dei miei genitori”, prima di aggiungere: “Per arrivare a qualcosa, devi avere un obiettivo nella vita. Nel mio caso, fare il calciatore era un sogno, ma la vera ossessione era dare alla mia famiglia una vita migliore”.

 

E poi non avrei mai immaginato certi gesti. L'azione politica ai tempi dell'Albacete, per esempio, quando

rifiutò di allenarsi per protesta con la società che pagava i giocatori ma non i membri dello staff. In quel periodo il presidente della società si presentò nello spogliatoio, strinse le mani a tutti, Diego disse: «La mia non gliela do, finché non paga anche loro».

 

Me l'aspettavo incastrato in un mito di forza e grandezza, di virilità machista. Invece è uno che sceglie come cane uno Yorkshire Terrier, che può tenere in una mano. Ed è uno che va in depressione per un mese, come

, quando per sbaglio lo mette sotto con la sua auto, in retromarcia.

 


È anche capace di prestarsi, per una campagna benefica, a mettersi un cappello del genere e dar modo di deflagrare al cortocircuito comico con la sua fisicità. 


 

Me l'aspettavo con una fame di gol frenetica, incapace di desiderare altro sul terreno di gioco. Invece nel 2010

: «Servire un assist mi dà la stessa gioia di un gol. Vado a casa ugualmente contento». Questo del ritorno a casa, dei conti da fare con la propria coscienza, è un tema su cui torna spesso: «La cosa importante è andare a dormire sapendo di non aver fatto niente di male

»

. Sembra una separazione, tra danno volontario e danno involontario, che uno della sua stazza deve fare necessariamente. Troppo ingombrante per non urtare il mondo.

 

Per quanto preferisca concentrarsi, come abbiamo visto, sul lavoro psicologico, comunque il corpo è al centro del suo gioco, come la spada è sospesa al centro della testa di Damocle. Il peso è un burrone che accompagna il suo percorso. Basta uscire di carreggiata, allenarsi meno, mangiare troppo («Prendetevela con mia madre, è una cuoca troppo brava»

una volta) e Diego va fuori forma. E il suo calcio non glielo permette.

 



 

Fino ai ventiquattro anni, Diego Costa era più o meno uno sconosciuto a livello internazionale, un attaccante che segnava con costanza ma sempre su palcoscenici minori. Aveva cambiato sette maglie in sei anni, tra Spagna e Portogallo. L'Atlético Madrid preferiva sempre mandarlo in prestito altrove. E pure quando lo aveva tenuto in rosa per una stagione intera (2010/11), lo aveva fatto giocare poco. Nell'estate 2011

addirittura un accordo per cederlo al Beşiktaş, ma era saltato per la rottura del crociato.

 

A lungo, insomma, i

non sono stati convinti. Ed è interessante studiare il modo in cui hanno gestito i suoi prestiti in rapporto al territorio spagnolo. Nel primo periodo (2007-2010) lo mandano a Vigo, Albacete e Valladolid, sempre in Segunda Liga. Soprattutto, sempre per una stagione sola e sempre in piccole città di provincia, isolate, ben poco tentacolari. La strategia è chiara, la

bene un ex dirigente dell'Atlético: «Lo voleva il Málaga, dissi che era fuori questione: nella Costa del Sol, quel ragazzo si sarebbe perso». Nel secondo periodo (2012), Diego va al Rayo Vallecano, cioè a Madrid, cioè sotto gli occhi del club.

 

https://www.youtube.com/watch?v=0qsH3FSq-7Q

Stagione 2007/08, Numancia-Celta Vigo. Metà campo di corsa prima del gol. Nessuno va davvero in contrasto, è vero, ma forse perché nessuno se la sente.


 

Il cambio di passo si vede già nel 2012/13. Finalmente ottiene spazio all'Atlético, e ripaga la fiducia. Viene impiegato più lontano dalla porta, non gioca sempre, ma colleziona 20 gol e soprattutto 14 assist, e segna una rete decisiva nella finale di Copa del Rey vinta ai supplementari contro il Real Madrid.

 

La vera esplosione avviene nella stagione successiva, quando è il

dell'Atlético che arriva in finale di Champions. Da prima punta segna 36 gol stagionali, addirittura

nelle prime 21 partite che gioca, e dimostra di essere il degno erede di Radamel Falcao, passato al Monaco.

 

Se è l'estate 2013, devi scegliere un top club e il tuo procuratore è Jorge Mendes, il Chelsea di Mourinho sembra la destinazione ovvia. Durante il primo anno, Diego vince la Premier e mette insieme 20 gol e 5 assist in 37 partite. La celebrazione personale, il rapporto con Mourinho e con l'ambiente, i successi della squadra, fanno passare in secondo piano il personaggio che gli stanno incollando addosso.

 

Verso la fine della sua prima stagione in Inghilterra,

di aver fatto un solo cambiamento nel proprio gioco: abituarsi a prendere calci. Un altro dato, che emerge dalle

, è che ha imparato a prendere meno cartellini: uno ogni 337 minuti, nell'ultima stagione, il suo record personale da quand'è professionista. Non mi pare far testo l'episodio del presunto morso a Gareth Barry (

dallo stesso Barry), lo scorso marzo, che è anche stato messo in relazione alla mancata convocazione agli Europei.

 

L'esclusione di Del Bosque, per lui può essere uno stimolo a riconquistare il posto oppure un motivo di depressione. Non ci sono precedenti per prevedere come reagirà: prima d'ora, da quando ha iniziato a salire, Diego non si era mai fermato.

 

È vero che il 2015/16 lo ha ridimensionato, ma ha comunque collezionato 16 reti. Ancora, il numero di assist (11) può convincere il prossimo allenatore delle sue capacità anche lontano dalla porta. Già, il nuovo allenatore del Chelsea, Antonio Conte. A meno che non cambierà squadra, Diego si ritroverà un altro allenatore-padre: caldo, esigente, appassionato. Potrebbe funzionare, tra loro.

 

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura