Che sarebbe stato un Mondiale strano lo si era capito dalla sua posizione inusuale nel calendario, e cioè ad agosto, subito dopo il Tour de France e poco prima dell’inizio della Vuelta. Una posizione insolita che da un lato tira dentro chi esce dalla Grande Boucle e dall’altro rende la vita un po’ più difficile per chi invece sta preparando l’assalto alla corsa a tappe spagnola. A Glasgow però non fa caldo nemmeno d’estate, tanto che le previsioni danno pioggia almeno in parte.
Anche il percorso era piuttosto strano. L’altimetria sembrava semplice: pochi tratti dove fare la differenza, strappetti molto brevi, poche centinaia di metri che sulla mappa nemmeno si vedono. Un gruppo lanciato in velocità verso la volata questi zampellotti se li mangia a colazione. La planimetria, però, rivela un percorso cittadino pieno di curve, tortuoso a tal punto da far venire la nausea solo a guardarlo in televisione. Una lavatrice di strappi e risciacqui, di curve e controcurve in cui anche solo pensare di tenere chiusa la corsa in vista della volata sembra un’idea strampalata.
Le prove degli Juniores restituiscono la stessa sensazione: si dice che è una specie di percorso di ciclocross lungo 14 chilometri, in mezzo a una città. Le corse delle categorie giovanili sono spesso più caotiche, certo, ma quel tipo di caos causato da quegli infernali strappi cittadini uno dietro l’altro, da curve continue che costringono ogni volta a impostare e rilanciare, è un caos diverso. Uno di quelli che fanno presagire che si possa far danni anche fra i grandi.
Un arrivo in volata sembrava perciò da escludere, con buona pace dei velocisti presenti al via, ingannati da un’altimetria apparentemente favorevole. Sembrava anche difficile controllare la corsa, tenerla chiusa, che poi in questo caso significa semplicemente impostare un ritmo costante senza dare spazio a eventuali fughe e mantenendo il gruppo coi favoriti compatto con i capitani ben coperti. Il disegno del tracciato cittadino di Glasgow, però, rendeva difficile anche questo semplice proposito: troppe curve, troppi cambi di pendenza improvvisi, tutto semplicemente troppo per essere imbrigliato e tenuto a bada.
Che sarebbe stato un Mondiale strano, quindi, lo si poteva anche intuire. Che sarebbe stato un Mondiale totalmente folle, insensato e disumano invece è diventato improvvisamente chiaro quando la Danimarca ha imboccato l’ingresso nel circuito cittadino come una torma di cavalli imbizzarriti.
Atto I - La mattanza
Quando l’orda danese entra nel circuito mancano ancora più di 130 chilometri e dopo un primo sguardo dal vivo a quello che queste belve possono fare in quel recinto appare ormai chiaro che questa corsa è destinata a implodere fino a divorare l’asfalto e le transenne, facendo collassare la città come nel nucleo di una nana bianca.
La Danimarca allunga il gruppo, vuole far saltare in aria la corsa da lontano, renderla dura il più possibile in modo che nel finale vengano fuori gli uomini con doti di fondo superiori a tutti gli altri. Questo perché loro hanno uno di quegli uomini: Mads Pedersen, già campione del mondo in una situazione non troppo dissimile a questa, ad Harrogate 2019. Lì fu una pioggia battente per tutta la giornata a rendere il percorso una tonnara in cui le gambe si spegnevano all’improvviso e in fondo a quel massacro vennero fuori gli uomini che avevano ancora un briciolo di energia in corpo a giocarsi la vittoria finale.
Pedersen vinse ad Harrogate nel 2019 dopo una corsa a eliminazione, battendo in uno sprint ristretto Matteo Trentin. Terzo di quel gruppetto lo svizzero Stefan Kung, all’epoca solo un ventiseienne di discrete prospettive. Mathieu van der Poel, che aveva dato il via allo show, si era spento all’improvviso senza più energie lasciando tutti a bocca aperta in un sospeso e silenzioso “oh”.
Pedersen dunque vuole una corsa tirata da subito anche a Glasgow, per cuocere le gambe agli avversari, spingerli a raschiare il fondo delle loro energie. Così facendo, spera di riuscire a giocarsi le sue carte sul terreno che più gli si addice, quello della resistenza, fino a restare davanti quando la maggior parte dei suoi avversari sarà ormai arrivata al capolinea. La sua Danimarca perde però alcuni pezzi importanti, fra cui Kasper Asgreen che molla e si ritira dopo pochi giri nel circuito. L’unico che sembra in grado di tenere questa folle strategia - oltre a Pedersen - sembra essere Mattias Skjelmose, reduce da un Tour de France un po’ sottotono ma che comunque ha già dimostrato nonostante la giovane età di saper andar forte su questi terreni nervosi.
Ad aiutarli trovano l’Italia. Gli Azzurri del CT Daniele Bennati non hanno una vera punta, o almeno nessuno che possa essere in grado di tenere testa ai giganti. Adottano quindi anche loro una strategia offensiva: creare caos, sparpagliare le carte in tavola, disgregare le grandi squadre - il Belgio, soprattutto. E poi cercare di piazzare la stoccata a sorpresa, prendere 15-20 secondi e andar via approfittando della confusione e del percorso tortuoso che limita molto la possibilità per gli inseguitori di sfruttare la superiorità numerica. Rota e Velasco in particolare sono le due pedine prescelte per mettere in atto questa strategia. I due azzurri si sacrificano in attacchi e allunghi nei primi giri del circuito in modo da mettere Bettiol e Trentin nelle migliori condizioni possibili per finalizzare il lavoro.
La strategia di Italia e Danimarca porta i suoi frutti: dopo pochissimi chilometri all’interno del circuito il gruppo non esiste più; c’è solo una lunga fila indiana che si spezza e si ricompone. E davanti si va a frustate, di quelle che fanno male. Chi sta davanti riesce a risparmiare qualcosa, ma chi sta dietro deve continuamente rilanciare per tenere le ruote o scattare per coprire tutti i buchi che si creano. Remco Evenepoel, il campione uscente, rimane spesso invischiato in questa lotta delle retrovie. Spende tante energie, che forse già di suo non avrebbe, tanto che il suo primo attacco ai 97 chilometri dalla conclusione si impantana subito in un nulla di fatto.
A quel punto della gara, Remco Evenepoel avrebbe voluto portar via un piccolo gruppetto con cui poi andarsi a giocare la corsa più avanti. Ma in quel momento tutti sono sul chi vive, pronti a scattare come vipere al primo movimento sospetto e il tentativo viene annullato quasi d’inerzia. In quella fase, fra i -120 e i -90 è un continuo di attacchi e contrattacchi d’ogni genere. Ciò che rimane del gruppo è tenuto in continua tensione, non c’è mai un momento per rifiatare. Se in quei momenti può sembrare tutto facile, in realtà ogni goccia di energia usata adesso farà sì che nel finale - dopo oltre 250 chilometri di gara - le energie residue saranno per tutti prossime allo zero.
Lo stesso Remco Evenepoel - che forse per scelta, forse per necessità - aveva trascorso buona parte di quella fase più nascosto, restando invischiato spesso in quei buchi che ho già accennato, nel finale è crollato forse anche mentalmente. Una gara passata a rincorrere su un tracciato così nervoso può logorarti nel fisico e nella mente molto più rispetto a chi invece sta davanti a battagliare. Già una prima volta Evenepoel era rimasto attardato, tagliato fuori da un buco e riportato sotto da una grande azione dei suoi (con Van Aert che nel frattempo era nel gruppetto di testa a tirare come se niente fosse). Ai -90, con gli attacchi in successione di Trentin, Pogacar e poi Mathieu van der Poel che portano via un gruppetto ancora più selezionato, Evenepoel sembra definitivamente tagliato fuori. A riportarlo sotto ci penserà stavolta la Francia, con un’azione disperata dopo l’uscita di scena di Christophe Laporte che li ha condannati all’anonimato, dopo 20 chilometri di inseguimento in cui davanti sembravano fare molta meno fatica a mantenere il vantaggio rispetto a chi da dietro doveva inseguire. «It was brutal. Quando ci sono così tante curve, tutti questi stop and go», ha spiegato poi Evenepoel al termine della corsa «è molto dura per un corridore come me».
Atto II - La caccia alla volpe
La seconda parte della gara è stata più lineare, per quanto possibile. Dopo le fiammate precedenti, in cui in particolare Danimarca e Italia avevano cercato di accendere la corsa, era stato il momento dei tentativi dei big, con Mathieu van der Poel che già in quella fase sembrava l’uomo più in grado di fare la differenza con le sue sparate sui brevi strappi del percorso.
L’olandese ha corso praticamente da solo per tutti gli ultimi 120 chilometri. La sua squadra si era sfaldata con il primo forcing della Danimarca, così come tutte le altre Nazionali ad eccezione del Belgio che invece continuava ad avere Benoot, Van Hooydonck e Stuyven a disposizione di Remco Evenepoel e Wout Van Aert. Il secondo in particolare si era messo in mostra rispondendo prontamente a tutti gli attacchi dei suoi principali rivali, inserendosi in tutti i gruppetti che avevano provato a sganciarsi. Alcune volte addirittura con i suoi stessi compagni di squadra alle sue spalle a tirare il gruppo per rientrare. Una situazione di corsa che il Belgio quindi non ha gestito bene, finendo per fare da gregario a tutti gli altri avversari senza una strategia di corsa definita che non fosse: cerchiamo di tenere la corsa chiusa fino all’ultimo e poi vediamo.
Con un numero così importante di ciclisti di alto livello, il Belgio ha scelto una strategia conservativa per portare Van Aert ed Evenepoel più avanti possibile senza troppi danni. Con Evenepoel la strategia non ha funzionato e il campione uscente è rimasto spesso incastrato dietro spendendo troppo per recuperare ogni volta, non favorito dal percorso nervoso che rendeva controproducente una condotta di gara così attendista. Con Van Aert invece una tattica del genere non aveva proprio senso di esistere vista la sua capacità di essere sempre presente nelle azioni in testa. Forse sarebbe stato più utile per lui avere dei compagni a disposizione per sfruttare la superiorità numerica in maniera tatticamente più intelligente, magari provando a mettere in mezzo gli avversari (Van der Poel e Pogacar su tutti, essendo rimasti ben presto da soli senza squadra) e costringendoli a inseguire sulle varie pedine che il Belgio avrebbe potuto muovere a ripetizione.
A rovinare i piani del Belgio, costringendo quindi la squadra di Van Aert a inseguire più che a inventarsi mosse tattiche offensive, è arrivato a circa 55 chilometri dal traguardo l’attacco di Alberto Bettiol. Un’azione nata in sordina, al termine di una lunga fase di scatti solitari prontamente rintuzzati dal gruppetto di testa. Bettiol va via in contropiede ma senza scattare, prendendo silenziosamente qualche metro e poi sempre più. Il gruppo si allunga e si riapre, poi provano Skjelmose e Kung a ricucire ma con poca convinzione e l’azzurro vola via a una manciata di secondi mentre sul percorso inizia a cadere la pioggia.
Mentre il Belgio si organizza dietro, il vantaggio di Bettiol lievita fino a toccare i 40 secondi alle porte del terzultimo giro. L’azione degli azzurri era corretta: in un percorso del genere dove inseguire è difficile, con le squadre avversarie già sgretolate e le gambe pesanti, andar via da soli - anche se dalla lunga distanza - può essere la mossa vincente per sorprendere i grandi favoriti. «Non volevo restare con loro, volevo anticiparli, volevo rendere loro la vita più dura, volevo sognare e credere in questo Mondiale. Quando si sta nello stesso gruppo con loro si rischia di essere sorpresi e allora ho provato io a sorprenderli. Non avevamo tante chance di vincere, ho cercato di cogliere l’unica che avevo», ha detto Alberto Bettiol al termine della gara, stremato dopo la sua fuga solitaria.
Era l’unica possibilità, e infatti finché dietro il gruppetto è rimasto compatto a seguire il Belgio che tirava, Bettiol ha continuato a guadagnare un po’ alla volta. La svolta arriva proprio poco prima dell’inizio del terzultimo giro, quando Narvaez cade a terra in una curva scivolosa spezzando in due il gruppetto. Davanti restano soltanto Van Aert, Mads Pedersen, Tadej Pogacar e Mathieu van der Poel. Sulla carta sono loro i migliori in gruppo, i più forti. Forse qualcuno degli uomini dietro avrebbe potuto restare agganciato ma una volta caduto Narvaez e spezzato il gruppo, quei quattro hanno iniziato a collaborare e dietro nessuno è stato in grado di reagire prontamente.
E così per quasi 20 chilometri si protrae questa estenuante caccia alla volpe, dove la volpe è Alberto Bettiol e la muta di cani rabbiosi sono quei quattro bestioni all’inseguimento che si danno cambi regolari, liberati - per puro caso - dalla zavorra rappresentata dal resto del gruppetto. Il vantaggio di Bettiol cala subito intorno ai 20-25 secondi solo grazie allo slancio di entusiasmo dei quattro dietro all’idea di essere rimasti da soli. Passato il primo abbrivio la situazione resta comunque stabile, a dimostrazione ulteriore che anche volendo è molto difficile inseguire su questo percorso. Però alla fine Bettiol cede e dietro si avvicinano sempre di più. Accade tutto molto lentamente, all’incirca fra i 25 e i 22 chilometri dal traguardo: il vantaggio inizia a diminuire, i quattro dietro ora vedono la sagoma del ciclista azzurro in lontananza quando la strada si raddrizza abbastanza a lungo, e tutti quanti hanno il tempo di pensare a cosa succederà dopo nel momento in cui Bettiol sarà raggiunto e quei quattro si ritroveranno in testa, con 20 chilometri a disposizione per decidere chi è il più forte.
Atto III - Vlucht
Fino ai 22 chilometri dall’arrivo, quindi, la situazione era così come aveva preventivato la Danimarca, con Mads Pedersen ancora in gioco con i tre fenomeni del momento, e tutti gli altri avversari già scoppiati. La tattica di tirare il collo a tutti fin dall’imbocco del circuito a circa 130 chilometri dal traguardo aveva funzionato. Anche Pogacar poteva dirsi soddisfatto: nonostante fosse praticamente da solo, era riuscito a mettersi nella situazione giusta per lui e cioè portare la gara sul testa a testa diretto con i suoi principali avversari, senza che questi potessero far valere la forza delle rispettive squadre.
Mathieu van der Poel era nella stessa situazione, pur avendo speso meno energie, essendo rimasto ben nascosto e tranquillo (per quanto possibile) nella lunga fase di studio prima dell’azione di Bettiol. Un momento della corsa in cui invece Pogacar si era speso in prima persona per rispondere ad alcuni allunghi di Evenepoel. Ora, a poco più di venti chilometri dal traguardo, era rimasto solo con Pogacar, Pedersen e soprattutto Wout Van Aert.
Anche il belga era riuscito nel suo intento: tenere la corsa sotto controllo ed entrare nella parte decisiva della gara con gli altri grandi favoriti. Essere lì, quindi, nel finale di gara a giocarsi il tutto per tutto. A ben guardare però era anche quello dei quattro ad avere a disposizione la squadra più forte e temibile, ragion per cui è quello dei tre che meno doveva essere soddisfatto della situazione che si era creata. Era davanti, certo, ma isolato contro la sua bestia nera di sempre, un giovane ciclista che l’ha bastonato sulle sue strade al Giro delle Fiandre e una vecchia volpe danese che quando si va oltre i 250 chilometri è sempre lì. Tutto questo senza poter contare sul supporto di nessuno dei suoi compagni di squadra, senza poter provare in nessun modo ad avere la meglio tatticamente anziché buttandosi nella mischia a fare a botte a mani nude fino a vedere chi rimane in piedi per ultimo.
Mentre la sagoma di Bettiol si avvicina sempre di più, i quattro rimasti a giocarsi la vittoria pensano a dove attaccare, come fare a difendersi o più semplicemente come fare a portare la pelle a casa. Ed è proprio lì che Mathieu van der Poel, all’improvviso, si accende come un temporale estivo: «Sapevo che era il momento più duro della corsa dove si doveva provare. Mi sentivo molto forte fino alla fine, ho spinto gli altri al limite, ho scavato rapidamente un buco. Volavo».
In olandese uno dei modi di definire una fuga solitaria nel ciclismo è il termine vlucht, che si traduce solitamente con volo. Racchiude in sé l’essenza stessa dell’attacco decisivo, lo scatto su una breve salita a creare un buco fra sé e gli altri, fra sé stessi e tutto ciò che rimane indietro. E poi lo stare da soli, perché il volo è qualcosa che ti rende solo, mentre il resto del mondo diventa piccolissimo e quasi scompare dietro di te.
Mathieu van der Poel si scrolla tutti di ruota con forza, senza voltarsi a controllare perché già sa tutto quello che c’è da sapere. In un battito d’ali guadagna 20 secondi e continua a spingere lungo il circuito di Glasgow affrontando le curve con decisione. «E poi la caduta. Per un momento ho pensato che fosse finita, mi sono detto che ero stato stupido, che non dovevo prendere rischi». Entrando su una curva a destra, Van der Poel perde aderenza, la bici gli scappa via verso le transenne, la coscia sbatte sul bordo del marciapiede prima che il fianco destro si strofini lungo l’asfalto. In un attimo quello che era un volo trionfale si era trasformato in una brutta caduta. L’olandese però si rialza, riprende la bicicletta e riparte quando gli altri ancora non si vedono all’orizzonte.
Gli ultimi 15 chilometri sono solo rabbia e determinazione. Il vantaggio anziché scendere aumenta perché dietro non ci sono più energie e i tre iniziano a studiarsi per il piazzamento. Van Aert va via sull’ultimo strappo e poi Pogacar brucia Pedersen in quello che lo sloveno ha definito «uno sprint fra morti viventi». Una corsa massacrante decisa da una folgorante dimostrazione di forza di Van der Poel mentre dietro si è andati a eliminazione per i piazzamenti. Pogacar stesso ha raccontato: «Ho finito la corsa svuotato, mi sono sentito male dopo aver passato il traguardo. Volevo solo stendermi nel letto e non fare più niente. Ma ora va meglio».
Van Aert, secondo a 1’37”, ha ammesso la superiorità dell’olandese nel finale: «Non sono deluso. Mi sarebbe piaciuto vincere, certo, era l’obiettivo. Ma quando non è possibile e quando non fai errori, bisogna accettarlo. Mathieu è stato il più forte. Ero alla sua ruota quando ha attaccato e non potevo seguirlo».
Inseguire
Quinto è arrivato Stefan Kung, piazzato anche stavolta come ad Harrogate 2019, con un distacco di 3’48”. Decimo - solo, distrutto ma consapevole di aver fatto il possibile - Alberto Bettiol, primo degli azzurri. Dopo la conclusione della gara si è discusso molto della condotta di gara della Nazionale guidata da Daniele Bennati, fra chi avrebbe voluto una corsa più attendista (ma a quale scopo? Per favorire chi?) o chi sostiene che Bettiol avrebbe dovuto aspettare il quartetto all’inseguimento anziché insistere nella fuga solitaria. Discussioni che sembrano senza reale contenuto alla luce dell’andamento della gara e delle caratteristiche degli atleti italiani e del percorso. L’Italia ha provato - come la Danimarca - a far impazzire la corazzata belga fino a sgretolarla. Se la Danimarca puntava a far male alle gambe del gruppo per giocarsi Pedersen sulla resistenza, l’Italia voleva mettere le squadre avversarie in difficoltà per poi provare un’azione come quella di Bettiol. La caduta di Trentin ha un po’ rovinato i piani, perché la presenza di un altro italiano nel gruppetto avrebbe aiutato per rompere i cambi o semplicemente innervosire gli avversari.
Alla fine sono mancati gli ultimi venti chilometri alla strategia di Bennati. Forse è mancato anche il fenomeno, la punta di diamante, come poteva essere Filippo Ganna che però era impegnato su pista con l’inseguimento. Prima a trascinare il quartetto nella finale persa contro la Danimarca, in un’ideale rivincita delle Olimpiadi di Tokyo. Poi a giocarsi il titolo mondiale nell’individuale in una sfida assurda e appassionante contro il britannico Dan Bigham, incontrato sia in batteria la mattina che nella finale per l’oro, domenica sera.
Una gara dal tasso tecnico - va detto - non così elevato come ci si poteva aspettare, soprattutto da Filippo Ganna che rispetto alle qualifiche ha addirittura alzato di 6 decimi il tempo finale (4:01.344 contro i 4:01.976 che sono valsi l’oro) probabilmente provato dalle varie gare affrontate in due giorni fra l’inseguimento a squadre e le qualifiche dell’individuale. Resta comunque una prestazione di grandissimo rilievo, visto che nessun altro essere umano al mondo sa replicare - al momento - i tempi di Ganna sui 4 chilometri. Una gara resa eccezionale dal salto di qualità di Dan Bigham che ha alzato di molto l’asticella girando in 4:02:030, quasi un secondo in meno rispetto al 4:02.961 delle qualificazioni. Un atleta che merita grande rispetto, non solo per il piazzamento in sé ma anche alla luce del fatto che ha di fatto annullato tutti gli altri atleti in gara, compreso il nostro Jonathan Milan che si è dovuto accontentare di vincere la sfida per il bronzo facendo registrare 4:05.868. Teoricamente un buon tempo, se non fosse che fra lui e Bigham ad oggi ci sono quasi 4 secondi di distanza.
Le due sfide fra Ganna e Bigham sono piuttosto simili per svolgimento: Bigham passa davanti subito, incrementa il vantaggio nei primi tre chilometri e poi Ganna mette il turbo, rimonta e vince in scioltezza. Se in batteria il piano aveva funzionato senza troppi patemi, in finale la questione si era fatta più complicata complice un terzo chilometro di Bigham di quasi un secondo e mezzo più rapido rispetto a quanto fatto registrare in qualifica che lo aveva portato a girare ai 3 chilometri a 3:02.336 contro i 3:04.504 di Ganna (e contro i 3:03.159 del mattino).
Un distacco superiore ai 2 secondi che stavolta non ne voleva sapere di scendere. Nonostante il solito forcing finale di Ganna - che batteva tempi sul giro sempre inferiori ai 14 secondi e mezzo - Bigham teneva duro: nei primi 250 metri Bigham va 2 decimi più veloce rispetto a quanto fatto nelle qualifiche e ai 3500 metri passa 1 secondo sotto rispetto al tempo della mattina. Ganna insiste ma il vantaggio non scende come dovrebbe. Ai 3500 metri Ganna piazza un altro giro sotto ai 14.4 secondi (14.374) mentre Bigham inizia a cedere salendo a 14.755. Al giro successivo il vantaggio del britannico è ancora superiore al secondo ma Ganna tiene ancora coi tempi sul giro (14.392) mentre Bigham è già salito a 15.063. L’ultimo giro è un delirio di onnipotenza: ai 125 metri il vantaggio di Bigham è dimezzato a poco più di mezzo secondo. Le immagini staccano sulle telecamere fisse giusto in tempo per mostrare le due biciclette che compaiono dai lati opposti allo stesso tempo e si fiondano sulla linea del traguardo praticamente insieme. Praticamente, perché quella di Ganna ci arriva un attimo prima, una frazione di secondo. Per l’esattezza 54 millesimi, ma tanto basta per l’oro.
Il volo di Ganna verso il suo sesto oro mondiale nell’inseguimento individuale è durato poco più di 4 minuti, ma il tempo - nel ciclismo - è un concetto piuttosto variabile, che assume importanza in base al contesto in cui viene misurato. Accade così che 4 minuti sono tanti se percorsi da un uomo che gira in tondo su una pista ovale nel tentativo di acchiappare un altro uomo in bicicletta. Sono pochissimi però se li inseriamo nel contesto di una corsa su strada di più di 270 chilometri. E sono di nuovo tanti se li cronometriamo, in attesa che arrivino i piazzati, sconfitti o meno in base alle aspettative.
Dopo 4 minuti arriva al traguardo Alberto Bettiol, decimo, distrutto, solo. Mathieu van der Poel sta già festeggiando, la maglia strappata lungo il fianco destro che non è più un problema ormai, ma solo un ultimo sprazzo di follia in un Mondiale senza respiro.