
Voglio proporvi un esercizio stilistico. Vi racconto un gol – un gol bello, entusiasmante, a suo modo storico – segnato da Miguel Merentiel nella partita di qualche giorno fa tra Boca Juniors e Bayern Monaco, e voi dovete immaginarlo.
Gli "xeneizes" ripartono in contropiede dopo un’azione offensiva del Bayern, la palla arriva a Velasco, sulla fascia destra, largo, c’è il centravanti Miguel Merentiel, detto "la bestia". Merentiel detta il passaggio, si invola dando un metro a Tah, con un drible de vaca supera Stanisic e infine batte Neuer.
Ora ve lo faccio vedere: però guardatelo con l’audio.
Così, di primo acchito, uno potrebbe pensare che si tratti di un gol segnato a La Bombonera: in fondo, il colpo d’occhio, all’Hard Rock Stadium, era questo, una muraglia gialloblu, cinquantamila tifosi del Boca con la missione, lontani da Buenos Aires, di far sembrare Miami un po’ Buenos Aires, e probabilmente sarebbe stato lo stesso anche se in ballo non ci fosse stata una rivincita attesa ventiquattro anni (il Bayern strappò al Boca di Riquelme, di Palermo, dei fratelli Schelotto la Coppa Intercontinentale 2001).
«La febbre del calcio è esplosa negli Stati Uniti», ha detto Gianni Infantino, piuttosto tronfio, commentando le immagini della marea di tifosi bosteros che hanno invaso la Florida: in cuor suo il presidente della FIFA sapeva perfettamente che se c’era qualcuno che avrebbe potuto inoculare quel virus sarebbero stati i sudamericani, in un Paese in cui il calcio continua a contare relativamente poco.
Mentre in America Latina, invece, il calcio è una cosa serissima, e ogni confronto con l’Europa un’occasione di rivalsa, oltre che di rivendicazione. Perché c’è ancora, fortissimo, vivissimo, quello che dopo il Maracanazo Nelson Rodríguez chiamò complexo do vira-lata, il complesso del cane randagio: un sentimento di inferiorità culturale e sociale che allora portò i brasiliani – e potremmo dire, oggi, tutto il continente – a percepire se stessi come incapaci di competere ad armi pari col resto del mondo.
«Il Mondiale per Club non è l’origine dei problemi che investono il calcio, però è di certo uno specchio in più su cui si riflettono le contraddizioni che lo riguardano», ha detto qualche settimana fa Jorge Valdano. Dall’analisi de el filosofo del fútbol emerge chiaramente come in fin dei conti gli unici a uscire vincitori da questa kermesse siano i tifosi: quelli per i quali «il gioco continua ad avere il sapore dell’infanzia». Certo, magari non tutti i tifosi. Ma di sicuro quelli sudamericani. Su La Nación Ariel Senosiain è stato più tranciante, arrivando al punto: «Il calcio imbellettato e impacchettato ha bisogno della passione sudamericana».
Sembra un’affermazione retorica, in parte forse lo è, soprattutto agli occhi di questa parte di mondo, quella in cui siamo noi, dove la Coppa del Mondo per Club ha tutta l’aria di essere solo un’enorme macchinazione business, una messinscena in cui sull’altare dei dollari si celebra una messa posticcia. Eppure in Sudamerica l’idea della guerra dei mondi, che alla fine della fiera faceva da propellente principale alla Cara Vecchia Coppa Intercontinentale e che era un po’ scemata da quando la competizione ha cambiato format, è tornata prepotentemente in auge in questa Coppa del Mondo per Club.
Andrés Burgo, su TyC, ha scritto che la Coppa del Mondo per Club è «un luogo in cui il resto del mondo» escludendo l’Europa «può esercitare il suo diritto quadriennale alla rivendicazione»: «ad oggi», ha scritto «è questo il più grande successo della FIFA».
«È un grandissimo torneo», mi dice Burgo: da quando ho tradotto il suo “El Partido” ci sentiamo spesso per parlare di questioni che riguardano il calcio argentino. «Qua lo amiamo da morire. E perché non dovrebbe esserlo? Per vedere PSG-Atlético Madrid c’è già la Champions League, mentre Fluminense-Borussia Dortmund è una partita che finora avresti visto solo sulla Playstation». «E poi è una competizione proprio da futboleros. Non è come il Mondiale, che è un torneo per famiglie, per chi guarda il calcio ogni quattro anni. Questo è il torneo perfetto per chi il calcio lo guarda sempre. Così come l’Europa esce dall’Europa per cercare giocatori, che esca dall’Europa pure per giocarsela».
In un racconto che si trova in Splendori e miserie del gioco del calcio intitolato Numeretti, Eduardo Galeano si trasforma in matematico per fare la conta delle volte in cui il calcio sudamericano, messo a confronto con quello europeo, ha avuto la meglio. A differenza di quanto accaduto nei Mondiali per nazionali – in cui la sperequazione tra le probabilità statistiche di vittoria di Nazionali europee e americane era troppo evidente – nel contesto della Coppa Intercontinentale c’è sempre stato un sostanziale equilibrio. Nelle 43 edizioni disputate, infatti, le europee hanno vinto 21 volte; le sudamericane 22.
Dal 2005, cioè da quando la FIFA ha instaurato il Mondiale per Club, invece, soltanto in tre occasioni il trofeo è stato alzato da una squadra sudamericana (sarebbe meglio dire brasiliana): dal São Paulo nell’edizione inaugurale, dall’Internacional de Porto Alegre nel 2006 e dal Corinthians nel 2012. Parliamo ormai di tredici anni fa, due o tre epoche calcistiche fa. «È evidente che le europee partano avvantaggiate», ha dichiarato Luis Enrique, il tecnico del PSG. «Hanno in squadra i migliori giocatori sudamericani, africani, asiatici». In questa edizione, in campo scenderanno 142 calciatori brasiliani e 104 argentini, molti dei quali nelle file dei club europei.
L’Europa, da almeno sette secoli, attinge dalle vene aperte dell’America Latina, come le ha chiamato lo stesso Eduardo Galeano. In quel flusso emorragico in cui prima galleggiavano oro, rame e caffè, oggi fluiscono piedi educati e fantasia futbolera: in un sistema che depreda risorse tecniche, economiche, persino culturali, l’America Latina è ancora una specie di vivaio di lusso. Il 20 giugno, il giorno in cui in Argentina si celebra el día de la bandera, su X mi sono imbattuto in una frase del generale Manuel Belgrano (uno degli eroi della guerra d'indipendenza argentina) che diceva «i paesi civilizzati non esportano le materie prima senza trasformarle in loco, perché così facendo creano occupazione nel paese che compra, e disoccupazione in quello che vende. Facciamo in modo di non esportare cuoio: esportiamo scarpe».
«È la visione dell’Impero», mi dice Burgo. «L’Europa si porta via i nostri migliori giocatori già quando hanno 17 o 18 anni, ve li godete voi. E poi ci tocca leggere che in Europa tornei come questi vengono visti come il fumo agli occhi. Per noi è un’occasione di rivendicazione». L’occasione, per dirla con Belgrano, di mettere in mostra non solo il proprio cuoio, ma le proprie scarpe.
Certo, la Coppa del Mondo per Club, in questo formato, appare ancor più che in passato come una prosecuzione del colonialismo con altri mezzi: la maggior parte dei club coinvolti viene dall’Europa, con il Sudamerica relegato a un luogo marginale. Ma proprio da questa marginalità, in questo anfratto di resistenza, è come sorto un movimento culturale di ribellione, il germe di un potenziale cambio di prospettiva: un’energia ribelle, quasi da popolo in lotta, che è una maniera per opporsi al potere economico e culturale che l’Europa esercita nel calcio attraverso la riappropriazione – anche poetica, se vogliamo – del peso culturale, e mitopoietico, che il calcio ha in Sudamerica, e che ha trovato su un terreno neutro, fuori dalla propria zona di comfort, il terroir perfetto per attecchire e fiorire rigogliosa. In fondo, se ci pensiamo bene, quando e soprattutto dove è nato il mito della Doce, la mitica curva del Boca? Fuori dall’Argentina, durante la tournée che il Boca fece in Europa – coincidenza – proprio un secolo fa, nel 1925.
In questa Coppa del Mondo per Club, i sudamericani hanno intravisto l’opportunità di liberarsi di quel complesso del cane randagio. «Non è un complesso di inferiorità», mi ha detto Ezequiel Fernández Moores, uno dei più stimati giornalisti argentini. «È proprio inferiorità. E quindi hai voglia di affermarti, più fame ancora di affermarti. Le distanze restano comunque abissali: e pensare che una volta eravamo noi, quelli che gli europei chiamavano maestros quando andavamo in tournée nel vecchio continente».
«Una tensione che peraltro non credo fosse pianificata a tavolino», continua Ezequiel. «Il duello Europa-Sudamerica, intendo. Che resta comunque un duello fittizio, non fosse altro per la differenza di motivazioni».
Qualcuno potrebbe opinare che anche l’appropriazione culturale della passione futbolera sia, in qualche modo, una perpetuazione degli afflati colonialistici, di quell’affetto à la Rousseau per il buon selvaggio. Parlo del trasporto che proviamo noi per la fiumana di gente vestita coi colori del Boca che si riversa sulle spiagge di Miami Beach; l’emotività tanto al chilo; lo sguardo compassionevole con cui oggi guardiamo i reel del padre che piange la morte del figlio che gli aveva regalato i biglietti per vivere questa esperienza unica; il ragazzino che a Copacabana, dove era arrivato vendendosi la Playstation (e il padre la moto) per accedere alla finale di Libertadores pur non avendo i biglietti, urlava con gli occhi lucidi «esto es Boca, loco».
«Vanno sfatati un po’ di miti», mi dice Burgo «Innanzitutto la movimentazione di massa: a Miami vivono 80mila argentini, è normale che ci sia tutto quel trasporto». È però vero che non stiamo assistendo all’esodo di massa di Qatar 2022. «E poi va detto che non ci fa bene, a noi sudamericani, quella narrazione piena di compassione, tipo “uh, sì, perdono, però guarda come fanno il tifo!"». Mentre ne parliamo ci troviamo a concordare, con Andrés, che sembra un po’ lo stesso sguardo che devono aver lanciato Cristoforo Colombo o Juan Díaz de Solís o Pedro de Mendoza agli autoctoni quando sono sbarcati nelle Americhe.
Se c’è qualcosa da cui il Sudamerica deve liberarsi è questa stretta di mano benevolente, questa visione di continente che vince solo la Coppa per Il Miglior Tifo e quella per la Sconfitta Più Degna. «Guarda le brasiliane, per esempio», dice Burgo. «Vincono, portano gente allo stadio, giocano bene. Non se lo sarebbe aspettato nessuno, no?».
Che il canone tradizionale, in qualche modo, potesse essere sovvertito in questa Coppa del Mondo per Club è cominciato a essere evidente quando l'Inter Miami ha sconfitto il Porto (possiamo includere Miami nella rappresentazione dell’americanità del calcio? Possiamo farlo soltanto perché c’è Messi? Direi di sì). Ma è deflagrato in tutta la sua entusiasta incontrovertibilità quando il Botafogo, campione in carica della Copa Libertadores, ha sconfitto il PSG fresco vincitore della Champions League in quella che è stata una specie di riedizione della vecchia Coppa Intercontinentale. Quando è accaduto quel che non accadeva da tredici anni, con il suono del pandeiro e dei surdo a fare da sottofondo al più inatteso (e in fondo sperato, in America Latina) dei plot twist, c’è stata come una rinascita, arrivata sull’onda di una serie di cliché magari abusati ma sempre validi: Davide può ancora battere Golia, il sudaca straccione, irriverente e sporco può farsi beffe del calcio imbellettato e gonfio di petroldollari d’Europa. Prima del match, in maniera piuttosto profetica (e anche un po’ mistica), l’allenatore del Botafogo Renato Paiva aveva detto: «Il cimitero del calcio è pieno di favoriti». I favoriti non erano di certo i sudamericani: ha avuto ragione.
A rafforzare l’aura del tutto è possibile, a rinfrancare gli animi sudamericani, poi, sarebbe arrivato il successo contro il Chelsea del Flamengo, unica squadra sudamericana capace di battere, in tutta la storia del calcio, per due volte una squadra inglese in competizioni ufficiali, nonché la prima ad aver segnato tre reti a un’europea da venticinque anni a questa parte. Un successo arrivato in rimonta, nel giro di tre minuti, nonostante 21 partite in più giocate nell’arco dell’anno solare (contro cioè quel punto di vista secondo il quale a sfavorire le europee sia la mole di partite da sostenere): insomma, una vittoria storica, con tutte la caratteristiche per alzare la testa e gridare al mondo ci siamo pure noi, e guardate come siamo sfavillanti, e irriverenti, e maleducati. Il social media manager del Flamengo, per dire, nell’account ufficiale su X ha pubblicato il report finale del match celebrando «una facile vittoria contro London Blue», giocando sul nome del Chelsea in un famoso videogioco (e mettendo quello stemma, quello del gioco, anziché il reale).
In realtà durante la partita il social media manager si era sbizzarrito abbastanza: eppure, nei giorni successivi, alcuni dei meme lanciati sono stati frettolosamente cancellati. Ora bisognerebbe capire se si tratti di una mossa di aplomb (del tipo ok, siamo qua per giocarcela, facciamo le persone serie) o se si tratti semplicemente dell’obbedienza a un ordine superiore, cioè se a qualcuno abbia dato davvero così fastidio da imporre la rimozione. Sarebbe controintuitivo, no? Se si vuole surfare sull’onda della sudamericanità bisogna pur in qualche modo accettare il pacchetto completo, no?
In fondo se c’è qualcosa di cui va reso merito al Sudamerica, in questa Coppa del Mondo per club, è di aver in qualche modo sbloccato un ricordo, riacceso una passione per un’arcadia che forse non c’è più o che non sappiamo più viverci in Europa: un trasporto, che porta a vivere un’esperienza a 360 gradi, per definire il quale non mi viene aggettivo più calzante di loco.
Ma poi c’è anche un altro aspetto, che forse è il più interessante: questa Coppa del Mondo per Club sta risvegliando, negli animi sudamericani, una sorta di bolivarismo panamericano di ritorno. «Gli argentini hanno esultato per i gol dei brasiliani, ma ci pensi? Qualcosa di impensabile!», mi dice Andrés Burgo. Una volta, in un’intervista per la rivista brasiliana Placar, Menotti disse «l’Argentina e il Brasile rappresentano il calcio-arte, non dovrebbero farsi la guerra in campo, piuttosto dovrebbero mettersi insieme contro il calcio-forza che si gioca in Europa». Sarebbe stato contento, allora, di assistere a questi cambi di prospettiva, alle mozioni per dare a Infantino il Nobel per la Pace per aver finalmente posizionato argentini e brasiliani sotto un vessillo comune. «Poi magari l’anno prossimo in Libertadores riprenderemo a darci battaglia. Ma per ora c’è una specie di spirito regionalista difficile da spiegare, siamo il continente più felice del mondo», continua Burgo.
Sarebbe fantastico – non lo è del tutto, c’è da dire – se l’affermazione del Sudamerica fosse anche la vittoria di un modello sociale. D'altra parte, politicamente, il panamericansimo è un sentimento che in Sudamerica ha radici antichissime, e che nasce con la stessa indipendenza degli stati sudamericani.
Di tutte le squadre sudamericane, soltanto il Botafogo – proprietà del magnate John Textor – è una SAD, cioè una Sociedad Autonoma Deportiva, vale a dire un club con una proprietà privata strutturato come un’impresa. «Il calcio è strano, no?», mi fa Ezequiel Fernández Moores. «Alla fine di tutto questo trionfo sudamericano chi è il più felice? Uno statunitense, il proprietario!». «Tutte le altre squadre sudamericane», mi spiega Burgo, «sono società civili senza fine di lucro, ad azionariato popolare, con una forte etica sociale». Una strutturazione societaria contro la quale Milei è in lotta da quando ha assunto la carica di Presidente della Repubblica Argentina, e che nondimeno continua a rappresentare ancora il vanto del fútbol, una caratteristica che rende il calcio sudamericano così unico, così peculiare.
Il Mondiale per Club si sta dimostrando, almeno in questa prima fase, la piattaforma, o il campo di battaglia se vogliamo metterci più enfasi, in cui un club ad azionariato popolare, in cui i soci sono padroni di ogni processo decisionale, può battersi alla pari con i club dell’altro lato dell’Oceano, ma più at large contro un’idea di calcio. Il paradosso, però, è che per come funziona sarà anche un meccanismo che alimenta la sperequazione. «Finirà per allargare ancor di più le differenze anche all’interno dei paesi dell’America Latina», spiega Ezequiel Fernández Moores. «Boca e River, per esempio: prendono un sacco di soldi per la partecipazione, e questo non farà che alimentare la differenza rispetto agli altri club argentini. Insomma, per dirla in una parola, l’élite si fa sempre più élite».
Resta il fatto che almeno per qualche settimana il Sudamerica, orgogliosamente, si sta rendendo conto – o magari solo illudendo – giorno dopo giorno che la differenza non è mai stata così sottile. E che si può addirittura pensare che una sudamericana possa vincerlo, il Mondiale.
«Poniamo che succeda», dice Ezequiel Fernández Moores, «e quindi? Cosa significa, poi, che quella squadra è la migliore del mondo? Sappiamo che non è così: sarebbe solo quella che ha giocato meglio le sei partite del Mondiale per Club. Se dicessimo che gli europei si stanno impegnando nella competizione tanto quanto i sudamericani, diremmo una bugia: è evidente che non c’è la stessa fame, non c’è mai stata. Quando si giocava l’Intercontinentale, noi arrivavamo in Giappone una settimana prima. E gli europei scendevano dall’aereo e giocavano, più o meno. Per noi era un’impresa: per loro una coppetta. E oggi è lo stesso: per gli europei una serie di amichevoli molto ben pagate. Mentre noi, invece, siamo arrivati con la voglia di dimostrare di essere i migliori, o quantomeno di dimostrare che esistiamo. Ecco cosa è: quando ti dicono che non esisti, e poi di colpo invece eccoti, ci sei».
«Anche il semplice fatto di far vedere che ci siamo», fa eco Andrés, «per noi è già una vittoria».