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Fulvio Paglialunga
Perché l'indagine dell'Antimafia ci riguarda tutti
28 mar 2017
28 mar 2017
La questione complessa dei presunti rapporti tra Juventus e la 'ndrangheta solleva questioni più generali.
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Fulvio Paglialunga
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È una storia di intrecci e di calcio, di rapporti al limite e di contaminazioni. Parla della Juve, potrebbe parlare di altre. Ma in questo momento parla della Juve ed è già un problema, perché la Juve fa rumore e divide come nessuno: di qua gli juventini, di là tutti gli altri, diventa il momento in cui ogni ragionamento finisce soppiantato dal tifo o dal tifo contro. Anche quando l'argomento è estremamente serio, anche quando si parla di possibili infiltrazioni della 'ndrangheta nel mondo del pallone. Un caso, quindi, in cui andrebbero posate le bandiere. Non è una questione da partigiani.

 

 



 

Qui si parla di 'ndrangheta, della possibile attività di una cellula della cosca Pesce-Bellocco nell'Alto Piemonte, di un'inchiesta della Procura di Torino che coinvolge persone accusate di 84 reati, dall'associazione mafiosa alla detenzione d'armi, dall'estorsione al tentato omicidio. E di un padre e un figlio, Saverio e Rocco Dominello, ritenuti appartenenti alla cosca; ai quali è contestato il 416 bis e, tra le altre cose, il tentativo di infiltrarsi nella curva dei tifosi della Juventus per avere contatti con la dirigenza, ottenere biglietti da rivendere a prezzo maggiorato. Fare soldi.

 

Un sospetto sistema di controllo e guadagni illeciti che coinvolge la Juve non sul piano penale (non ci sono dirigenti indagati e la società non figura nemmeno come parte offesa), ma su quello sportivo, motivo per cui tutti i documenti sono stati poi inviati alla Procura Federale per le sue indagini.

 

Ma la contaminazione del mondo del calcio e in questo caso di quello intorno alla Juve è un argomento da affrontare seriamente: i Dominello

tra i fondatori de “I Gobbi”, gruppo che si fa strada nella curva juventina nel 2013, ma Rocco, secondo la Procura, sarà già visto prima (dal 2009) come «uomo di mediazione» e «dai toni equilibrati e mai evidentemente minacciosi» in un momento in cui la Curva juventina è parecchio divisa.

 

Si fa paciere ma, a leggere quanto scrivono gli inquirenti, non per amore della concordia, quanto perché «vi sarebbe stata la ferma volontà da parte della ’ndrangheta torinese e milanese di evitare l’insorgere di una guerra tra bande che avrebbe avuto l’unico effetto di intralciare le attività redditizie illecite che gravitano intorno agli incontri di calcio e del nuovo stadio in particolare».

 

Rocco Dominello è colui che tiene la pace nella Curva Scirea e così prima si candida a diventare interlocutore della società poi lo diventa. Qui il terreno si fa scivoloso.

 

 



 

Secondo la Procura Federale, Andrea Agnelli da presidente della Juventus, dalla stagione 2011-12 almeno fino a quella passata - «con il dichiarato intento di mantenere l'ordine pubblico nei settori dello stadio occupati dai tifosi “ultras” al fine di evitare alla società da lui presieduta pesanti e ricorrenti ammende e/o sanzioni di natura sportiva - non impediva a tesserati, dirigenti e dipendenti della Juventus di intrattenere rapporti costanti e duraturi con i cosiddetti “gruppi ultras”, anche per il tramite e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata; autorizzando la fornitura agli stessi di donazioni di biglietti e abbonamenti in numero superiore al consentito (…) così violando disposizioni di norme di pubblica sicurezza sulla cessione dei tagliandi (…) e favorendo, consapevolmente, il fenomeno del bagarinaggio, partecipando personalmente in alcune occasioni a incontri con esponenti della malavita organizzata e della tifoseria “ultras”».

 

È scritto nella comunicazione delle indagini della Procura Federale, che ha messo nel mirino Agnelli, ma non solo: ci sono anche Francesco Calvo, all'epoca capo del settore commerciale (poi passato al Barcellona), Alessandro D'Angelo, security manager, e Stefano Merulla, responsabile del ticket office; la Juve, invece, dovrà rispondere per responsabilità diretta.

 

Quello che la Procura Federale dice, dunque, è che Agnelli e la Juventus hanno violato la norma sui biglietti, ma soprattutto che avessero rapporti con un elemento di spicco della malavita organizzata.

 



 

A questo punto giova ricordare due cose. La prima è che nella giustizia sportiva l'onere della prova è dell'accusato (una sorta di presunzione di colpevolezza) e quindi devono essere Agnelli e la Juve a dimostrare la loro innocenza e non la Procura la validità delle accuse; la seconda è che la Juventus ha già scartato l'ipotesi di un patteggiamento (previsto, da prassi, già come opzione nella comunicazione di conclusione delle indagini). Perché non è la violazione della norma sui biglietti il problema (quella è incontestabile e ha la sua gravità), quanto i rapporti di Andrea Agnelli con la Curva e quelli presunti con esponenti della 'ndrangheta, in particolare con Rocco Dominello.

 

Se non sono veri – e per la Juve non sono veri – sono un'onta da lavare, e il patteggiamento sarebbe un'ammissione di colpa. La società almeno da questo punto di vista vuole uscire pulita, dimostrando che anche se le persone con cui aveva rapporti erano esponenti di cosche (e non è ancora provato), Agnelli ne era comunque inconsapevole.

 

 



 

Tutto gira intorno ad alcune domande implicite. Agnelli aveva rapporti diretti con Dominello? Lo ha incontrato da solo o con altri ultrà? Conosceva la sua appartenenza a una famiglia “in odore” di 'ndrangheta? È un inseguirsi di dichiarazioni, audizioni, prove annunciate ma che non si vedono. Lo ha visto da solo una volta, forse due, macché nessuna, sempre in gruppo. E ancora: conosceva lo spessore criminale dei suoi interlocutori o non si può neanche parlare di spessore criminale nel caso di una persona che, ancora oggi, è incensurata?

 

Agnelli è già stato

dalla Procura Federale (a fine febbraio, ma si è saputo solo ora) e avrebbe detto di non aver mai incontrato Dominello, cosa che non coinciderebbe con le dichiarazioni dell’avvocato dell’imputato che dice che invece i due si sono visti. Poi fonti della Juve hanno precisato che Agnelli avrebbe detto di non aver mai incontrato «da solo» Dominello. Ma il vero problema sarebbe se Agnelli ha detto la verità o se sta nascondendo canali preferenziali. Cosa che, al netto del giudizio morale su possibili “bugie” dette in sede istituzionale, acquisterebbe peso solo se poi si dovesse scoprire che il presidente juventino sapesse di aver a che fare con uno ‘ndranghetista.

 

Ma, questo è un passaggio certo, Dominello non è uno ‘ndranghetista per sentenza, al momento è incensurato e il suo casellario sarebbe stato sventolato da Chiappero, l’avvocato della Juve, proprio in audizione dinanzi alla commissione Antimafia.

 

La “natura giuridica” di Dominello è un cavallo di battaglia del suo legale, che si è detto pronto a querelare Pecoraro per averlo definito di fatto un mafioso senza che il processo “Alto Piemonte” sia ancora cominciato. E sembra si stia giocando su questo la partita in Procura Federale: Agnelli sapeva con chi stava parlando? O forse, più a fondo, con chi doveva ritenere di star parlando Agnelli, visto che lo stesso Stato non aveva mai perseguito Rocco Dominello?

 

Di certo quando si parla con i rappresentati delle curve, soprattutto se gli argomenti sono quelli di cui riferisce lo stesso Pecoraro (mantenere la quiete, evitare multe) o i carabinieri (per cui si è trattata di una sorta di estorsione) è facile che agli incontri non partecipino persone candidissime. Questo

Agnelli non lo nega: «All’argomento che qualcuno di voi potrebbe opporre – ha detto nel comunicato post deferimento -, che gli ultras o i loro capi non sono stinchi di santo, io vi dico che condivido ma rispetto le leggi dello stato e queste persone erano libere e non avevano alcuna restrizione a frequentare lo stadio e le partite di calcio».

 

Dunque: Agnelli dice di aver incontrato Dominello e gli altri sapendo di incontrare uomini liberi, senza alcuna pendenza. La Procura Federale, invece, sostiene che non fosse così e durante l’audizione di Chiappero all’Antimafia Rosy Bindi ha detto che ci sono intercettazioni che provano la natura del rapporto tra il presidente e Dominello. Non sono, però, negli atti della difesa; e di alcune intercettazioni si è solo sentito parlare in modo confuso, cosa che non fa gioco a Pecoraro.

 

La tempistica della pubblicazione di queste intercettazioni sulla stampa, poi, è degna di un colpo di testa di Sergio Ramos: non appena la Juve ha smentito la conoscenza delle attività di Dominello (o quanto meno dell’appartenenza a una famiglia presunta ‘ndranghetista) è saltata fuori quella, ormai famosa, in cui Agnelli

a D’Angelo, capo della sicurezza dello Stadium: «Il problema è che questo ha ucciso gente».

 

Ma anche in quel caso, Agnelli sta parlando di Loris Grancini - capo dei Viking, gruppo in contestazione nei confronti della società ancora adesso - non di Dominello. Per Pecoraro, comunque, è una dimostrazione del fatto che il presidente sia «consapevole dello spessore criminale di certi interlocutori», anche se sul rapporto tra il presidente e Dominello si limita a dire, negli atti, che «dalle telefonate si evince il rapporto di buona conoscenza del presidente con Dominello, tale da non avere la necessità di chiedere spiegazioni a D’Angelo quando costui nomina “Rocco”».

 

 



 

Ora, mettendo un attimo il tifo da parte è evidente che l’argomento è serio, e che è giusto andare quanto più a fondo possibile perché in quella Curva (e poi, a cascata, nelle altre) c’è qualcosa che non va.

 

Però, ragionando sugli elementi al momento a disposizione, è doveroso distinguere tra un paventato accostamento della Juve alla ‘ndrangheta e un’implicita richiesta rivolta ad Agnelli (e per esteso a qualunque presidente di una società sportiva) di sostituirsi allo Stato. In questo conviene sottolineare una frase

dall’avvocato juventino Luigi Chiappero dinanzi all’Antimafia: «Se la Digos non si è mai accorta e non ha mai segnalato alla magistratura la presenza di uno 'ndranghetista dentro la nostra curva, doveva forse farlo il povero Alessandro D’Angelo?».

 

L’ultima carta a disposizione della Procura sembra essere un’intercettazione al centro di un giallo: Pecoraro avrebbe riferito in commissione Antimafia (nella sessione secretata) di una telefonata di Agnelli a D’Angelo di questo tenore: «I due fratelli (di Dominello) sono stati arrestati. Rocco è incensurato, parliamo con lui». Ma in realtà, il quotidiano La Repubblica ha svelato che la telefonata è avvenuta tra Francesco Calvo, l’ex direttore marketing, e D’Angelo. E che persino il contenuto è diverso: «hanno arrestato due fratelli di Rocco. Lui è incensurato, abbiamo sempre parlato solo con lui».

 

La prima versione presupponeva contatti con l’intera famiglia (e qui le notizie erano note e la Juve non avrebbe potuto non sapere con che tipo di famiglia avesse a che fare, considerato che lo stesso D’Angelo ha detto di aver cercato su Google notizie riguardanti il padre di Rocco Dominello); la seconda versione, invece, mostra quasi sollievo per aver avuto a che fare realmente con un incensurato.

 



 

Inoltre, di questa intercettazione non ci sarebbe

in quelle trasmesse dalla Procura di Torino alla Commissione Antimafia. Sarebbe, infatti, una telefonata del 5 agosto 2016, di un mese successiva all’arresto di Rocco Dominello, e quindi senza valore probatorio.

 

Volendo, la questione si potrebbe brutalmente sintetizzare così: da una parte va capito il reale contenuto di quella telefonata per vedere se Antimafia e Procura Federale hanno ragione sul punto in questione; dall’altra, Andrea Agnelli dovrebbe essere un po’ più chiaro e lineare (sul come e sul quando ha incontrato Dominello rimane sempre troppo superficiale o facile ai fraintendimenti). E non è detto che non la sarà ad aprile, quando si presenterà dinanzi all’Antimafia.

 

 



 

A questo punto va sottolineata una cosa: la Juventus ha il diritto di difendersi come crede, si scontra con un'accusa pesante, essendo uscita indenne dalla giustizia ordinaria. Avrebbe potuto ribadire questo: che per la Procura di Torino la società non ha parte attiva, ma è vittima della vicenda, spiegare i perché del fatto non denunciato e andare dritto alla ricerca dell'assoluzione.

 

Invece Agnelli ha giocato la carta dell'offeso in conferenza stampa (atipica: solo il tempo della lettura di

) e ha paventato il complotto nato da «una lettura parziale e preconcetta nei confronti della Juventus e non rispondente a logiche di giustizia» e parlato del nome del club da difendere perché «per troppe volte è già stato infangato o sottoposto a curiosi procedimenti sperimentali da parte della giustizia sportiva». Facendo, implicitamente ma abbastanza evidentemente, riferimento a Calciopoli, unendo due cose che proprio non si possono unire.

 

In più, Agnelli sembra parlare come se tutta questa operazione sia messa su non per capire cosa sia accaduto, ma per portare a compimento un'operazione per troppo tempo sussurrata, che lo vorrebbe fuori dalla Juve per volontà di John Elkann. Caso che Agnelli esclude con risentimento: «Mi spiace deludervi, ma questo gruppo dirigente ha intenzione di continuare a far crescere la Juve ancora per parecchio tempo». E che le parole del diretto interessato Elkann chiariscono, almeno per il momento: «Desidero ribadire la mia totale fiducia nell'operato di mio cugino Andrea, che ha guidato la società e il suo gruppo dirigente fino ad oggi e che continuerà a farlo anche in futuro».

 

Insomma, tutto sommato si poteva evitare di parlare di complotto, di sussurrare altri grossi casi che hanno coinvolto la Juve, anche per non accostare vicende molto diverse sotto tutti i punti di vista, anche nelle prospettive peggiori a cui la Juventus va incontro. Perché per la violazione della norma sui biglietti Andrea Agnelli rischia una multa e un'inibizione a tempo che, con l'aggravante contestata di non aver impedito i rapporti con i malavitosi, può essere superiore ai tre mesi.

 

Più complesso è il discorso sulla Juventus: la responsabilità diretta in questi casi può portare fino alla squalifica del campo e a penalizzazioni in classifica; ma sembrano soluzioni estreme che, forse, visto il caso così controverso, non arriveranno mai. Più probabile che anche in questo caso la punizione sia una forte ammenda. Ma il problema in questo caso, come ha fatto già capire Agnelli, è che il club dovrebbe poi convivere con un'etichetta scomodissima. La battaglia, come detto, è anche sul buon nome della Juventus.

 

 



 

Ci sono alcuni passaggi nei documenti che portano alla luce un problema reale del nostro calcio. Fanno entrambi riferimento al principio della responsabilità oggettiva. Cioè, leggendo il codice: «Le società rispondono oggettivamente anche dell'operato e del comportamento delle persone comunque addette a servizi della società e dei propri sostenitori, sia sul proprio campo, intendendosi per tale anche l'eventuale campo neutro, sia su quello delle società ospitanti, fatti salvi i doveri di queste ultime».

 

Si può discutere un principio così? Probabilmente è il momento di farlo, perché altrimenti significa ignorare, volontariamente, il ricatto costante a cui sottopone le società da parte delle frange criminali delle Curve, quelle che chiedono favori oppure possono vendicarsi facendo in modo che i club ricevano multe, squalifiche di campo o altro tipo di sanzioni.

 

Significa ignorare quanto dice la stessa Procura Federale nell'atto d'accusa nei confronti di Agnelli, quando sostiene che concede biglietti e incontri agli ultras «al fine di evitare alla società da lui presieduta pesanti e ricorrenti ammende e/o sanzioni di natura sportiva», ammettendo una sorta di estorsione sottaciuta, che non è solo della Juve anche se al momento continuiamo a parlare di questa vicenda senza allargarla ad altre società.

 

Perché anche nelle carte di “Alto Piemonte” se ne parla, in un'informativa dei carabinieri di settembre 2014 in cui si paventa l'esistenza di «una precisa strategia criminale per intimidire i club e, nel caso in esame, la Juventus». Si parla di una possibile estorsione che sarebbe il motivo per cui, poi, nessun dirigente è indagato: per la giustizia ordinaria la società non è connivente, anche se non è nemmeno parte lesa, non avendo denunciato le pressioni.

 

Come può funzionare un sistema in cui le società rischiano di essere ricattate per via della struttura del codice di giustizia sportiva e poi sono punibili dallo stesso codice nel momento in cui cedono a questo ricatto?

 

Chi ha tolto privilegi agli ultras, come Claudio Lotito, convive con le minacce e vive con la scorta; e in chissà quanti altri casi quello che accade passa sotto silenzio, come del resto sarebbe passato sotto silenzio il patto tra Juve e ultras se non ci fosse stata un'inchiesta così grossa sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Piemonte. Se non fosse arrivata, cioè, la giustizia ordinaria, come quasi sempre accade quando il pallone viene travolto da scandali.

 



 

La giustizia sportiva italiana non si accorge nemmeno del calcioscommesse, se prima non arriva una Procura qualsiasi a indagare, eseguire arresti, pubblicare atti: a quel punto si fa passare le carte e comincia a muoversi.

 

Sembrerebbe - ma non possiamo essere noi a dirlo, non sarebbe giusto nei confronti del rispetto che noi stessi abbiamo nelle istituzioni - di vivere in uno stato di omertà, dove tutti sanno ma nessuno provvede. E se poi arrivano spinte esterne per fare pulizia, come possono essere le audizioni della commissione Antimafia o gli arresti per calcioscommesse, la Giustizia Sportiva si muove con ritardo, o in modo inefficace (giocano ancora calciatori e operano ancora dirigenti dichiarati colpevoli di essersi venduti partite). Oppure, invece di collaborare, si ritrae nella convinzione che l'autogoverno sia fare un po' come si vuole, finché resta tra noi.

 

 



 

Alla fine questa storia sembra confermare l’impressione che il sistema calcio italiano si pensi quasi come una Repubblica a parte, indipendente o quasi dalle leggi dello Stato. E si inseriscono in questo contesto le irresponsabili

di Michele Uva, direttore generale della Figc.

 

Il braccio destro di Tavecchio, parlando della vicenda in questione, ha ficcato un dito nell'occhio al buonsenso: «Mi sembra si stia facendo un processo mediatico; occorre che la giustizia ordinaria faccia il proprio corso con la massima serenità. Mi sembra che l'Antimafia stia facendo un processo molto mediatico e questo non fa bene nè al calcio, nè tantomeno all'Italia. Siamo sereni, mi sembra che si stia alzando troppo il volume su una cosa banale e penso che i problemi dell'Italia e della Commissione Antimafia dovrebbero essere rivolti verso attività ben diverse da quelle dei biglietti ad una curva».

 

Ogni problema, se sottovalutato, rischia di ingigantirsi e arrivare alla negazione rischierebbe di essere ancora peggio: l'inchiesta “Alto Piemonte” e il suo filone che conduce fino al calcio può essere invece un'occasione irripetibile per ammettere quello che si fa finta non esista: per iniziare a rendersi conto, finalmente, di quante infiltrazioni criminali infestano il mondo del pallone, sfruttando la passione di tanti altri che sono ultras per amore.

 

Il caso della Juventus, con le dovute cautele di un'indagine in corso, ma anche con l'ammissione degli stessi dirigenti bianconeri, può diventare emblematico: per il club il problema non si poneva perché i biglietti che dava, seppur in numero superiore al consentito, erano regolarmente pagati e le casse della società non avvertivano il disagio. I tagliandi non erano regalati, ma venduti; poi rivenduti a prezzi abbondantemente maggiorati, ma l'interesse della Juve poteva fermarsi al primo passaggio volendo ignorare l'uso che poi ne sarebbe stato fatto. Non serve molto per alimentare il business delle organizzazioni criminali, quindi. Grosse o piccole che siano.

 

E quando l'Antimafia, che non fa processi (anche nella grammatica istituzionale l'intervento di Uva è sbagliato), promette di

a presidenti e dipendenti di altre società calcistiche, può aiutare a ricostruire un intero sottobosco che poi andrebbe bonificato (solo Pecoraro,

, ha parlato degli occhi aperti della Procura Federale su Catania, Latina, Crotone e sul catering a San Siro).

 

Parlando in quel modo, invece, Uva sembra schierarsi dalla parte opposta a quella della trasparenza, della legalità. E la sua è una voce ufficiale, essendo lui uno dei dirigenti più potenti di un ambiente che evidentemente non vuole vivere senza macchia. Uva, dicendo che non di questo ma di altri problemi dovrebbe occuparsi l'Antimafia, dà l'immagine di un calcio che preferisce girare la testa dall'altra parte, come se la mafia fosse mafia solo altrove, non in casa propria.

 

E questa, peraltro, è la casa di milioni di italiani, quasi tutti onesti, ma che non vanno mischiati con chi non lo è. Un concetto irricevibile, perché sfrutta la passione degli uomini quando, invece, agli uomini andrebbe presentato un gioco pulito.

 

 

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