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Dario Saltari
Perché ci indignano i calciatori in Arabia Saudita?
14 set 2023
14 set 2023
Una riflessione a partire dal controverso trasferimento di Jordan Henderson.
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Dario Saltari
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IMAGO / PA Images
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Craig Goodwin è stato uno dei pochi calciatori ad aver messo pubblicamente in discussione i Mondiali in Qatar. Lo ha fatto il 26 ottobre del 2022 comparendo, insieme ad alcuni suoi colleghi, in un video realizzato dal sindacato australiano dei calciatori e delle calciatrici che mirava a sensibilizzare il pubblico sulle morti sul lavoro dei migranti durante la costruzione delle infrastrutture necessarie allo svolgimento di quel Mondiale, oltre ad altre violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di Doha. Di questo video in pochi si sarebbero ricordati se pochi giorni fa, nell’ultime ore prima della chiusura della sessione estiva del calciomercato della Saudi Pro League, Craig Goodwin non avesse deciso di trasferirsi in Arabia Saudita - anzi sarebbe meglio dire: di tornare in Arabia Saudita, perché ci aveva già giocato tra il 2019 e il 2021 con le maglie di Al-Wehda e Abha. Craig Goodwin, insomma, è passato dall’Adelaide United all’Al-Wehda, di nuovo, ma la vera notizia è che non tutti hanno preso bene il trasferimento tutto sommato marginale di un calciatore australiano nel campionato saudita. Il giornalista del New York Times, Tariq Panja, ad esempio ha commentato il suo trasferimento con un tweet caustico: «I giocatori devono essere liberi di trasferirsi dove vogliono e quando vogliono. Ma allo stesso tempo dovrebbero pensarci due volte prima di promuovere una causa, perché c’è il rischio di danneggiare la percezione delle intenzioni dei giocatori che la supportano davvero».

Al contrario di altri sport, il calcio è stato appena sfiorato dai dilemmi etici che porta con sé il tentativo dell’Arabia Saudita di scalare la piramide sportiva globale. Nel golf la fagocitazione del PGA Tour ha spaccato i giocatori come membri di un partito dopo la morte del proprio leader, ma sembrava un’eccezione dettata dalla tradizione aristocratica del golf e dalla sua insofferenza nell’accettare il ruolo del denaro e del professionismo all’interno dello sport. Poi, però, le stesse domande hanno investito anche discipline con tradizioni ben più popolari. Il 28 agosto il giornalista Karim Zidan nella sua newsletter Sports Politika ha preso di mira il fighter di MMA Francis Ngannou. Il pezzo si intitola eloquentemente: “Una volta un migrante, oggi muto di fronte alle uccisioni di migranti da parte dei sauditi”. Ngannou è arrivato a combattere dentro un ottagono dopo un incredibile viaggio cominciato dal Camerun e passato per il deserto del Sahara, prima di svariati arresti tra il Marocco e la Spagna. «La sua storia», come ha scritto Daniele Manusia in questo articolo che la racconta «non può essere de-politicizzata». Ngannou, sui propri profili social, l’ha più volte ricordata per sensibilizzare il suo pubblico sulla militarizzazione dei confini che continua a mettere a repentaglio centinaia di vite umane. L’anno scorso per esempio su Instagram ha rilanciato alcuni video di migranti che cercavano di scavalcare le alte recinzioni che cercano di respingerli a Ceuta. «Dovete capire che se non avessi tentato di fare esattamente questa cosa non mi conoscereste, non avrei avuto la possibilità di diventare campione del mondo», ha scritto Ngannou «Sono stato solo fortunato, tutto qui!. L’intervento delle autorità spagnole, in quel caso, aveva portato alla morte di 23 persone.

Da quel post a oggi sono successe molte cose. Ngannou ha rotto con l’UFC, accusandola di pagarlo troppo poco, e ha firmato un nuovo contratto con un’altra promotion, la Professional Fighters League, che gli ha procurato un incontro di boxe contro Tyson Fury che si terrà a Riyad il prossimo 28 ottobre. Nel frattempo l’Arabia Saudita, anche grazie a incontri come quello tra Ngannou e Fury, è sembrata voler portare i propri investimenti nel mondo dello sport a un livello superiore, senza che lo sport - come spesso dicono i dirigenti delle istituzioni sportive praticamente a qualsiasi livello - abbia davvero contribuito a renderlo un Paese più democratico o almeno meno spietato verso determinate categorie di persone. Poche settimane fa l’organizzazione non governativa statunitense Human Rights Watch ha pubblicato un documento straziante sul trattamento riservato dalle guardie di frontiera saudite ai migranti etiopi che provano ad entrare nel Paese attraverso il confine con lo Yemen. Si chiama: “They fired on us like rain”, più o meno: “Ci sparavano a pioggia”. Nel documento è raccontato quello che già conosciamo da altre rotte a noi più familiari. Il pericoloso viaggio in mare attraverso il golfo di Aden; l’arrivo in Yemen; l’attraversamento del deserto, di un Paese in guerra; la cattura al confine; le ritorsioni e i ricatti da parte dei contrabbandieri; infine le violenze da parte delle autorità di confine, che in questo caso significano spari ad altezza uomo e addirittura l’utilizzo di armi esplosive. Parliamo di «almeno centinaia di morti tra il marzo del 2022 e il giugno del 2023».

La storia di Ngannou, l’approssimarsi dell’incontro con Tyson Fury e il report di Human Rights Watch partono da punti molto lontani tra di loro ma finiscono per incontrarsi in un imbuto di domande apparentemente scontate: perché Ngannou non parla? Anzi, di più: perché non si rifiuta di combattere in Arabia Saudita? Scrive Karim Zidan nella sua newsletter che «è proprio la sua esperienza vissuta a rendere questa nuova associazione con l’Arabia Saudita difficile da accettare». Il mondo è sempre più complicato e l’identità non mette al riparo nessuno, nemmeno un uomo nero, africano, migrante, che è arrivato a combattere in Arabia Saudita alla fine di una contesa che forse potremmo definire sindacale, o che qualcuno potrebbe scambiare addirittura per lotta di classe.

Persino il calcio, che ha una fobia patologica di dire qualcosa che potrebbe ritorcerglisi contro, è stato travolto dalla risacca di queste domande. Non tanto per il povero Craig Goodwin, quanto per il caso ben più importante di Jordan Henderson, un calciatore ricco, bianco, nato nella parte fortunata del mondo, passato in estate dal Liverpool all’Al-Ettifaq nonostante il suo impegno a favore della comunità LGBTQ+. Henderson, in Inghilterra, aveva indossato la fascia arcobaleno, i lacci arcobaleno, e in generale il suo impegno gli era valso una nomination ai premi LGBT britannici come “alleato dell’anno”. Il suo trasferimento in Arabia Saudita, un Paese che prevede anche la pena di morte per l’omosessualità, non poteva passare inosservata e infatti, pochi giorni dopo la sua ufficialità, il fondatore del gruppo organizzato di tifosi LGBTQ+ del Liverpool, Kop Outs, gli ha scritto una lettera aperta. «La tua scelta ha ferito e tradito molti dei nostri membri», si può leggere al suo interno.

Incredibilmente, solo poche settimane dopo il suo passaggio in Arabia Saudita, Jordan Henderson ha deciso di affrontare la questione pubblicamente. E non, come lui stesso ci ha tenuto a precisare, con un giornalista accondiscendente pronto a smussargli le domande (e sul fatto che un calciatore professionista confermi l’esistenza di questa possibilità si potrebbe fare un pezzo a parte) ma concedendo una lunga intervista all’importante rivista The Athletic, che dal canto suo all’inizio del pezzo ha specificato che «nessun argomento è stato escluso e né a Henderson né ai suoi rappresentanti né all’Al-Ettifaq è stato concesso di approvare le parole o il titolo di questo pezzo prima della pubblicazione».

È però il contenuto dell'intervista a essere rivelatorio di come il calcio continui a presentarsi come fattore di cambiamento sociale, con risultati sempre più inquietanti, dato che le premesse su cui avrebbe dovuto basarsi sono ormai venute completamente meno.

Non c'entra l'importanza dei soldi, innanzitutto, che nel calcio c'è sempre stata, anche nel calcio che crediamo più romantico e incontaminato. Su questo non c'è tanto da credere o meno alle parole di Henderson quando dice che le cifre trapelate non sono vere, che «i soldi non sono mai stati una motivazione nella mia vita», e che ci sono state altre ragioni per trasferirsi in Arabia Saudita «prima che i soldi venissero menzionati». Il punto di queste discussioni non dovrebbe essere l’eventuale ipocrisia di una singola persona, seppur mediaticamente significativa come Jordan Henderson. Alla fine perché ci dovrebbe interessare? Per dimostrare che tutti i calciatori, soprattutto quelli impegnati, in fondo sono ipocriti? C’è un cinismo crudele in chi cerca di utilizzare la complessità di questi casi come un’arma da puntare contro chiunque abbia avuto un occhio critico nei confronti del presente. Chiedere ai calciatori di “pensarci due volte” prima di abbracciare una causa significa in sostanza chiedergli di rimanere in silenzio per paura che il tempo possa portarli in contraddizione con loro stessi. E questo mi sembra legittimare proprio quella fobia soffocante del calcio nei confronti del mondo che lo circonda, la sua forzata cecità di fronte alle contraddizioni in cui è immerso.

Se proprio dobbiamo personalizzare questo dibattito allora sarebbe giusto riconoscere a Henderson il coraggio di aver affrontato la questione in pubblico con il pericolo di mettersi in ridicolo (come poi ha fatto: ci arriviamo), ma permettendoci di aprire uno spazio critico che ci permette di portare avanti la discussione. Alla fine io stesso lo sto utilizzando per scrivere questo pezzo. Allo stesso tempo bisognerebbe dire che l’ex centrocampista del Liverpool - e qui ci dobbiamo fidare della sua parola ma la conferma mi sembra la stessa realizzazione dell’intervista a The Athletic - non è costretto dal proprio contratto a esimersi dal criticare o addirittura a promuovere l’Arabia Saudita, come invece è quasi sicuramente previsto dai contratti di molti altri atleti (compreso quello del suo tourism ambassador, Lionel Messi, che in Arabia Saudita non ci gioca nemmeno). Non rientrando l’Al-Ettifaq tra i club nazionalizzati dal regime saudita, tra l’altro, Henderson tecnicamente non è nemmeno un dipendente del governo di Riyad, come lo sono invece (tra gli altri) i giocatori del Newcastle (di proprietà del fondo sovrano saudita PIF), che però sono protetti dal nostro occhio occidentale per il solo fatto di giocare in Inghilterra. Perché non chiediamo conto a Tonali, per esempio, delle disuguaglianze su cui si fonda la società saudita? O, dato che si è trasferito in Gran Bretagna, delle politiche sempre più dispotiche nei confronti dei migranti che cercano di attraversare la Manica? E perché poi i calciatori dovrebbero essere più responsabili moralmente dei club europei, che con l’Arabia Saudita sono ben felici di farci affari per sgravare bilanci diventati insostenibili? Lo ha ricordato recentemente persino Pep Guardiola, l’allenatore che ha messo le ali al progetto di diplomazia sportiva degli Emirati Arabi Uniti: «Tutti si lamentano dell’Arabia Saudita, ma quando bussa alla porta i club sono ben felici di aprire e di stendere il tappeto rosso».

È naturale essere indignati della scelta di Jordan Henderson ed è legittimo smettere di credere che il suo impegno a favore della comunità LGBTQ+ fosse davvero sincero. Ma da cittadini, da fruitori di calcio, credo che l’aspetto che dovrebbe interessarci della sua intervista sia più che altro il tentativo disperato di ricomporre una coerenza mandata in mille pezzi da una stortura evidente. Non per ridicolizzare la persona, ma perché lo sforzo grottesco di Henderson riflette quello del calcio tutto, che continua a dirci che i suoi rapporti con questi regimi in fondo sono una buona notizia, che il mondo migliora se la FIFA organizza un Mondiale dentro un campo di concentramento su Marte. L’intervista di Jordan Henderson, insomma, ci mostra i cortocircuiti a cui sta andando incontro il calcio e lo sport in generale - prodotti del capitale occidentale chiamati oggi a dimostrarsi “agenti del cambiamento” dentro regimi per cui quel cambiamento è l’ultima delle priorità. Nel caso specifico parliamo della famosa fascia arcobaleno che con ogni probabilità Henderson non potrà mai indossare nel campionato saudita e che è stata subito desaturata (non si sa se volontariamente) nel video di presentazione dell’Al-Ettifaq. L’ex centrocampista del Liverpool dice che: «se la fascia arcobaleno manca di rispetto alla religione allora non è giusto [che la mostri, ndr]». E che: «Tutti dovremmo essere rispettosi della religione e della cultura. Questo penso è ciò per cui tutti stiamo combattendo in termini di inclusione».

C’è qualcosa che va oltre l’orwelliano nel considerare il divieto di mostrarsi vicino a una comunità storicamente discriminata come una politica per l’inclusione. Eppure è interessante che Henderson arrivi a queste conclusioni partendo dalla propria esperienza personale. L’ex centrocampista del Liverpool aggiunge infatti che non gli è stato mai detto: «puoi dire questo ma non quest’altro», ma che è più: «Tu hai tuoi valori e credenze, che rispettiamo, ma tu rispetti i nostri valori e le nostre credenze». «E questo è sicuramente il modo in cui dovrebbero andare le cose». Secondo Henderson il semplice fatto che «posso stare qui e dire di avere i miei valori e le mie credenze» è un buon segno per il progresso dell’intero Paese. «Credo fermamente che il fatto che giochi in Arabia Saudita sia una cosa positiva», dice.

Può essere sicuramente vero che l’esempio di un singolo calciatore possa avere conseguenze per un’intera società, d’altra parte è il motivo per cui a volte gli atleti decidono di alzare un pugno o di rifiutarsi di rispondere alle armi. Da questo punto di vista non ha senso dissezionare ogni singola parola di Henderson, inchiodarlo alle sue incongruenze. Non serve ricordare, come fa Adam Crafton dentro l’intervista di The Athletic, che in Arabia Saudita esistono cittadini musulmani gay, che esistono persino non musulmani, e che per loro la cultura del luogo è problematica più di quanto non lo sia per Jordan Henderson. Non credo serva nemmeno portare troppo in là la discussione chiedendoci cosa intendiamo con cultura del luogo, se l’Islam tutto o se l’interpretazione radicale che ne dà il regime saudita, se quindi il rispetto che ci imporrebbe il silenzio è verso una religione (ignorando che una buona parte delle discriminazioni verso le donne e gli omosessuali nascono proprio dai grandi monoteismi) o verso un determinato regime (ignorando l’impostazione ideologica radicale e lo squilibrio tra classi su cui è basato). Perché è vero, come dice Henderson, che è il suo esempio, ancora prima delle sue parole, ad essere significativo. Lo è lo stesso fatto che possa concedere un’intervista per provare a convincersi e convincerci di star cambiando la società saudita.

Henderson, come detto, è un calciatore professionista d’élite e in quanto tale il regime saudita gli concede libertà che non ha a quasi nessun altro dentro l’Arabia Saudita. Di certo non ai lavoratori migranti poco qualificati che provengono da Asia e Africa (che costituiscono quasi il 40% della popolazione), costretti a vivere condizioni di lavoro durissime e ad avere quasi nessuna prospettiva di rifarsi una nuova vita in un altro Paese. Di certo non a quei cittadini sauditi che non fanno parte dell’élite politica ed economica del Paese. Di certo non alle donne saudite. Forse Henderson è posto troppo in alto nella rigida struttura piramidale della società saudita per voler o poter vedere che mentre Cristiano Ronaldo esulta facendosi il segno della croce, una donna viene arrestata per un tweet. Da questo punto di vista Henderson non è il problema ma di sicuro lo rappresenta, cioè ci restituisce un’immagine immediata della disuguaglianza e dell’ingiustizia sociale che rende possibili questi paradossi.

È come una specie di caleidoscopio che ricompone la realtà invece di spezzettarla: Henderson, come Ngannou, come Goodwin, ci permettono di vedere con chiarezza un problema che invece ci sembra nebuloso e astratto quando pensiamo al nostro amico architetto che è andato a lavorare a Riyad per mettere da parte qualche soldo. E forse è per questo che siamo così pronti a prendercela con loro, a spostare la discussione sul personale: perché così possiamo illuderci che non ci riguardi.

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