Ciao, seguendo l'attualità e leggendo alcuni vostri articoli e il libro
Lorenzo Iervolino
mi è sorta una domanda. Mi pare più facile trovare figure
alteti impegnati o schierati negli Stati Uniti che in Europa. Ricordo
un Cristiano Ronaldo e Messi a sostegno della Palestina, Paolo Sollier del Vicenza nel passato ma nessuno della forza
Tommie Smith e John Carlos, o
Kareem Abdul Jabbar o Colin Kaepernik ma anche dello stesso Lebron James. Mi sembra un po' riduttivo pensare sia solo la questione dei neri, non è che in Europa non ci sia mai stato motivo per schierarsi chiaramente, quale potrebbe essere il motivo
questa differenza?
Grazie
Francesco
Caro Francesco,
La tua domanda è forse la più interessante e al tempo stesso difficile a cui mi ritrovo a rispondere da quando partecipo a questa rubrica. Ti ringrazio, quindi, ma ti prego anche
prendere la mia risposta più come uno spunto per approfondire una questione che necessiterebbe un intero libro.
sicuro hai colto un punto significativo perché, effettivamente, se dobbiamo pensare a un atleta che durante la sua attività sportiva si è schierato pubblicamente a favore
una causa politica, sociale o culturale, è quasi impossibile che la nostra mente vada a un europeo.
Come hai detto te, questo non può essere dovuto al fatto che in Europa non ci siano o non ci siano stati motivi per schierarsi apertamente, tutt’altro. E, aggiungo io, non può nemmeno spiegarsi con l’assenza
casi simili in Europa. Non Messi e Cristiano Ronaldo, purtroppo, il cui sostegno per la causa palestinese è stato presunto nel primo caso (dopo la decisione della Nazionale argentina
annullare la sua amichevole pre-Mondiale con Israele a seguito delle pressioni della federazione palestinese) e inventato
sana pianta nel secondo (attraverso
).
Ma i casi non sono certo mancati, persino nel mondo del calcio: da Bruno Neri e Matthias Sindelar, che nell’epoca dei totalitarismi si rifiutarono pubblicamente
fare il saluto nazifascista (il primo durante la partita d’inaugurazione dell’Artemio Franchi
Firenze, allora intitolato allo squadrista fiorentino Giovanni Berta; il secondo alla fine della partita celebrativa dell’
tra Germania e Austria; passando per il già citato Paolo Sollier; fino ad arrivare ai casi più recenti
Cristiano Lucarelli e Paolo
Canio, che per quanto opposti nelle loro intenzioni e sono entrambi a tutti gli effetti dei gesti politici (anche se andrebbe riflettuto sulla differenza tra uno sportivo si rivolge a tutti i tifosi, o persino oltre, e quando invece lo fa solo in sintonia con la propria curva). È chiaro, però, che nessuno
questi casi sia lontanamente paragonabile per forza mediatica e influenza alla lunga tradizione
atleti afroamericani impegnati per la promozione dei diritti civili della comunità nera negli Stati Uniti: Jesse Owens, Jackie Robinson, Tommie Smith, John Carlos, Kareem Abdul Jabbar, Mohammed Alì e, oggi, Lebron James, Serena Williams e Colin Kaepernik, solo per citare i più importanti.
Escludendo l’ipotesi che sia solo dovuto al numero
sport presi in considerazione (perché anche al di là del calcio, rimane comunque impossibile trovare un tennista, un pugile o un cestista europeo con un’influenza politica tale) c’è da chiedersi cosa ci sia negli Stati Uniti
rispetto all’Europa, e se questa differenza sia legata esclusivamente al movimento per i diritti degli afroamericani.
Ora, è impossibile sottovalutare o addirittura ignorare la tradizione
atleti afroamericani impegnati in politica. Una tradizione che non è forte solo degli esempi luminosissimi già citati, ma che ha anche delle solide radici ideologiche. In questo senso, è doveroso citare qui il lavoro del sociologo americano Harry Edwards riguardo all’impegno politico degli atleti afroamericani e alla loro inclusione all’interno del management dello sport professionistico.
Edwards fu uno dei fondatori dell’Olympic Project for Human Rights (OPHR), l’organizzazione,
cui facevano parte Tommie Smith e John Carlos, che intendeva boicottare le Olimpiadi del 1968 per mettere fine all’apartheid in Sud Africa e restituire il titolo
campione del mondo dei pesi massimi a Mohammed Alì (a cui era stato tolto dopo il rifiuto
arruolarsi nell’esercito
contro la guerra in Vietnam), e che ispirò il loro famoso gesto sul podio con il pugno chiuso e il guanto nero. Per capire la sua influenza e la sua importanza in questo discorso (al
là degli innumerevoli libri, articoli, cattedre e consulenze in materia) basti sapere che Edwards è anche uno dei consiglieri
Colin Kaepernick.
Viene spontaneo, quindi, chiedersi se quella
utilizzare gli sport a fini politici non sia effettivamente una peculiarità della comunità nera degli Stati Uniti, o se abbia a che fare con gli Stati Uniti in quanto tali. D’altra parte, dopo i casi
Kaepernick nel football e delle maglie “I can’t breath” in NBA (che recitavano le ultime parole
Eric Garner, ucciso per soffocamento dopo l’intervento
un poliziotto nel luglio del 2014) gli afroamericani furono accusati proprio
“politicizzare lo sport”. Un’accusa che ha un senso solo se si presume che in passato non lo fosse. In realtà, negli Stati Uniti lo sport è stato usato a fini politici fin dalle sue origini, da quando, cioè, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo, i partiti politici iniziarono ad utilizzare le corse dei cavalli per generare interesse intorno alle proprie candidature e battaglie.
Come
Slate in un pezzo
qualche mese fa: “Collegando la virilità dello sport alla politica, i candidati spingevano i propri cittadini ad unirsi alla battaglia politica per lo stesso motivo per cui seguivano lo sport: per dimostrare il proprio posto nella società scegliendo una fazione
una competizione combattuta”.
Il mito della divisione tra lo sport e la politica arrivò solo un secolo dopo, quando nell’arena pubblica si affacciarono atleti, tifosi e cittadini neri. Per paura che quest’ultimi potessero utilizzare la cassa
risonanza dello sport per le proprie battaglie, minacciando lo status quo, si smise
utilizzare lo sport in maniera divisiva, trasformandolo in un tempio
quella religione civile chiamata nazionalismo: nel 1918, ad esempio, iniziò la tradizione
suonare l’inno nazionale prima degli eventi sportivi, a partire da una gara delle World Series a Chicago. Il che non vuol dire che lo sport smise di essere utilizzato a fini politici, ma più semplicemente che adesso era diventato monopolio dell’interesse nazionale (che fino alla seconda metà del Novecento non comprendeva il discorso sulle condizioni degli afroamericani).
A questo proposito è interessante ricordare qui la storia
Jesse Owens, che fu utilizzata a fini propagandistici dagli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale per celebrare la superiorità delle democrazie atlantiche. Molti ricordano la leggenda per cui Hitler si rifiutò
remiare Owens (che aveva vinto l’oro nei 100 metri, nei 200, nei 4x100 e nel salto in lungo) uscendo in anticipo dallo stadio, mentre molto più probabilmente se ne andò dopo l’eliminazione degli atleti tedeschi dalla gara del salto in alto, che venne vinta dall’afroamericano Cornelius Johnson, che fu quindi il vero discriminato. Owens, dopo quelle Olimpiadi, non se la prese mai con Hitler e anzi rilasciò dichiarazioni al veleno contro il presidente americano Roosevelt: «Hitler non mi ignorò – fu il nostro presidente ad ignorarmi. Non mi mandò neppure un telegramma».
Non bisogna nemmeno dimenticare che negli Stati Uniti il movimento per il boicottaggio delle Olimpiadi del 1936, che alla fine furono una vittoria d’immagine clamorosa per Hitler e il nazismo, fu fiaccato negli Stati Uniti anche dagli atleti afroamericani che non capivano perché i dirigenti del proprio paese dovessero chiedere un eguale trattamento per gli ebrei tedeschi quando mettevano in pratica loro stessi la discriminazione contro gli atleti americani neri.
Il contrasto tra il nazionalismo ufficiale che gli sport veicolano e l’affermazione delle minoranze è un tema che sta emergendo in Europa solo negli ultimi anni e solo in quei paesi dove l’immigrazione è stata più estesa e radicata. Lo abbiamo visto, ad esempio, agli ultimi Mondiali, con la vittoria della Francia cosiddetta “delle
”,
Xhaka e Shaqiri contro la Serbia, e le dimissioni
Özil dalla Nazionale tedesca con annesse accuse
razzismo. Ma se è una novità relativamente recente l’affermazione
identità nazionali diverse da quelle a cui siamo abituati, non è invece affatto una novità lo sfruttamento dello sport con fini politici, che anche in Europa risale alle origini stesse del fenomeno.
Nicola Sbetti, nel suo
(un libro che ti consiglio
leggere per approfondire la questione), spiega magistralmente come quello della divisione tra sport e politica sia un mito nato dalla visione idealizzata
De Coubertin dei
dell’antica Grecia, a cui le Olimpiadi si rifanno esplicitamente, senza però alcuna giustificazione storica reale. Come dice Sbetti: «Per i greci lo sfruttamento politico delle competizioni agonistiche era cosa comune e accettata». È importante sottolineare qui che De Coubertin formò le sue idee pedagogiche sullo sport dopo alcuni viaggi in Inghilterra negli anni ’80 del XIX secolo, in cui rimase affascinato dal sistema scolastico che dava allo sport un ruolo centrale nell’educazione e nella pacificazione sociale, e si convinse che quella fosse la principale ragione della forza dell’impero britannico.
Ma se lo sfruttamento dello sport a fini politici è una pratica antica anche in Europa, dobbiamo presumere quindi che la tradizione politica dello sport americano derivi solo dalla più antica lotta per i diritti civili degli afroamericani? Non proprio.
In realtà, ci sono diverse ragioni “intrinsecamente americane” che spiegano il fenomeno. Innanzitutto, il funzionamento stesso dello star system, che ha una concezione molto più “pubblica” della politica rispetto a quanto succede invece in Europa, dove i vip sono invece molto restii ad esporsi su temi politici e sociali. Ma soprattutto la centralità culturale dello sport negli Stati Uniti, ancora oggi strettamente connessa al prestigio nazionale, che nelle società europee invece è andata persa.
Credo che questo si possa spiegare da una parte con quel collegamento tra mondo sportivo e mondo scolastico-universitario, tipico dei paesi anglosassoni e che negli Stati Uniti, al contrario della Gran Bretagna, è rimasto vivissimo nella maggior parte dei principali sport professionistici, come il basket e il football. Un sistema che nel tempo ha cementato la convinzione che un buon cittadino dovesse essere anche un atleta, e che un atleta dovesse essere anche un buon cittadino (a questo proposito, vediti la serie
su Netflix). Dall’altra, con quel deterioramento culturale avvenuto in Europa, dove lo sport, e in particolare il calcio, è stato lentamente declassato a sottocultura proprio dal mondo accademico e culturale per quasi tutto il XX secolo.
Queste due forze opposte sulle due sponde dell’Atlantico hanno fatto sì che gli atleti avessero e abbiano ancora oggi una legittimazione sociale totalmente diversa nei due continenti: se in Europa sono considerati ignoranti senza alcuna voce in capitolo nel dibattito pubblico, negli Stati Uniti, invece, è naturale che vengano chiamati ad esporre le proprie idee politiche, proprio per la loro influenza sul resto della società. Per dire, persino in un’epoca
disimpegno come gli anni ’90 e a un atleta disinteressato come Michael Jordan (che una volta
non volersi buttare in politica perché sia i repubblicani che i democratici compravano Nike) fu chiesto
unirsi alla campagna per l’elezione al Senato del candidato democratico afroamericano Harvey Gantt.
Infine, nel valutare la
delle storie politiche degli atleti americani non va sottovalutata l’importanza dello storytelling sportivo nel mondo americano dell’entertainment, del giornalismo e della pubblicità, che in Europa sta invece emergendo solo negli ultimi anni. Il lavoro
Hollywood e della letteratura americana, o più in generale l’influenza della cultura degli Stati Uniti sul resto del mondo, è uno dei motivi principali che spiega il paradosso per cui in Italia conosciamo la storia
Jesse Owens e non quella
Bruno Neri. E, a livello globale, quella
Tommie Smith e John Carlos, ma non quella
Peter Norman, l’atleta australiano arrivato secondo e che sullo stesso podio indossò per solidarietà la spilla dell’OPHR, venendo poi escluso per punizione dai
Monaco del 1972.
A proposito della forza dello storytelling sportivo, mi sembra interessante chiudere con le parole
Jelani Cobb, che
del
ha provato a spiegare la scelta della Nike
scegliere Colin Kaepernick come volto della sua campagna pubblicitaria più importante, nonostante fosse in una situazione controversa da cui teoricamente aveva solo da perdere: «Mentre alcuni si infuriano per il fatto che l’America abbia premiato ancora una volta un ribelle ingrato, Kaepernick riesce ad evocare anche un’altra narrazione – quella
un individuo guidato dalla coscienza che combatte una crociata solitaria contro forze molto più potenti
lui. Che persiste nonostante i pronostici siano tutti contro
lui. In questo racconto, Kaepernick il sovversivo si trasforma in qualcosa più comprensibile, più familiare – un personaggio americano che avrebbe potuto immaginare Steinbeck. Golia ha la grandezza e la forza, ma è David quello con la storia convincente».
Sotto questa luce le storie
Kaepernick,
Mohammed Alì,
Tommie Smith e John Carlos hanno un respiro che va al
là della lotta per i diritti dei neri e che si radica in maniera ancora più diretta e profonda nella storia e nella cultura americana, permettendogli
mantenere intatta la propria forza fino ad oggi.