
Pubblichiamo un estratto da "Perché ero ragazzo", il nuovo libro edito da Sellerio e curato da Alessandra Sciurba che raccoglie le lettere dal carcere di Alaa Faraj, un ragazzo libico che cercava una carriera nel calcio in Italia. Faraj è stato recuperato a largo delle coste italiane nella notte tra il 14 e il 15 agosto del 2015 su una barca in cui, per le terribili condizioni di navigazione, sono morte 49 persone. Dopo essere stato messo in salvo, le autorità italiane lo hanno accusato di essere uno degli "scafisti" di quella barca e lo hanno condannato a trent'anni di carcere per omicidio plurimo e traffico di esseri umani, in un processo che ha sollevato molti dubbi sulla sua reale regolarità (se volete approfondire, a questo caso abbiamo dedicato questa puntata di Trame, il nostro podcast di sport e geopolitica). Quest'anno la Corte d'Appello di Messina, pur rigettando la revisione del processo, ha definito Faraj "moralmente non imputabile". Se volete acquistare il libro, potete farlo cliccando qui.
Palermo
Casa di reclusione Ucciardone
9 marzo 2024
Carissima amica mia Ale,
ti mando l’inizio del nostro libro.
Mi devi dire solo la verità se va bene o no, ti prego.
Ti ricordi? L’altro giorno ti dicevo che faccio sempre la stessa domanda: «Perché a me?».
Posso dire dopo 8 anni e 7 mesi di carcere ingiustamente ancora io cerco il senso di questa ingiustizia.
Ma tu non devi sentire la responsabilità di questo mondo così brutto e ingiusto. Non puoi salvarlo.
Alessandra, io spero un giorno fuori con te e tutti altri potremmo portare 1% di umanità e un poco di dritti umani in Libia.
Sarà il senso di tutta la mia sofferenza e potrò dire che la mia vita non è andata persa, anzi sarei fiero Ale.
Sai, voglio studiare a tutti i costi. Ho fatto di nuovo l’istanza di iscrizione a l’università e la dottoressa B. mi farà sapere se mi posso iscrivere entro questo anno, e se no l’anno prossimo.
Ti giuro, stare senza fare niente è una tortura.
Per me lo studio è tutto. Mi ha aiutato a crescere a livello culturale e umano. Per me è essenziale.
Alessandra, come tu sai è iniziato il Ramadan. Oggi terzo giorno, e ti scrivo da domenica.
È pesante.
Ti abbraccio forte.
Tanto affetto Ale.
Ti voglio bene.
Alaa
Partenza da Bengasi
Maggio 2014-agosto 2015
Didi Fraj, una provincia di Bengasi.
16 maggio 2014, alle 4:30 del mattino.
Due ore prima ero in quella provincia, in una casa di campagna dove c’era festa tra amici.
Sono divertito tanto, tornato a casa alle 3:00 del mattino, andato subito a dormire sul divano e svegliato a voce di mia famiglia.
Discuteva su un attacco armato.
Ho detto a mio fratello più grande: «Che successo?».
Lui mi ha detto: «Svegliati, è iniziata Operazione Dignità guidata da il Generale Khalifa Haftar».
Dignità, perché subito dopo la primavera araba in Libia all’inizio tutto bello, ma dopo sono iniziati le agguati, autobomba e sparatorie su gli agenti di polizia e esercito.
Il Generale ha dato questo nome per fare tornare la dignità che uno Stato civile deve avere, un esercito forte per difendere la nostra libertà, un corpo di polizia forte per una sicurezza certa.
Ma quella data mi ha cambiato la vita. In bene o in male scopriremo vivendo.
Avevo 19 anni. Ero una promessa del calcio, studente universitario, un ragazzo pieno di vita, entusiasmo, progetti. Sopra tutto sogni.
Ero iscritto alla università di Bengasi. Era il mio primo anno, mi divertivo tra calcio e studi. L’università era bella non solo perché c’era la mia ragazza, ma perché l’ingenieria è, anzi era, il sogno più grande.
Ma tutto svanito.
Perché nel 2015 quella università, che prendeva e abbracciava quasi 25.000 studenti tra maschi e femmine dandogli un sogno, è diventata un campo di battaglia tra l’esercito e le milizie. L’hanno distrutta, ridotta in maceria. Vedevo le foto via Facebook. Piangevo deluso, ma sopra tutto arrabbiato per il accaduto.
Il calcio ovviamente fermato. Niente allenamento.
Niente campionato.
Il mio primo club, nonché la squadra del mio cuore, Al-Ahly Bengasi, era stata distrutta, abbattuta dal Gheddafi nel 2001. Avevo 6 anni.
Nel 2005 il club è tornato e io nel 2007 ho firmato per loro all’età di 12 anni. Ero ragazzino più felice nel mondo, orgoglioso come nessuno nel mondo.
Per questo la guerra, giusta o sbagliata, non porta solo morti e distruzione, ma è rovina dei sogni a tanti ragazzi e ragazze. La vita dei giovani, anzi giovanissimi, buttata così in attesa dei sviluppi, o di un Occidente che è stato bravo a uccidere il Gheddafi, ma ha dimenticato a compagnare la Libia in suo cambiamento democratico.
Un paese che conosciuto solo colonialismo, monarchia e dittatura, come pensate che ce la fa da solo?
Ma questo merita un’enciclopedia, non un libro.
Il 16 maggio 2014 era venerdì, e come sapete il giorno festivo nei paesi musulmani. Per questo tutti fuori le case a discutere. Persone contenti, finalmente l’esercito ci dà un senso di sicurezza. Il generale Haftar ha attaccato con 30 macchine, ma queste 30 sono diventati circa 200.000 soldati, immaginate un po’.
Io ero in attesa. E ora?
Io ho un carattere molto fiducioso e speranzioso. Ma questa attesa si allunga.
Passato un anno da quando l’esercito entra in Bengasi, ancora niente calcio, niente università. Io e la mia ragazza Nadima, anzi ex, passavamo le giornate entiere al telefono. Io vedevo il mio quartiere Ard Azwawa fermo.
Giugno è iniziato. È il mese di Ramadan, così si è fermata la scuola e io sono venuto a sapere che un amico mio che si chiama Idriss si è partito con la barca. A noi libici di Bengasi una cosa sconosciuta. Eravamo tutti meravigliati, anzi scioccati. Ero preoccupato perché è un carissimo amico. Ma poi una buona notizia. È arrivato e ora vive in Svizzera. L’ho chiamato tramite Facebook a rimproverarlo. Lui mischino non mi ha detto niente per non preoccuparmi.
Passa il tempo. La vita ferma. Niente di nuovo. Il futuro passa. I mesi vanno e io sono nel stesso posto nulla facente, aspettando la fine di guerra che non arriva mai.
Consapevole che niente sarà come prima.
Sono tutto il giorno con Abied, che è come un fratello, e Tarek, un amico di Abied. Tutti tre insieme tra calcetto e mangiare in casa di nonna di Abied, perché la sua famiglia è sfollata là per colpa della guerra e noi tre dormivamo in casa loro. Giocavamo nel palazzo e sotto di noi un caro armato che bombardava. Guardando i social vediamo i nostri amici e la vita che fanno in Europa. Guardandoci in faccia senza dire nulla ci siamo capiti con il sguardo.
Abbiamo deciso di provarci anche noi. Abbiamo deciso e pensato, ma subito ho detto: «Devo parlare con la mia famiglia».
Qualsiasi decisione ho preso in vita mia era concordato con mia famiglia, i miei genitori e mio fratello più grande.
Si dovevo comprarmi una macchina o dovevo lavorare, anche per la facoltà dell’università mi sono rivolto a loro, quindi anche questa decisione lo stesso.
Anche ora mi hanno dato il loro consenso e appoggio.
Non era scontato.
Ho chiamato prima mio fratello per vedere come la prende: «Voglio andare in Europa per studiare e giocare a pallone».
Lui: «Subito. Vai. Che fai qui? Vai e costruisci il tuo futuro».
Io: «A genitori ci dici tu?».
Lui: «Dopo parliamo».
Io a casa ci sto mai, ma quel giorno abbiamo cenato insieme. Prima parlato con mia mamma. Le ho proposto l’idea.
Lei mi ha detto: «Si vuoi andare a studiare io ti appoggio, ma non devi stare via più di 4 anni. Vai studi e torni ingeniere. Hai tutta la mia autorizzazione, ti darò pure i soldi necessarie per studiare, ma mi prometti che non starai oltre il tempo necessario per laureare e nelle vacanze vieni a stare con noi».
Io: «Certo mamma, ma ora parli tu con mio papà, no?».
Lei: «Sì».
E tutti insieme, non senza timore, abbiamo consultato mio babbo.
E mio papà: «Dove vuoi andare di preciso?».
Io: «Svizzera o Germania».
Lui: «Per studiare?».
Io: «Certo, papà».
Lui: «Bene. Fammi contento. Si questa la tua volontà vai. Fai quello che hai sempre sognato. Si sei convinto lo devi fare. La vita è tua, ma ci mancherai. Ci mancherai».
Ora mio fratello: «Che aspetti. Vai. Fai la tua vita. Qua, vedi, o muore o stai al bar per fare il generale e a spiegare tattiche come tutti fenomeni che ci sono ora. A me basta stai bene, studi, però, mi raccomando, non vai in Europa a fare il cretino con discoteche, donne e alcool».
Io: «Assolutamente no, che dici».
E così partita la ricerca di visto. Io avevo una macchina Hyundai 2012. L’ho venduta e cambiato i soldi con l’euro. Erano 5.500 euro.
E mia mamma mi ha detto: «Ti do io i soldi, non ci devi pensare, ma pensa a trovare il visto».
Ho iniziato a cercarlo in agenzie di viaggio, ma come si sa con la guerra tutte le ambasciate occidentali sono scappate e le agenzie mi prenotavano online perché le ambasciate si trovavano in Tunisia.
Ogni colloqui online pagavo 150 euro solo per il colloquio. Dopo tanti colloqui e atranti rifiuti e tanti tanti soldi spese per avere il visto mi sono arreso.
Ma un giorno con mio nonno in macchina passavo in una via famosa in Bengasi. Ho visto una agenzia di viaggi nuova, con un avviso che mi ha tirato molto: «Visto per Malta».
Mi sono costato e sceso a chiedere. Ho chiamato amici miei e siamo tornati dopo.
Quando ho parlato con amici miei mio nonno mi ha detto: «Che fai?».
Io: «No, niente».
Ma lui un uomo intelligente, mi ha detto: «Ora vuoi andare all’estero dopo l’occasione che ti ha proposto tuo zio?».
Sì, perché il mio zio Jamal lavora in ministro del Trasporto, e nel 2013 lui faceva parte in una commissione per scegliere i diplomati che volevano andare a studiare per diventare piloti di aereo in tre paesi del mondo: Gran Britagna, Canada e America. Un percorso di 5 anni pagato dallo Stato.
Lui mi ha chiamato e mi dice: «Mi prepari il fascicolo e il diploma», perché ero diplomato con 85/100.
Io gli ho risposto: «Ma quando mai. Ma che sei pazzo? Io non lascio mai la Libia neanche morto».
Lui: «Ti pentirai».
Io: «Libia il paese più bello del mondo e io non lasciarò mai».
Per questo mio nonno mi ha detto questa cosa e perché io e i miei genitori non abbiamo detto ancora a nessuno niente. Noi abitiamo sopra mio nonno, secondo piano, a terzo mio zio e quarto altro zio. Una famiglia unita in tutto, in qualsiasi scelta condivisa. Ma quella mia non era ancora ufficiale, per questo non abbiamo detto niente.
Io ho chiamato i miei amici. Siamo andati in quell’ufficio per il visto di Malta.
Il signore che lavora lì ha detto: «C’è ma dovete andare a Tripoli», il capitale, 1.000 km da Bengasi.
Noi: «Basta che ci daranno il visto».
Lui: «Certo, vi daranno!».
Ora organizziamo. Dobbiamo prenotare l’aereo per Tripoli, perché, con la guerra, strada si apre, si chiude, non lo sai mai. L’aereo era sicuro. Sono andato a prenotare. C’erano l’ultimi 2 biglietti, l’ho presi per me e Abied.
Tarek ci raggiungerà dopo. Ho preparato le valigie e ho comprato tante cose.
Abied mi diceva: «Dove stai andando? A Tripoli c’è noia mortale».
Io sono stato a Tripoli 2 giorni, ma sapevo che era bella. La voglio visitare.
Già il domani sarà il 4 agosto 2015, il giorno della partenza verso Tripoli.
Le valigie pronte. La famiglia unita. Quando dico famiglia quella nostra bella allargata. Eravamo nel centro di casa nostra. C’erano tutti: i miei genitori, i miei fratelli, le mie amate sorelle, le mie zie, mio nonno. Tutti per salutarmi e passare un poco del tempo con me.
Ma si io devo tornare, perché il biglietto era andata e ritorno, prendo il visto di Malta e torno, perché questo commosso, caloroso saluto? Sarà il destino, l’istinto, il caso, o mia famiglia ha il sesto senso. Ma tra risate e loro che mi prendevano in giro ho passato la sera più bella della mia vita, tra raccomandazione perché Tripoli non tanto sicura.
Arrivato il mattino ero pronto. Mia mamma mi ha svegliato. Fatto colazione. Ho svegliato il mio fratello più piccolo Saif per compagnarmi per prendere un taxi per l’aeroporto.
Arrivato il momento più atteso. Salutare.
Ma io mi chiedo: «Perché devo salutare si ci devo tornare di nuovo?».
Già io di solito il bacio su la fronte do ai miei genitori solo nelle feste. Quello giorno ho baciato anche mio fratello più grande Mohamed, che io lo chiamo Ahmieda, su la fronte.
Un segnale? Mah.
Ho salutato mia mamma. L’ho baciata fronte e mano.
Ancora oggi non trovo cosa mi abbia spinto a farlo.
Sarà il destino.
E mio papà mi fa: «Che saluti se devi tornare?».
Ha ragione. Ma io ero commosso, perché in 20 anni con mia famiglia mai stato lontano più di 5 giorni.
Non ero pronto forse? Salutati tutti e sono andato.
Saif, mio fratello che mi ha compagnato, è stato l’ultimo da mia famiglia a vedermi in Bengasi e lui ancora oggi si vanta di questo.
Nel taxi avevo una sensazione contrastante tra paura, viaggio, esperienza nuova lontano da casa.