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Perché corriamo
14 set 2023
Una divagazione sulla liberatoria poesia insita nella corsa.
(articolo)
10 min
(copertina)
IMAGO / Kyodo News
(copertina) IMAGO / Kyodo News
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Uno dei quadri che preferisco di Picasso è quello delle due donne che corrono sulla spiaggia – conosciuto anche come La corsa e conservato al Museo Picasso di Parigi – perché racchiude in una sola immagine quasi tutto quello che penso del correre, o forse la prima volta che ho visto quel quadro ho semplicemente realizzato un insieme di cose. Del resto, anche a questo serve un’opera d’arte riuscita, a rivelarci qualcosa che stava nascosto da qualche parte dentro di noi, ma che da soli non riuscivamo a cogliere. Serve a condensare, in quello che uno sguardo può vedere in un istante, l’essenza di ogni cosa. Ed eccomi alla corsa, a Picasso, al mare, alla spiaggia, alla pista, al terreno, a un campo qualunque da gioco, ed eccomi che mi allaccio le scarpette e comincio a sognare.

Le due donne sembrano enormi, molto grandi, eppure sono leggiadre, paiono sospese e la spiaggia sembra quasi che non la tocchino. Esprimono forza e leggerezza, libertà e armonia, sono loro la cosa più vicina al mare, più della sabbia. Non corrono verso un traguardo, non fuggono da qualcosa, corrono e basta, sono sensuali e distanti, corrono e si tengono per mano. Se fosse questo il segreto della corsa? Tenersi idealmente per mano a tutta velocità? Naturalmente, il quadro è del 1922, Picasso omaggia il mito delle Menadi o Baccanti che corrono con una tunica senza maniche al vento, ebbre sì ma di gioia più che di vino. Solo due anni prima, alle Olimpiadi del 1920 di Anversa, le donne furono ammesse per la prima volta ai giochi (anche se non ancora alle gare di atletica). Ecco che Pablo Picasso le ammette, mi piace molto pensarlo, all’atletica leggera, prima dei comitati, prima dei regolamenti. L’opera d’arte anticipa quello che sarà. Le due donne sembra quasi che danzino, e molte volte mi sono domandato se la corsa non sia un diverso modo di danzare.

D’altronde usiamo spesso il verbo danzare per commentare o descrivere un’azione di gioco, un momento di sport nel quale l’armonia, la bellezza e la leggerezza sopraffanno tutto. Zidane e Iniesta che danzano con il pallone, Roger Federer che recupera un passante impossibile con la leggerezza di un ballerino, Kobe Bryant che avanza palleggiando, prima di andare a canestro, come una étoile della Scala. O Yulimar Rojas che ondeggia lieve prima della corsa e del triplo balzo - che la porta a vincere l’oro alle Olimpiadi e a stabilire il record mondiale di salto triplo – cos’è se non una ballerina jazz? Usain Bolt, pure ballava, spingendo i piedi verso la pista, spostandola più in basso, in modo da estendere meglio la falcata, quella corsa aveva in sé la stessa armonia della danza, lo stesso mistero.

Di recente, ma mi capita spesso, mi sono riguardato le gare più importanti di Usain Bolt, ebbene ogni volta resto di stucco perché non ne colgo il segreto, c’è qualcosa di non svelato in quella sequenza di falcate ed è uno dei motivi per cui da quando eravamo piccoli, appena possibile, corriamo. Bolt in pista era felice come un bambino che corre verso un giocattolo, un bambino di tre anni che senza motivo dice, dài, adesso corriamo.

Bolt, prima dello start della finale dei 100 metri di Berlino del 2009, fa mossette, gioca con la telecamera, sorride, si molleggia, un po’ balla. Poi c’è lo start e corre. Partono tutti, Usain Bolt fa i primi metri, poi si distende, spinge, la falcata è impressionante, i piedi s’appoggiano a terra, anche se non sembra, perché a tratti pare che stia volando, eppure la pista s’abbassa sotto la spinta del giamaicano per dare spazio all’estensione massima della sua gamba. Gli altri – Gay e Powell su tutti – spariscono, corrono in un altro tempo e altro spazio, a Berlino la pista è solo di Bolt. Il bambino felice che corre in 9.58 (che è ancora record del mondo), felice, come quando dicevamo ok corriamo fino a laggiù, facciamo a chi arriva primo e anche allora c’era un bambino Bolt che sarebbe arrivato sempre per primo, più veloce, più leggero. La corsa è felicità e Bolt era felice durante la gara, a vittoria ottenuta un po’ meno, nulla è come mangiarsi quei 100 metri a tutta velocità.

Pietro Mennea invece era felice alla fine, perché lo sforzo fisico da sostenere era di tutt’altro livello rispetto a Bolt, o a Michael Johnson. Mennea faticava, spingeva le gambe dove la natura non pareva consentirgli, contraeva i muscoli del viso per lo sforzo. Com’era bella però quella sua spinta nel mezzo giro di pista, quel recupero in curva. Solo dopo il traguardo, solo a fine corsa si distendeva ed era (forse) felice. Da piccoli volevamo essere Mennea e quando è morto ci è parsa andare via un’idea di corsa, un’idea che rendeva l’impossibile possibile, così che quando se ne è andato gli ho dedicato una piccola poesia per fermare il tempo e quel modo di correre, questa: Oggi è la giornata mondiale di Mennea / è una giornata che passa velocissima / mezza stagione, mezzo giro di pista. Velocissima, come le nostre corse da ragazzini.

La foto che amo di più sul correre l’ha scattata Willy Ronis, nella periferia parigina, anni ’50 o ’60. C’è un bambino che corre sorridendo, tenendo sotto il braccio sinistro una baguette più grande di lui. Quel bambino è Bolt, è la semplicità e la naturalezza del correre. Il bambino è felice perché ha una baguette, forse un dono, erano anni di grande povertà, ma è anche felice per il solo atto di correre. Perché è una cosa naturale, che sa fare, e allora applica la naturalezza del correre al possesso della baguette, da portare a casa o chissà dove il più in fretta possibile, e allora correre. Il sorriso del bimbo è stupendo, e lo scatto di Ronis cattura anche la sua ombra, che lo mostra come sollevato da terra, come se i piedi felici non potessero fare altro che restare a qualche millimetro dal suolo.

Una volta un amico mi ha fatto notare che tra le differenze tra Messi e Maradona ce n’era una più importante di altre che riguardava il controllo del pallone in corsa. Lui sosteneva che Messi andava (va) velocissimo, con la palla al piede, accelerando, rallentando, senza mai staccare la sfera dalla scarpetta. Maradona, invece, andava (va ancora?) rapidissimo, sorretto da una spinta propulsiva senza eguali, che gli consentiva di lanciarsi il pallone in avanti (quindi di staccarlo dal piede) e di andarselo poi a riprendere perché arrivava prima degli altri. Il mio amico, in conclusione, voleva sostenere che il controllo di palla di Messi fosse perfetto e più pulito. Io invece sostenni allora (e ancora sostengo) che si tratta di due tipi diversi di controllo totale del pallone e del gioco mentre si corre. Maradona e Messi sanno partire in progressione e sono in grado di arrivare in porta, saltando chiunque, senza mai fermarsi. Oppure, entrambi sanno fermarsi, attendere, scartare di lato e poi ripartire. Tutti e due, mentre corrono, sanno guardare tutto quello che accade intorno a loro e immaginare quello che accadrà. Messi quando corre ha l’aria sempre concentrata, gli occhi apparentemente bassi, sembra che stia giocando alla PlayStation e in un certo senso è così. Nessuno gli porterà via la palla. Maradona è rimasto sempre il ragazzino che – come scriveva Galeano – corre e dribbla con la lingua tra i denti, con gli occhi stretti e spalancati contemporaneamente. Messi tiene sempre il pallone attaccato al piede, Maradona ogni tanto lo butta in avanti e lo riprende lo stesso. Due modi di correre, due meraviglie, due modi di portarci all’infanzia. Il pallone è mio e non me lo porti via. Addirittura, Maradona, lo abbiamo visto proseguire la sua corsa cadendo, dopo un fallo, rialzarsi, arrivare primo e crossare. Vorrei un Picasso che disegnasse Maradona e Messi correre sulla spiaggia, ebbri di gioia, a piedi nudi, il pallone in totale controllo.

Nel video della canzone Voodoo People, uno dei più famosi e iconici dei Prodigy, un numero nutrito di uomini e donne viene bendato e lanciato in una folle corsa, alla base – lo si vede già nelle prime immagini – c’è il denaro, ma poi c’è altro: perversione, folle divertimento, aspetti presenti in chi organizza la corsa. C’è poi la corsa a perdifiato dei partecipanti, che corrono sapendo che solo uno (o nessuno) arriverà in fondo. Corrono perché scappano da qualcosa, da loro stessi, dalla noia, e corrono per salvarsi, per soldi, sapendo che sarà quasi impossibile. Che tipo di corsa è? Perché quel video lo abbiamo guardato tante volte e poi riguardato ancora e ancora? Io penso che nella corsa esista sempre (e ritorni) l’elemento della libertà, noi vogliamo che al termine della canzone qualcuno si salvi, speriamo che qualcosa cambi e che – correndo alla cieca – si salvino tutti.

Renton e Sick Boy di Trainspotting – e la loro corsa sulle note di Lust for Life di Iggy Pop – ce li ricordiamo tutti. Ricordiamo la corsa, il monologo iniziale, ricordiamo ogni cosa. Adoro quella corsa perché è senza senso. Non stanno scappando, oppure sì ma non importa, non stanno andando da nessuna parte. Non c’è lo starter all’avvio, non c’è traguardo alla fine. La vera corsa. Renton in primo piano corre e basta, corre velocissimo, corre come se fosse Usain Bolt su una spiaggia giamaicana, come il ragazzino che ho visto fare venti volte il giro di campo Santa Maria Formosa a Venezia qualche giorno fa. Il ragazzino quando si è fermato, con un po’ di fiatone ha detto alla mamma: «Ero velocissimo?», sua madre ha fatto sì con la testa. Bolt dopo i record del mondo, quando guarda nelle telecamere non ci fa la stessa domanda? E Renton, quando per un attimo si ferma, rischiando di essere investito da un’auto, guardando in maniera folle oltre il parabrezza, non domanda: «Sono velocissimo?»

Olga Carmona segna il gol della vittoria per la Spagna ai campionati Mondiali e comincia a correre felice per il campo, ci sono quei primi secondi in cui è sola, lei e la sua corsa piena di gioia, la maglia sollevata per mostrare il nome della mamma di un’amica morta da poco. Olga corre e non sa che sta correndo anche per suo padre, che sulla maglia – senza inchiostro – c’è scritto anche il nome di papà, di cui scoprirà la morte di lì a poco. Resta una corsa felice, perché Olga dice che con lei c’era una stella. La corsa inconsapevole diventa anche una cosa familiare, una corsa mondiale per papà. Ricorderete la corsa completamente diversa di Andrés Iniesta dopo il gol ai Mondiali del 2010, la maglietta sfilata per mostrare la scritta con la dedica all’amico calciatore Dani Jarque – siempre con nos todos – anche la corsa di Andrés come quella di Olga è una corsa per qualcuno, con qualcuno. Solo che Iniesta lo sapeva, Olga non poteva saperlo. C’è differenza? Credo di no.

Uno dei miei calciatori preferiti è stato Marco Tardelli, adoravo il suo modo di correre a centrocampo palla al piede, la falcata del centrocampista era di una bellezza e di una classe unica. Ma tutta quella classe si è nascosta dietro a una delle corse più famose della storia, quella che Tardelli fa dopo il gol alla Germania nella finale dei Mondiali del 1982. Una corsa selvaggia, liberatoria, scomposta ma comunque regale. Una corsa che portava con sé tutte le corse e le felicità del mondo.

Il poeta Milo De Angelis, in una poesia dal titolo Canzoncina per una bell’ala sinistra, scrive di una ragazzina che gioca nella squadra avversaria, ai tempi della scuola, leggiamo di un guizzo velocista e di una paura che la corsa palla al piede della ragazza portava con sé. Una paura per l’ignoto e il vuoto e il tempo anche dell’amore a venire. L’ala sinistra che correva nel cortile gesuita era la vita. Quella era la paura, per il futuro.

Le due differenti corse di Jacobs una vincente e una molto meno, la corsa campestre nel fango, la corsa su pista a piedi nudi, la corsa per gioco di due innamorati, noi bambini che da qualche parte corriamo, ogni corsa dopo un’esultanza, un uomo che corre con la sua bimba in braccio mentre cerca di raggiungere il confine, mia nonna che correva fino al rifugio per sfuggire ai bombardamenti, mio nonno che corse a nascondersi in un comignolo per scampare a una rappresaglia fascista, la corsa dei venditori abusivi di borse quando vedono sopraggiungere i vigili, la corsa impazzita di Fabio Grosso dopo il gol alla Germania, la corsa senza fine di Forrest Gump, la corsa limpida di ogni maratoneta, la corsa di mio nipote prima di andare a canestro, la corsa felice e senza scopo dei miei cani, la corsa per prendere un treno, per ripararsi dalla pioggia, per tuffarsi prima di tutti e per sempre in mare, la corsa di Paolo Rossi dopo il primo gol al Brasile, la corsa palla al piede, oltre la linea laterale, oltre qualunque linea di Gareth Bale. La corsa leggera, pulita, luminosa di Tamberi – mezza barba sì, mezza no – prima del salto a 2.36, prima dell’oro, prima di tutto.

Corriamo, abbiamo corso e correremo sempre anche senza un motivo e, nei momenti fortunati, correremo come le due donne di Picasso, come Olga Campos, come Gianmarco Tamberi prima del salto, come Marco Tardelli in uno qualunque dei nostri 11 luglio, come la prima corsa di uno sportivo che rientra da un lungo infortunio.

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