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Emanuele Mongiardo
Perché certi giocatori rendono solo al Mondiale?
30 nov 2022
30 nov 2022
Alcuni giocatori sbucano ogni quattro anni, giocando come i migliori al mondo.
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Emanuele Mongiardo
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Markus Gilliar / IPA
(foto) Markus Gilliar / IPA
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Quanto incidono i Mondiali nella valutazione di un giocatore? È giusto dare un peso così grande a una competizione a cadenza quadriennale, fatta da poche partite, dove basta un niente per deludere le aspettative?Sono domande senza risposta, che spesso ci siamo posti durante il calciomercato, o per provare a decidere il posto nella storia di alcuni calciatori, ma che oggi hanno meno valore nel giudizio di una carriera. Se né Messi e né Ronaldo finiranno bene questi Mondiali, probabilmente gli ultimi, come cambierà il giudizio su di loro? Hanno fatto talmente tanto con i loro club, settimana dopo settimana, che sarà difficile fargliene un torto troppo grande. Allo stesso modo si può citare la generazione d’oro inglese - quella di Gerrard, Lampard, Rooney – spesso deludente ai Mondiali, ma considerata comunque come una delle migliori di sempre. Oggi lo stesso possiamo dire di Lewandowski, che deve ancora giocare la sua prima grande partita in un Mondiale, o di Thiago Alcantara, che ai Mondiali non ci è neanche andato. Che dire poi di Erling Haaland? Quello che si prospetta essere il mostro del calcio del futuro per ora non ha una grande carriera ai Mondiali. Finiremo per sminuirlo per questo? C’è però uno sparuto gruppo di giocatori che, al contrario, lotta per il proprio posto nella storia ogni Mondiale. Si tratta di giocatori ordinari, lontani da ogni riflettore, che però ogni quattro anni riesce a giocare a livello dei migliori al mondo. Nell’immaginario collettivo l’esponente principale del filone è "Memo" Ochoa, portiere messicano classe ‘85, in questi giorni impegnato nel suo quinto Mondiale. La leggenda vuole che Ochoa si nasconda nel campionato messicano o in qualche squadra europea di terza fascia, per poi ricomparire al mondiale e frustrare i migliori attaccanti. Si è guadagnato questa fama a giugno 2014, dopo una partita sensazionale contro il Brasile padrone di casa: col Messico in apnea, Ochoa è stato in grado di compiere grandi miracoli, specie sui colpi di testa di Neymar e Thiago Silva, fino a mantenere lo 0-0 finale.

Otto anni dopo è tornato come "Noodles", il leggendario personaggio di C'era una volta in America, otto anni in cui è andato a letto presto, e alla prima partita del Messico ha parato un rigore a Robert Lewandowski e lasciato residue speranze di qualificazione al Messico.Come si spiega, nel calcio contemporaneo, un caso come quello di Ochoa? Com’è possibile che un portiere anonimo, spesso riserva nei principali campionati europei, faccia sembrare la porta piccolissima anche ai migliori centravanti al mondo? Come fanno giocatori piuttosto anonimi a dimostrarsi all’altezza dei migliori? Che al Mondiale si giochi un calcio diverso rispetto a quello dei club? Siamo forse diventati troppo eurocentrici, e non immaginiamo che anche i campionati di altri continenti possano produrre giocatori validi? Oppure, banalmente, è una questione di motivazioni, che solo un torneo del genere può trasmettere ad alcuni giocatori?Lo strano caso del MessicoDi Ochoa come portiere prodigio del Messico si parla dagli esordi con la maglia del Club America. Ricardo La Volpe, allora CT della "Tri", lo convoca per Germania 2006, solo come secondo vista la giovane età. Il Mondiale della sua affermazione avrebbe dovuto essere quello di quattro anni dopo, in Sudafrica. Il Messico si presenta con un mix di giocatori esperti e volti nuovi, dove spiccano alcuni dei talenti in grado di vincere il mondiale Under 17 del 2005: Carlos Vela, Hector Moreno, Giovani dos Santos e "Chicharito" Hernandez. Ci sono tante speranze intorno a questa generazione, sembra il momento giusto per un ricambio anche in porta. Invece Aguirre, il CT, che aveva allenato il Messico anche ai Mondiali del 2002, si riserva di decidere il titolare solo alla vigilia del torneo. Alla fine opta per un suo fedelissimo, il "Conejo" Oscar Perez, leggenda del Cruz Azul, noto nel resto del mondo per il suo metro e settanta d’altezza, inusuale per un portiere. «Non è stato un colpo facile da digerire», ha raccontato Ochoa. «Avevamo vinto la Gold Cup, venivo da un buon periodo, ma quando è arrivato il momento, da parte dell’allenatore non ho avuto lo stesso appoggio. È stato difficile, perché già mi immaginavo a giocare il Mondiale».Dopo il Sudafrica, forse per rafforzare la propria reputazione, Ochoa fa il salto di continente e va all’Ajaccio. Da lì, si trasferisce al Malaga, poi al Granada e infine allo Standard Liegi, prima di ritornare al Club America, dove gioca ancora oggi. In Europa, presto, il suo nome passa di moda. A Malaga è solo una riserva, col Granada retrocede in Segunda Division. Nel mezzo, però, arriva Brasile 2014, con la sovrumana prestazione contro Neymar e compagni che gli vale un posto come figura di culto dei Mondiali. Ochoa sarebbe tornato a stupire quattro più tardi, in Russia, stavolta contro la Germania: una prestigiosa vittoria per 1-0 con gol di Lozano, in cui Ochoa toglie una punizione di Kroos dall’incrocio dei pali.

Come si spiega una differenza di rendimento simile? Sulla carriera di Ochoa nei club deve aver pesato un carattere spigoloso. Non è il classico portiere sudamericano eccentrico, ma si tratta di un giocatore a cui piace far sentire la propria voce nello spogliatoio – secondo un assistente di Osorio, CT del Messico in Russia, era il giocatore più difficile da gestire, che impediva categoricamente di praticare turnover in porta. Soprattutto, però, nel quotidiano Ochoa si è rivelato un portiere irregolare, incline ad errori banali, e senza nemmeno tanta qualità nei piedi. Non ha un buon senso della posizione, non è preciso in uscita e sui tiri dalla distanza pare spesso distratto.Sul rendimento di Ochoa ai Mondiali influisce allora l’importanza del contesto, che lo spinge a mantenere salda la concentrazione e a elevare il livello delle proprie prestazioni. Forse non avrà grande tecnica, ma è un portiere con grandi riflessi, di quelli che si esalta per ogni parata, finendo per diventare ingiocabile quando la partita è quella giusta. Ochoa, comunque, non è il solo giocatore del Messico che in Qatar disputerà il suo quinto Mondiale. A guidare il centrocampo, come sempre, ci sarà Andrés Guardado, anche lui convocato per la prima volta in Germania nel 2006, e poi presente in Sudafrica, Brasile e Russia. A differenza del portiere, il "Principito" ha sempre mantenuto un ottimo rendimento in Europa: un giocatore di classe cristallina, che ha avuto però la sfortuna di trovare la collocazione ideale solo a trent’anni. In Spagna, con Deportivo La Coruna e Valencia, Guardado era sempre stato una buona ala, con inventiva e un discreto dribbling, ma mai niente di trascendentale. Nel 2014, però, col trasferimento al PSV Eindhoven la sua vita è cambiata. È diventato un centrocampista associativo, impiegato sia da mezzala che da metodista. A trent’anni, Guardado si riscopre raffinato regista, capace di riciclare i suoi dribbling per eludere la pressione e con un’insospettabile capacità di giocare sul lungo. Ha offerto grandi partite contro l’Atletico di Simeone in Champions, e si è guadagnato il ritorno in Spagna, in un progetto ambizioso come quello del Betis di Setién.A differenza di Ochoa, il Guardado dei Mondiali è lo stesso giocatore del Guardado dei club. Se di lui ci accorgiamo solo ogni quattro anni è perché non gioca in squadre all’attenzione del grande pubblico. Lo stesso si può dire, rimanendo al Messico, di "Zorro" Herrera. Pilastro della Nazionale U23 medaglia d’oro alle Olimpiadi del 2012, ha giocato per sei stagioni al Porto (di cui è stato capitano) senza però mai essere al centro dell’attenzione. Quando è arrivata la grande chiamata, da parte dell’Atletico Madrid, non ha mai trovato spazio. Herrera e Guardado sono stati il cuore del Messico in Brasile e Russia, mai inferiori ai grandi rivali che hanno affrontato. Nel 2014 il 5-3-2 del "Piojo" Herrera si reggeva unicamente sulla loro capacità di agire, al contempo, da registi, equilibratori e attaccanti aggiunti partendo da interni di centrocampo. Contro l’Olanda di van Gaal, agli ottavi di finale, sembravano loro quelli in possesso dei codici del calcio totale, tra giocate sotto pressione e inserimenti dalla seconda linea. Quattro anni dopo, al cospetto della Germania di Toni Kroos, erano loro a far correre a vuoto i tedeschi e a creare per i compagni gli spazi in cui colpire in velocità. Non è un caso che ben tre giocatori del Messico facciano parte di questa categoria dello spirito: il filo rosso tra i diversi CT della "Tri", oltre all’amore per la difesa a tre in impostazione da prima che andasse di moda, è l’alto grado di considerazione nei confronti dei grandi vecchi. È il ciclo della vita: conosciamo una giovane promessa del Messico a vent’anni, al suo primo Mondiale; l’esplosione, alla fine, non arriva mai, finisce nell’oblio, e ce lo ritroviamo trentenne al suo terzo mondiale, con un ruolo decisivo nella fase a gironi (per poi uscire puntualmente agli ottavi), quando ormai credevamo che si fosse ritirato.La longevità è una caratteristica di tanti protagonisti della Nazionale messicana. Cuahutemoc Blanco aveva incantato tutti con i suoi trick a Francia ‘98; in Corea e Giappone nel 2002 già non trasmetteva la stessa magia e in Germania, nel 2006, non era nemmeno tra i convocati. Poi a Sudafrica 2010 è ricomparso senza preavviso, ancora a battere i rigori con la sua rincorsa chilometrica. Quanti si erano dimenticati di lui in quel lasso di tempo?

Rafa Marquez ha smesso di giocare nel Barcellona nel 2010, al suo terzo Mondiale. Da lì in poi, tra NY Red Bull e Atlas, è sparito dai radar. Ciò non gli ha impedito di presentarsi da gran capitán a Brasile 2014, in un torneo che, per la diffusione della difesa a tre, sembrava quasi un tributo alla sua carriera da precursore del ruolo di centrale-regista. Marquez ha resistito altre quattro stagioni, e Osorio ha avuto l’ardire di schierarlo titolare persino nell’ottavo di finale di Russia 2018 contro il Brasile. Aveva 39 anni. Lontano da contesti competitivi, com’era possibile che Marquez rendesse a quel livello sul palcoscenico più importante?Podolski, Loew e la GermaniaMentre Ochoa ci farà ancora compagnia per il prossimo mese, purtroppo per la seconda edizione consecutiva ci toccherà sopportare un Mondiale senza Lukas Podolski. Se Ochoa oggi è il segretario dell’associazione giocatori che esistono solo al mondiale, il fondatore della categoria è senza dubbio l’attaccante tedesco di origini polacche. Lungo tutta la sua carriera, Podolski è stato un giocatore della Germania ceduto in prestito a squadre di club, in cui non ha mai fatto nulla di significativo, se non tenersi in forma per i Mondiali. A parte i tifosi del Colonia, qualcuno ricorda grandi partite di Podolski in Champions, in Premier o in Bundesliga? Impossibile. Nonostante tutto, però, con 49 gol in 130 partite Podolski è il terzo miglior marcatore e il terzo giocatore con più presenze della storia della Mannschaft, la seconda Nazionale più vincente di sempre. Völler, Klinsmann, Rumenigge, Matthäus, possono solo mettersi in fila dietro di lui per gol segnati.Podolski ha iniziato a giocare giovanissimo per la Germania, era già tra i convocati di Euro 2004. Al Mondiale del 2006 ha vinto il premio di miglior giovane, un riconoscimento che gli è valso l’acquisto da parte del Bayern Monaco. Da lì, la sua carriera coi club, difatti, è terminata. Due anni di naftalina, un grande Euro 2008, due anni ancora di naftalina e poi di nuovo protagonista in Sudafrica, addirittura col numero 10.Senza sindacare sulla sua storia, il caso Podolski si spiega in gran parte con motivazioni di squadra. Dopo il Mondiale casalingo del 2006, Joachim Loew diventa CT. Con lui, la Germania si trasforma in un club. Loew si comporta più da allenatore che da selezionatore. Crea un blocco compatto e segue un modello di gioco, che evolve a seconda degli input della Bundesliga. Tra 2008 e 2010 la Nazionale gioca un calcio perfetto per le caratteristiche di Podolski. "Poldi" era sempre stato un’ala sinistra mancina, a piede naturale, mentre il calcio si evolveva in direzione degli esterni a piede invertito. Era un giocatore puramente verticale, dalle ottime qualità atletiche e con un sinistro al tritolo, ma, a parte i tiri in porta, con la palla non offriva niente: mentre le migliori ali moderne si incaricavano di tutta la produzione offensiva, lui non era creativo, né saltava l’uomo. In Sudafrica, però, Loew gli chiede solo di tagliare da sinistra verso il centro, senza partecipare troppo al possesso. Deve solo smarcarsi per arrivare alla conclusione, in una squadra a cui piace giocare in transizione e in cui quindi può correre nello spazio. Nel 2010 già nessuno credeva più in Podolski. Al Bayern aveva fallito e nel 2009 era ritornato al Colonia, nella parte bassa della Bundesliga. A cosa poteva servire un giocatore così monodimensionale? Eppure, in Sudafrica torna l’allucinazione collettiva per cui Podolski sembra un giocatore da grande squadra. Il contesto funzionale alle sue caratteristiche e il suo rapporto speciale con la Germania lo avevano rivitalizzato.Le Nazionali che funzionano come club, sono tra i motivi principali per cui esistono giocatori capaci di fare la differenza ai Mondiali dopo anni di latitanza in campionato. Un caso analogo era quello del Cile, una squadra che, tra Bielsa e Sampaoli, ha inseguito la stessa idea di gioco per quasi dieci anni, dove gli inconcludenti Isla ed Edu Vargas tornavano improvvisamente quei giocatori per cui Juventus e Napoli avevano speso fior di milioni.In Qatar qualcosa di simile potrebbe accadere con la Spagna. Da quando si è insediato come CT, Luis Enrique non si risparmia convocazioni impopolari in nome del modello di gioco. Ha scelto di perseguire la strada del gioco di posizione e tutte le sue decisioni sono andate in quel senso. Alla vigilia di Euro 2020 Marcos Llorente era stato il miglior giocatore spagnolo della Liga, ma a cosa serviva uno con quelle caratteristiche in un contesto posizionale? Gerard Moreno per tecnica, intelligenza e visione di gioco non è così indietro rispetto all’attuale Morata, ma a Luis Enrique serve una punta che giochi di sponda e pressi, allora Gerard può essere solo una riserva del più funzionale Morata, che in Nazionale diventa improvvisamente più preciso ed efficiente di quanto sia mai stato con Juve, Real Madrid, Chelsea o Atletico. Un altro esempio del genere è Ferran Torres, poco più di 500 minuti quest’anno col Barcellona, ma miglior marcatore della era Luis Enrique con tredici gol in trenta presenze.La componente psicologica dei MondialiÈ naturale rimanere ammaliati da figure come Ochoa, Podolski, o Guardado dopo i Mondiali. Del resto, si tratta di una competizione dove l’aspetto irrazionale ha un forte peso specifico. Più rischioso è innamorarsi di questi nomi se di mestiere si lavora per un club. Anche i migliori sono caduti nel tranello dei giocatori da torneo estivo. Sir Alex Ferguson ha confessato i suoi errori all’indomani di Euro ‘96, dopo gli acquisti di Poborsky e Jordi Cruyff: «Avevano avuto un rendimento eccellente durante il torneo, ma non ho ricevuto lo stesso contributo che avevano offerto alle loro nazionali quell’estate… delle volte i giocatori arrivano motivati e preparati ai Mondiali e agli Europei, dopodiché ci può essere un appiattimento delle prestazioni». È qualcosa che rima anche con quanto detto da Hervé Renard, oggi tecnico dell’Arabia Saudita, che dice di preferire allenare le nazionali perché può far leva su motivazioni maggiori.L’aspetto motivazionale, con cui Ferguson spiega l’insuccesso di Poborsky e Jordi Cruyff, resta forse l’aspetto decisivo per comprendere la differenza di rendimento tra club e nazionale. Se alcuni calciatori, straordinari nel quotidiano, soffrono troppo il peso di rappresentare il proprio paese agli occhi di tutto il mondo, altri, al contrario, si cibano della portata mitologica dei Mondiali. È un discorso che ha a che fare con aspetti intangibili, come la psicologia e il carisma. Prendiamo il caso di Paul Pogba. Dopo il trasferimento dalla Juve al Manchester United nel 2016, il francese non ha fatto altro che destare critiche per la sua attitudine e la sua presunta mancanza di impegno. Qualche anno fa, lo si accusava addirittura di aver giocato contro per ottenere l’esonero di Mourinho. In definitiva, un elemento tossico per la sua squadra, un virus, come lo definì l'allenatore portoghese. Quattro anni fa, però, Pogba è stato decisivo per la vittoria della Francia in Russia. Ha spopolato il video del suo discorso nello spogliatoio prima della finale contro la Croazia. In una squadra piena di fuoriclasse, Pogba era il comandante in capo, tutti pendevano dalle sue labbra, anche chi aveva vinto la Champions League. È evidentemente più facile ritrovare il senso di responsabilità quando si rappresenta il proprio Paese, l’amore per il calcio torna a essere più disinteressato – ed è facile supporlo con Pogba, un centrocampista con un delta inaccettabile tra potenzialità e rendimento col club.Le stesse dinamiche devono aver condizionato un portiere con la personalità di Ochoa. In generale, è un discorso valido per diversi calciatori carismatici, che faticano, però, a trovare continuità nel quotidiano. Altro esponente della categoria è Asamoah Gyan, leggenda del Ghana e miglior marcatore africano della storia dei Mondiali. Gyan ha toccato il picco della popolarità in Sudafrica, nel 2010, quando ha trascinato la sua Nazionale fino ai quarti di finale. Faceva a sportellate con i difensori e aveva un ottimo senso della posizione in area, oltre a essere infallibile dal dischetto, almeno fino al tocco di mano di Suarez in Ghana-Uruguay. Le ottime prestazioni ai Mondiali gli erano valse l’acquisto da parte del Sunderland per 13 milioni di sterline. In Inghilterra, però, Gyan dura appena una stagione. A settembre 2011 già decide di andare in Arabia, all’Al-Ain. Di Gyan rimane giusto il ricordo del rigore sbagliato in Sudafrica, di lui non sa niente nessuno. A giugno 2014, però, eccolo di nuovo al centro dell’attacco del Ghana, pronto ad affrontare il suo terzo Mondiale. Nessuno si aspetta più niente da Gyan, cosa si può pretendere da un centravanti del campionato arabo? Eppure, l’ex Udinese trova la forza di segnare contro due avversari illustri come Portogallo e Germania. La domanda diventa lecita: ad Asamoah Gyan è mai interessato giocare in una competizione diversa dai Mondiali?

Per la piega che sta prendendo il calcio moderno, è facile ipotizzare che ci saranno sempre meno casi del genere. Giocatori simili erano soliti diventare protagonisti del mercato qualche anno fa. Le loro storie, però, hanno insegnato a non fidarsi degli exploit estivi. Fare scouting sulla base di una competizione breve, dove tanti fattori extracalcistici pesano più che mai, è rischioso. I sistemi di reclutamento, ormai, sono sempre più raffinati. L’osservazione è costante, non si limita a un’infatuazione estemporanea. In futuro, guadagnarsi un posto nei principali campionati solo grazie a un grande Mondiale, sarà sempre più difficile, soprattutto per gli unsung hero di Nazionali di seconda fascia. D’altro canto, lo scouting odierno ha raggiunto un livello di profondità tale che non esistono più giocatori sconosciuti, a qualunque latitudine e a qualunque età: per questo motivo nei maggiori club arriveranno sempre più giocatori da Nazionali senza una grande tradizione. Prendiamo il caso dell’Ecuador. Sulla scorta dei tre gol segnati a Brasile 2014, Enner Valencia si era guadagnato il trasferimento al West Ham. Aspettarsi una mossa del genere, oggi, è difficile. Di contro, l’Ecuador arriverà in Qatar con un protagonista della Premier come Moises Caicedo, acquistato dal Brighton dopo mesi e mesi di osservazione: il Mondiale è una conseguenza della sua presenza in Premier, non il contrario.In futuro, i giocatori che vivono in funzione delle competizioni per Nazionali, senza lasciare traccia nei club, saranno sempre meno. Un Mondiale, però, si regge anche sulle sue storie, e vicende come quelle di Podolski, Gyan, Ochoa, Pogba o Cheryshev meritano di essere preservate.

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