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Andrea Braschayko
Perché i boicottaggi non funzionano quasi mai?
28 nov 2022
28 nov 2022
La loro storia può aiutarci a capirlo.
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Andrea Braschayko
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Matthias Hangst/Getty Images
(foto) Matthias Hangst/Getty Images
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Quella del boicottaggio è un’azione collettiva antica come le competizioni sportive stesse. Il primo caso documentato risale addirittura al 332 a.C. L’atleta ateniese Callipo vinse l’oro nel pentathlon corrompendo i suoi avversari e, una volta scoperto, venne costretto dal governo di Elea a pagare una multa. Callipo rifiutò e assunse un avvocato per difendersi, mentre gli ateniesi minacciarono di ritirarsi dai Giochi per le ingiuriose insinuazioni rivolte al loro concittadino. Il Comitato Olimpico Internazionale allora non esisteva, e toccò all’Oracolo di Delfi dare un responso: agli Ateniesi fu imposto di convincere Callipo a pagare la sanzione e fare ritorno ad Olimpia.

Anche in epoca moderna i boicottaggi raramente sono risultati efficaci, se non quando concepiti come parte di una più ampia strategia multiforme, per lo più politica ed economica, verso uno Stato. Quando si decide di boicottare o meno una manifestazione sportiva, è impossibile prescindere da un giudizio di valore riguardo l’autonomia formale delle istituzioni sportive. Lo sport è (anche) politica oppure è desiderabile e anzi necessario che esso rimanga in una bolla neutrale? Tra coloro che ritengono lo sport possa essere veicolo di messaggi positivi a livello globale e chi contesta la mancanza di coerenza di una posizione che portata all’estremo potrebbe paralizzare la maggior parte delle competizioni internazionali, il dibattito ha potenzialità e ramificazioni infinite. Ciò rende l’idea di quanto sia complesso giungere ad una decisione coordinata tra più di duecento stati che partecipano ai Giochi olimpici o tentano di qualificarsi a un Mondiale. Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto: perché si chiama "boicottaggio"? L’etimologia del termine deriva dal nome del latifondista inglese Charles Boycott, che pagava i propri contadini irlandesi meno del salario concordato e si avvaleva di metodi inumani nei loro confronti. Quest’ultimi si coalizzarono, rifiutando di lavorare le terre di Boycott. Il governo inglese cercò di venire in suo soccorso, ma dopo che le tenute andarono in malora in seguito al boicottaggio, non poté fare altro che licenziarlo. Dunque, già dalla sua prima esperienza il boicottaggio si riferisce ad un’azione coordinata che richiama a principi e diritti universali, e richiede che essi siano socialmente condivisi. Allo stesso tempo, nella storia di Boycott, non è secondaria una dinamica politica: il sentimento di astio degli irlandesi verso i padroni inglesi, percepiti come colonizzatori e sfruttatori.

Jesse Owens vince l'oro nei 100 metri ai Giochi Olimpici di Berlino del 1936. Quell'edizione rappresenta uno dei fallimenti più noti delle campagne di boicottaggio nello sport (Keystone/Getty Images).

Nello sport, le campagne di boicottaggio sono quasi sempre nate nei paesi occidentali. A volte più per ragioni strettamente politiche (potremmo definirli boicottaggi strategici), altre partendo dal basso per via di sistematiche violazioni dei diritti umani (boicottaggi etici). Al di là della loro origine, queste campagne hanno quasi sempre avuto poca risonanza, quando non aperto ostracismo, in zone del mondo che guardano con sospetto le pretese universalistiche delle democrazie liberali.

È curioso in questo senso che uno dei boicottaggi sportivi più riusciti e famosi, quello del Sudafrica dell’apartheid, riguardasse un regime inizialmente appoggiato da una parte del mondo occidentale. Il regime razzista che ha retto il Paese per buona parte del Novecento venne prima espulso dai Giochi Olimpici del 1964, poi definitivamente espulso dal CIO nel 1970. Complessivamente l'azione di isolamento sportivo del Sudafrica è durata quasi trent’anni, ma va specificato che lo sport non ha agito da solo, ma in aggiunta a spinte politiche sia dall'esterno che dall'interno che alla fine hanno dato il risultato sperato, cioè la fine del regime di apartheid nel 1991. Secondo l’opinione del professore dell’Università di Bologna Nicola Sbetti, specializzato in Storia dello sport, nonostante la sua rilevanza sociopolitica e identitaria «lo sport è tutto sommato un fenomeno marginale» come forma di pressione diretta su un Paese, rischiando di essere influente per lo più quando accompagnato a sanzioni politiche ed economiche più ampie. E in questo senso il successo della campagna di boicottaggio del Sudafrica lo conferma.

Attivisti neozelandesi interrompono una partita della nazionale sudafricana di rugby contro gli All Blacks ad Hamilton, nel 1981. Nonostante il Sudafrica fosse stato escluso dagli sport olimpici, gli Springboks non furono mai espulsi dall’International Rugby Board durante il regime di apartheid. La decisione di Mandela di ospitare i Mondiali del 1995 (poi vinti dal Sudafrica) contribuì a cancellare la macchia di complicità con l’apartheid della Nazionale di rugby.

Boicottare attraverso lo sport ha avuto più successo sul lungo termine, quando le sanzioni hanno coinvolto singoli paesi colpevoli di violare valori fondamentali iscritti nella Carta Olimpica – come nel caso del Sudafrica, un modello che, in qualche modo, oggi si cerca di replicare nei confronti della Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina. In cosa può essere cambiata la percezione della Russia rispetto ai Mondiali del 2018? È ovvio che la sua esclusione dalle manifestazioni sportive è determinata dal deteriorarsi del contesto internazionale, ma la percezione della pericolosità di un paese ospitante è una questione spesso soggettiva che attiene alle volontà politiche dei paesi. Le tendenze autoritarie, espansionistiche e di repressione delle minoranze erano evidenti in Russia già prima nel 2022, così come il tentativo di usare lo sport come arma di soft power, spesso con metodi illeciti come la macchina di doping di stato che aveva allestito Mosca negli anni precedenti all'invasione. L’unica opinione pubblica a parlare di boicottaggio fu però quella ucraina, poiché direttamente interessata dalla guerra del 2014. E persino in Ucraina non vi fu una posizione netta sull’eventuale boicottaggio del Mondiale. La questione cadde semplicemente nel vuoto quando la Nazionale di Shevchenko fallì la qualificazione, perdendo all’ultima partita contro la Croazia futura finalista a Mosca.

In questo senso è utile tornare ai Giochi Olimpici del 1936 a Berlino. Quando Hitler e Goebbels si preparavano ad ospitare le Olimpiadi di Berlino, mancava almeno mezzo secolo alla diffusione del termine sportwashing. I Giochi erano stati assegnati dal Comitato Olimpico Internazionale nel 1931, due anni prima della salita al potere di Hitler, e per uno strano paradosso, proprio al fine di rompere l’isolamento della Germania dalla comunità internazionale in seguito alla Prima guerra mondiale. A quel tempo il fronte del boicottaggio era spaccato. Da una parte i paesi europei cercavano di evitare qualsiasi mossa che potesse indispettire Hitler, dall'altra la commissione statunitense incaricata di fare un sopralluogo sulle condizioni in cui i Giochi si sarebbero svolti era composta per lo più da «membri conservatori, quando non simpatizzanti del nazismo, che riportarono un’immagine rassicurante della Germania» racconta Sbetti. Negli Stati Uniti, più che in Europa, nacque comunque un forte dibattito sulla possibilità di boicottare l'evento, soprattutto all'interno della comunità ebraica, per via dell’approvazione delle Leggi di Norimberga. La frangia per il boicottaggio si trovò però a dover fronteggiare la solo apparentemente inaspettata ostilità della comunità afroamericana, che vedeva nello sport uno strumento per emanciparsi dal razzismo sistematico della società statunitense. A questo proposito è piuttosto celebre la leggenda per cui Hitler si rifiutò di riconoscere il trionfo di Jesse Owens in quelle Olimpiadi (vincendo quattro medaglie d'oro), quando in realtà fu lo stessa atleta statunitense a smentirla. «Hitler non mi snobbò, fu Roosvelt a farlo: non mi mandò nemmeno un telegramma», disse Owens sul presidente degli Stati Uniti.

Un altro caso "di scuola" è quello dei Mondiali cosiddetti "della vergogna", cioè quelli argentini del 1978. La loro storia potrebbe cominciare da quella personale di un ex capitano della Wermacht nelle campagne di Africa e Italia, Hermann Neuberger, che durante gli anni ‘70 si ritrova vicepresidente della FIFA. Incaricato di fornire un report sulla situazione in Argentina prima dei Mondiali, dichiara che «non esistono premesse migliori per lo svolgimento del torneo». Come per Berlino, anche la rassegna iridata del 1978 fu assegnata all’Argentina alcuni anni prima del golpe militare di Jorge Videla. Per la verità, i generali argentini erano inizialmente persino stizziti dall’onere di attirare su di sé gli occhi indiscreti della stampa internazionale. Ciò avrebbe rischiato di fare luce sull’enorme sistema di repressione interno, fino ad allora sconosciuto alla maggior parte degli stessi argentini, e oggetto di voci nei movimenti di sinistra occidentale. Prendendo la palla al balzo, però, il regime militare scelse di sfruttare l’occasione per restituire all’estero l’immagine di un paese tutto sommato tranquillo, pacificato.

Nel frattempo, una sollevazione dal basso in Europa prendeva piede contro la Coppa del Mondo della dittatura fascista. Avvenne soprattutto in Francia, dove era presente una forte diaspora di argentini, ma anche in Olanda, dove i giocatori della Nazionale ricevettero dall’associazione umanitaria SKAN degli opuscoli informativi sui crimini commessi in Argentina, e in Svezia, dopo la scomparsa di Dagmar Hagelin, una diciassettenne svedese sparita a Buenos Aires dopo un fermo di polizia.

Due manifesti del Comité pour l’Organisation par le Boycott de l’Argentine de la Coupe du Monde (COBA), associazione composta da esuli argentini in Francia, che ottenne l’appoggio anche di Roland Barthes e Jean-Paul Sartre, oltre che del Parti Socialiste di François Mitterand.

Forse per la prima volta, anche alcuni calciatori prenderanno posizione politica: il caso accertato più eclatante rimarrà quello di Jorge Carrascosa, capitano dell’Albiceleste che decide di ritirarsi a poche settimane dal Mondiale, evitando di rendere pubbliche le reali motivazioni della scelta. Secondo le voci dei giornali, anche alcune delle potenziali stelle del torneo hanno rifiutato di giocare in Argentina. Tra di essi c’è Paul Breitner, maoista, che però allo stesso tempo ha pure un conflitto perenne con il tecnico della Germania Ovest. Anche l’assenza all’ultimo minuto di Johann Cruyff sarà strumentalizzata politicamente. Il numero 14 olandese chiarirà solo successivamente che si ritirò per paura della propria incolumità personale e della propria famiglia, che era stata oggetto di un rapimento poco tempo prima dell'inizio di quel Mondiale.

Il Mondiale argentino avrà luogo in un clima compiacente. I vertici della FIFA sfileranno insieme a Videla, che può contare sull’appoggio degli Stati Uniti. Anche le Nazionali del blocco orientale, tuttavia, si faranno pochi problemi a giocare. Vincerà l’Argentina allenata dal comunista Menotti, che rimarrà in silenzio, e chi farà troppe domande, come Gianni Minà, verrà semplicemente allontanato dal paese. Solamente cinque anni più tardi si faranno le somme della tragedia: la dittatura di Videla fece sparire un numero stimato di circa 30mila persone, quasi la metà dei tifosi che al Monumental assistettero alla vittoria dell’Albiceleste contro l’Olanda.

Al di fuori di questi casi, in cui come abbiamo visto alla fine vinse il silenzio, i boicottaggi hanno avuto parzialmente successo solo in presenza di scelte politiche in contesti di estrema polarizzazione. Ciò è avvenuto durante la Guerra Fredda e ha riguardato quasi sempre le Olimpiadi più che i Mondiali di calcio. Nel 1980, gli Stati Uniti e altri 64 paesi, non parteciparono ai Giochi di Mosca in segno di protesta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, e anche se il comunismo crollerà poco più di dieci anni dopo, l’obiettivo proclamato – far ritirare l’esercito russo da Kabul – sarà lontano dall’essere raggiunto. Seppure sia stato il più mastodontico boicottaggio sportivo della storia, esso non riuscì a raggiungere il consenso totale nemmeno fra gli alleati. Sotto la bandiera olimpica parteciparono, ad esempio, Australia, Gran Bretagna, Francia e Italia, quest’ultima prima nel medagliere fra i paesi del blocco occidentale.

A loro volta, l’URSS e altri tredici paesi del blocco del Patto di Varsavia si rifiutarono di partecipare ai successivi Giochi di Los Angeles in risposta ai "sentimenti sciovinisti e di isteria anti-sovietica". Persino in questi casi segnati dall’eccezionalità della Storia, il risultato di breve termine è indiscutibile: le gare delle manifestazioni internazionali continuano in relativa normalità e la situazione politica del paese ospitante rimane invariata, pur se viene innegabilmente condizionato il livello della competizione tra gli atleti.

Ciò non significa che le campagne di boicottaggio non possano raggiungere obiettivi locali. Le squadre africane disertarono per esempio le qualificazioni per la Coppa del Mondo del 1966, lamentandosi dell’unico posto a disposizione tra le sedici partecipanti, da contendere peraltro con le nazionali asiatiche (anche la Corea del Sud si unì al boicottaggio) e oceaniche. Già nell’edizione successiva in Messico, alla CAF fu riservato un posto esclusivo e, quando ai Mondiali del 1982 si decise di allargare il numero delle partecipanti a 24, i posti per Asia, Africa e Oceania diventarono quattro. Le nazionali europee, che nel ’66 in Inghilterra presentavano dieci squadre, hanno ottenuto nei decenni successivi solamente tre posti aggiuntivi, durante il processo che portò a trentadue il numero di partecipanti nell’edizione di Francia ‘98. Se una tra Africa ed Asia rischiava di rimanere non rappresentata nelle fasi finali fino agli anni ’70, i due continenti possono contare ora su un totale di nove posti.

La globalizzazione del calcio è stata uno degli effetti collaterali del duopolio tra il 1974 e il 2015 di João Havelange e Sepp Blatter alla presidenza della FIFA. Un fenomeno che da molti è stato ritenuto una specie di velo di Maya dietro il quale si celavano corruzione e rapporti poco chiari con regimi autoritari, ma che effettivamente ha reso il calcio lo sport globale che è oggi. L’assegnazione in un solo colpo delle ultime due edizioni a Russia e Qatar ha tuttavia contribuito a scoperchiare il vaso di Pandora all’interno della FIFA, e ad accendere il dibattito all’interno di un’opinione pubblica internazionale.

Se le Olimpiadi sono state spesso teatro di scontri geopolitici e ritorsioni fra gli Stati, le campagne di boicottaggio dei Mondiali di calcio sono più spesso partite dal basso, quasi in sostituzione di un governo del calcio mondiale percepito come corrotto e inaffidabile. Sono spontaneamente nate a partire dal prezioso lavoro di giornalisti e attivisti, puntando a mettere in luce fattori critici dei grandi eventi internazionali presso un pubblico più sensibile rispetto al passato a temi come i diritti delle minoranze, le violazioni dei diritti umani e la sostenibilità ambientale. Le campagne di boicottaggio hanno avuto però risonanza presso una platea prevalentemente occidentale, mentre sono state spesso guardate con scetticismo nel resto del mondo. Quasi sempre le proteste hanno perso vigore con l’avvicinarsi dell’inizio ufficiale della competizione: una volta cominciata la festa, in pochi hanno avuto la forza di non partecipare. I Mondiali in Qatar e l'espulsione della Russia dal mondo sportivo potrebbe segnare un cambio di rotta, anche se è ancora troppo presto per dirlo.

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