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Per "Pepe" Mujica il calcio era politica
14 mag 2025
Il calcio parlava a Mujica dell'Uruguay.
(articolo)
8 min
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Scarpe di un cuoio liso, protagoniste di battaglie e chilometri, coi lacci sdruciti, scarpe tenaci, che non hai abbandonato mai, neppure dopo l’ultima partita, neppure quando sei assurto al mito, uno di quei miti intimi, dimessi. Scarpe grosse, proverbiale proprietà di chi ha un cervello fino.Avevi tirato i remi in barca, ti eri già arreso al tumore all’esofago che ti avevano diagnosticato giusto un anno fa e che ti stava travolgendo per goleada. «Il guerriero ha diritto al riposo». Te ne sei andato, poco a poco, l’hai fatto a testa alta come fossi Obdulio Varela, pieno di un’umanissima consapevolezza, mentre camminavi per la tua fattoria scalzo, come un calciatore che aveva abbandonato i campi ma non la memoria di chi gli ha voluto bene.

Venivano a trovarti, ad ascoltarti, a prendere un mate insieme: pendevano dalle tue labbra, come Emir Kusturica durante tutte le scene in cui ti ha filmato nel suo documentario “Una vida suprema», come Lucas Torreira che ti ha portato in dono una maglia del Galatasaray.

«Siamo sei fratelli in famiglia, e ogni tanto un po’ mi pesa perché poggia tutto su di me, e me ne sono dovuto andare presto da casa. A volte ci incazziamo tra di noi per cazzate», ti ha detto Torreira, «e ora ti vedo qua, novant’anni, che ti alzi tutti i giorni per lavorare».

Sei stato un esempio impareggiabile, chissà a volte un po’ mitizzato: il presidente povero, ti dicevano. Ma tu rispondevi «non sono povero, sono sobrio, con un bagaglio leggero, vivo con quello che è giusto affinché le cose non mi rubino la libertà».

Tutto ti parlava del tuo Paese, l’Uruguay, il tuo paesito, come lo chiamavi. Anche il pallone, ovviamente, a te, come a tutti gli orientales, ti parlava dell’Uruguay. Una delle mille cose su cui eri d’accordo con Eduardo Galeano, amico, compagno di lotta politica, era che il futbol fosse strumento del coinvolgimento popolare, metafora e al contempo vittima del progressismo.

Quando ne hai avuto modo – e se non c’era occasione la creavi – non ti sei mai tirato indietro nel criticare i poteri forti, i detentori del business, quelli che mercanteggiavano sullo sport, che facevano pressione sui giovani talenti, per trasformare gli idoli in prodotti commerciali. «Gli stipendi di certi giocatori di calcio sono un’offesa, soprattutto in confronto a come se la passano i nostri popoli», hai detto una volta, e non pensavi solo all’Uruguay, ma pure all’Argentina, al Venezuela, al Paraguay, al Brasile, a quel continente con le vene perennemente aperte. «Il fatto è che i giocatori sono il pretesto per una mobilitazione economica che gli gira attorno: neppure loro possono scappare alla realtà del nostro tempo». «Il calcio si è trasformato in un business. Un business che continua ancora ad avere, in parte, una componente magica, artistica. Ma che ci vuoi fare, le società moderne trasformano tutto, pure i sospiri, in business».

Ti eri accorto che stavano rubando il calcio ai poveri, come se ne era accorto Galeano, come se ne è accorto Marcelo Bielsa che oggi siede sulla panchina della Celeste, come se n’era resa conto Oscar Tabárez, pure lui ct dell’Uruguay, come te longevo, come te più del suo ruolo: maestri di vita, prima che caudillos calcistico o politico.

Eri, dicevi tu stesso, «un vecchio che ha sulle spalle parecchi anni di carcere, e qualche proiettile in corpo. Un tipo che ha sbagliato molto, come altri della sua generazione, testardo, ostinato, e che cerca di essere il più coerente possibile con quello che pensa, tutti i giorni dell’anno, tutti gli anni della vita». Coerente con te stesso hai detto ciò che pensavi, per esempio, della FIFA, «quella manica di vecchi figli di puttana». Eri fuori dal tempo, le tue convinzioni cozzavano con il mondo moderno fino a risultare inattuali. Perché il calcio, per te, era innanzitutto uno strumento di creazione di valori, ma non economici. Durante il tuo passaggio alla presidenza hai sempre promosso lo sport seguendo una logica di inclusione, di accesso universale.

Eri diventato Presidente nel marzo del 2010: avresti vissuto, nella carica più alta del tuo Paese, due Mondiali, tra cui quello Sudafricano, in cui l’Uruguay è un po’ stata una vincitrice morale, terza classificata dopo un percorso quasi miracoloso. Tua moglie Lucia non ti ha permesso di seguire la Celeste dal vivo, «per andare in Sudafrica bisogna farsi 4025 vaccini e non è una buona cosa per la malattia autoimmune che ha Pepe, perciò non glielo permetto»: ma tu lasciavi sempre decidere Lucia, conosciuta durante il periodo della guerriglia, che non ti ha mai abbandonato, con la quale condividevi la vita contadina, la lotta politica, l’amore. Alla vigilia della partenza della Celeste, però, sei andato a cena con giocatori e allenatore. La Federazione si è arrabbiata tantissimo: nessun dirigente era stato invitato. Ma dopotutto, come racconta Galeano in “Splendori e miserie del gioco del calcio”, dopo la vittoria in Brasile, nel 1950, le medaglie d’oro la Federazione le ha coniate per i dirigenti, mica per i calciatori, che si sono dovuti accontentare dell’argento.

Il Mondiale è sempre stata l’occasione perfetta in cui i paesi più piccoli hanno potuto competere con i giganti: perché lì non c’entra il potere d’acquisto, la sperequazione che genera dislivello, ma l’appartenenza. A volte, anche la semplice forza di volontà.

«Per la statura che abbiamo, il calcio uruguayano è un miracolo: ed è un miracolo reso possibile dalla passione della nostra gente», hai detto quando la Celeste è rientrata in patria.

Un anno più tardi hai consegnato a Tabárez la medaglia Presidenza della Repubblica. «Grazie per averci dimistrato che si può perdere, ci si può rialzare e si può tornare a camminare», sono state le parole che hai speso. Le stesse che tutti gli uruguayani avrebbero speso per te.

Ci hai giocato, al calcio, come tutti i ragazzini, come tutti i ragazzini uruguayani in particolare, sognando il Maracanazo: «Quella partita l’ho vissuta stringendo una lampada in mano mentre cercavo di ascoltarla da una vecchia radio Edison. Probabilmente è stata una delle emozioni più grandi della storia del nostro calcio. Non ho mai visto una festa popolare così grande: mi è rimasto impresso nella memoria e ci resterà per sempre». Avevi quindici anni, Pepe: magari hai pensato che un giorno quell’Obdulio Varela saresti potuto essere te. O magari Anibal Paz, che anche dopo essersi laureato campione del mondo veniva pagato con un panino e una birra, anziché uno stipendio adeguato.

«Giocavo mezz’ala ma facevo schifo, eh», hai raccontato. «Facevo schifo. Davo un sacco di calci, e ne prendevo», una metafora della tua vita, di quando hai fatto il guerrigliero tupamaro perché il Paese che era diventato l’Uruguay non ti piaceva proprio, e non ti saresti mai arreso prima di vederlo tornare a essere un luogo di democrazia, di valori, inseguendo il socialismo come un pallone goloso al centro dell’area; e poi di quando ti hanno incarcerato, tenuto dentro per anni, facendoti visitare tutti i centri detentivi del Paese.

Il cuore – quel cuore pregno di amore, di valori – batteva anche per il calcio, ma per nessuna delle due grandi del Paese, Nacional o Peñarol. Come sarebbe potuto essere altrimenti? Il tuo amore, nella cancha, era tutto per il Cerro, il club del barrio in cui eri cresciuto – un quartiere proletario, multietnico, una specie di La Boca montevideense –, un club modesto: «sono abituato a perdere, ma sono anche un fanatico del localismo». Nel barrio di Cerro avevi conosciuto Mauricio Rosencrof, ed era lì che avevi imparato cosa significasse la parola militanza, una parola che tu e gli altri avevate dovuto comprendere rapidamente, senza gli strumenti, quando l’Uruguay era passato ad essere, dalla Svizzera d’America, uno dei tanti paesi sotto il giogo di una dittatura sanguinaria, un paese dell’America Latina come gli altri. La parola attraverso la quale cercavate di non perdere sempre, come capitava al Cerro.

Per te il calcio non era questione di bandiere, ma di concetti. Una volta, davanti a un manipolo di studenti, hai detto: «Il calcio non è solo una palla: è una maniera di vedere la vita. Quello che succede in campo mostra di noi quello che siamo fuori». Ed era una visione piena di sovrastruttura politica, certo, ma anche di dolcezza e tenerezza.

Una piovosa mattina del 2012, durante la tua presidenza, hai parcheggiato il maggiolino dell’87 con cui giravi (ovviamente Celeste) di fronte al centro d’allenamento dell’Huracán di Paso de la Arena, una squadra che stava lottando per la promozione in Serie A. Hai lasciato la cagnolina Manuela in macchina – Manuelita, la povera Manuelita con tre zampe, quanto le volevi bene? – per entrare in un ferramenta lì vicino. In mano avevi una tavoletta del cesso. I giocatori ti hanno riconosciuto, hanno voluto stringerti la mano, e tu gli hai regalato le tue parole, perché non ti tiravi mai indietro. Hai detto loro, guardando la palestra dimessa, le divise vecchie, sbiadite, ma anche il brillio negli occhi, l’emozione per ciò che si stavano per giocare: «Ci sono volte in cui lo spirito umano può dove non arriva la ricchezza». E cosa importa se poi ad andare in Serie A era stato il Progreso? Cosa importa se la promozione l’Huracán l’aveva persa ai rigori?

Nella vita si vince, ma più spesso si perde. A Emir Kusturica hai detto «bisogna aver fallito molte volte, per apprezzare il tango». Per apprezzare la bellezza di ciò che si ha bisogna prima averla persa. Il calcio, per te, era politica, comunità, emozione, identità.

«Non c’è fenomeno più gregario e tribale del calcio», dicevi. «In un Paese piccolo come il nostro, abbiamo bisogno di questi simboli condivisi».

Quando è finito il periodo della tua presidenza, indossando lo stesso abito che avevi il giorno della proclamazione, le stesse scarpe, hai detto al tuo popolo: «Non me ne sto andando. Sto arrivando». Stavi dicendo che eri pronto a tornare al loro fianco, ammesso che te ne fossi mai andato, per lottare, per cercare di conquistare ciò per cui è giusto battersi.

Te ne sei andato, Pepe, ma sai come funziona? Sì, lo sai, è esattamente come per i fiori che coltivavi nella tua chacra: non muoiono davvero mai, fioriscono a ogni nuova generazione. Come le partitelle nel barrio, a ogni tramonto. Come certe carriere trascorse senza sfarzo, ma con convinzione. Come la memoria.

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