
Dalla “cima” della collina di Castenedolo, centocinquantadue metri sopra il livello della pianura Padana che l'inviato del Corriere della Sera del 28 settembre 2002 non credo abbia osservato con attenzione quando l'ha definita tale, nelle giornate di cielo terso si intravede Brescia. Ma bisogna sforzarsi.
Di mezzo ci sono una delle tante acciaierie che impestano la Provincia di “vapore acqueo”, come da cartelli cubitali che rassicurano chi le vede fumare dall'autostrada, e un muro di palazzoni brutalisti, detti impropriamente “torri”, che deturpano la visuale peggio di enormi cicatrici di cemento. La sera del 27 Totti ha festeggiato qui il suo ventiseiesimo compleanno con una torta definita, stavolta credo con cognizione di causa, “kitsch”, ma per i giallorossi è un periodo dove non sembra ci sia nulla da stare allegri. Davanti a un pallone di marzapane con il numero 26 tracciato con il cioccolato, il capitano dispensa sorrisi, battute e brindisi in un clima freddino. Con Capello in un angolo, ieratico e musone, a guardare tutti in tralice.

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Al suo quarto anno a Roma, il Conducator di Pieris sembra avercela un po' con tutti dopo che in estate Sensi gli ha promesso Davids ma gli ha preso a zero il solo Guardiola – e Sartor, Bombardini e Dellas – che come lui non riesce ad accodarsi al clima se non sereno quantomeno più disteso del solito.
Dopo il mercoledì di Champions, e uno 0-0 deludente ad Atene con l'Aek condito manco a dirlo da una lite con Cassano, la Roma si è ritirata all'Hotel Majestic di Castenedolo in vista della sfida di campionato con il Brescia ma il compleanno di Totti non è bastato a mettere a tacere le polemiche.
Il Majestic – che di maestose ha solo le dimensioni – a distanza di oltre vent'anni troneggia ancora, impacciato e grossolano, su campi di mais velati di foschia umida. A guardarlo oggi, che non è più fruito a weekend alternati dalle squadre di calcio in visita, sembra solo l'ennesimo esempio di consumo barbaro del territorio nella Provincia più grande d'Italia, ma all'epoca doveva essere confortevole se i suoi spazi vagamente sovietici erano riusciti a spingere Guardiola a mettere da parte le dichiarazioni di circostanza e la diplomazia per rilasciare un'intervista malinconica e venata di polemica.
Alle porte della città che l'anno prima l'ha cooptato nel caos del campionato italiano – tra squadre in fallimento, passaportopoli e casi doping – Pep confessa le sue frustrazioni al Giornale di Brescia: «Ho scelto Roma per nostalgia della Champions League. Se avessi pensato di andare in panchina, sarei rimasto a Brescia. Se chiudo gli occhi mi immagino tra Appiah e Matuzalem». E poi su Mazzone: «Lui è un vero maestro, non certo un difensivista» con frecciatina subliminale a don Fabio.
Al suo arrivo nel ritiro di Kapfenberg, in Austria, sembra che la nuova Roma debba passare per forza di cose dai suoi piedi, come vertice basso di un “pentagono” di centrocampo con Emerson di fianco e Davids dall'altro lato. Sensi, però, non vuole scendere a patti con la Juve per il cartellino del pitbull olandese e Capello se la lega al dito, sfogando la sua frustrazione infliggendo panchine al povero Pep. Che non si astiene mai dal dire la sua: «Roma? Un bel posto per vivere, ma non pensavo fosse così difficile per giocare a calcio».
Da leader riconosciuto del gruppo, che un po' a tutti “pare Falcao” e che dovrebbe aiutare Capello a “ridisegnare la fisionomia della squadra”, Guardiola finisce per diventare un sopportato. La coesistenza con Emerson, che ad agosto i giornali continuano a definire “felicissima” e “facilissima” con sospetta insistenza, è più difficile del previsto. Con l'arrivo dei primi impegni ufficiali il tecnico gli preferisce Lima e Tommasi, ma pure mezzi impresentabili come il serbo Tomic e l'uruguaiano Guigou. Pep guarda, si trattiene e perde la pazienza.
In vista della sfida da ex al Brescia, Guardiola sembra finalmente il candidato forte a una maglia da titolare – Emerson è alle prese con un infortunio – ma ancora una volta viene lasciato da parte.
La Roma vince 3-2 la sua prima gara stagionale, dopo tre sconfitte e un pareggio, e Totti non smette di brindare nemmeno al Rigamonti, segnando la prima tripletta in serie A nello stadio del suo esordio. Guardiola, subentrato al 53' a Tommasi, sfodera invece una prestazione scialba, di quelle che due mesi dopo – con la squadra ormai in crisi nera dopo un 0-3 a Parma – spingeranno il pagellista a scrivere: «Gioca su una mattonella, a ritmo da lento in discoteca. E, proprio come in discoteca, la luce non si accende mai».
A gennaio il suo desiderio di piazzarsi tra Appiah e Matuzalem viene assecondato con sollievo reciproco. Capello, in cambio, si accontenta addirittura di Dacourt, preferendo l'ennesimo mediano al fosforo catalano.
A metà ottobre, a Che tempo che fa, Guardiola ha descritto la sua esperienza bresciana come una gemma luccicante nel mezzo di una carriera lastricata d'oro, forse perché Mazzone era decisamente meno stressante di Johan Cruijff e Louis van Gaal, ma anche la sua prima stagione italiana, come i mesi romani, è stata una via crucis.
Appena arrivato in città, si accomoda al Rigamonti di fianco di Gino Corioni – che a ripensarci definisce ancora con i lucciconi agli occhi “il mio presidente” – e, quando la sua nuova squadra riesce a recuperare da 0-3 a 3-3 il derby con l'Atalanta, assiste alla corsa pazza di Mazzone sotto al curva dei tifosi avversari: «È quello lì il mio allenatore?» domanda con una punta di perplessità vedendolo strillare con il pugno chiuso rivolto a mimare un cazzottone verso i bergamaschi.
In catalano Guardiola significa “salvadanaio” e nei piani di Corioni passargli palla dovrebbe essere per i compagni come metterla in banca, ma Mazzone, messa da parte la foga, ha obiettivi diversi. Quando il futuro tecnico del City gli va incontro sul campo d'allenamento di Coccaglio per stringergli la mano lui lo accoglie senza soffermarsi troppo sulle sfumature: «Aho, nun te volevo qui»».
Nei piani del tecnico il regista è Federico Giunti – che anche se si volesse imputare a Guardiola tutta la lentezza del mondo, dal punto di vista del dinamismo non è certo un maratoneta– ma presto il “sor Magara” tiene fede al suo soprannome e fa più di un pensierino sul catalano. “Magara, magara, magara lo metto titolare già alla prima partita utile”. Tolto Baggio, a Brescia uno così non capitava dai tempi di Gheorghe Hagi.
Come spiegava dal suo manager, Josè Maria Orobitg, Guardiola: «Non salta di testa, non ha forza fisica e non è particolarmente efficace come interditore. Nel dettare i tempi e il ritmo del gioco, però, è il migliore del mondo».
Sessantasette minuti anonimi in un 2-2 con il Chievo, settantadue in un 1-0 a Piacenza dove è tra i migliori, uno in più nel 3-2 contro il Venezia, la sconfitta 5-0 del 4 novembre 2001 contro la Lazio e altri settantanove in un 1-1 con il Perugia sono tutto ciò che fa per il Brescia nei suoi primi mesi. Con Mazzone sempre in tribuna dopo la squalifica seguita al derby. Poi la stagione e forse la carriera del quasi trentunenne Guardiola sembra arrivata al capolinea.
I test antidoping dopo la gara di Piacenza, replicati al termine della gara romana – città che nei primissimi del Duemila non gli porta troppo fortuna e dove da giocatore giallorosso gli daranno del “turista” – lo hanno trovato positivo al nandrolone e l'eventualità di una lunga squalifica gli fa ponderare il ritiro. Nel maggio 2005 il Tribunale Penale di Brescia gli infliggerà addirittura sette mesi di reclusione, con pena sospesa, novemila euro di multa e il pagamento delle spese processuali, ma Guardiola si proclamerà sempre innocente.
Nel 2001, invece, il CAF gli impone appena quattro mesi di stop, consentendogli di rientrare per le ultime gare di campionato.
Nella prima partita senza di lui, il Brescia vince grazie a un gol di Giunti, come a dimostrare quanto Mazzone ci avesse visto lungo, ma poi sprofonda in classifica fino al quartultimo posto.
Cosa facesse Guardiola in quei quattro mesi lontano dal campo è difficile saperlo con precisione, il suo romanzo bresciano ha toni sempre picareschi e difetta un po' di precisione storica, ma con grande senso di responsabilità decide di autosospendersi lo stipendio, guadagnandosi la stima di tutto l'ambiente e, soprattutto, del “suo presidente”.
«Desidero precisare che non sono venuto qui per conquistare un posto per il Mondiale: voglio diventare importante per il Brescia» aveva dichiarato al suo arrivo, quando tutti gli chiedevano se come Baggio sognasse una convocazione in Corea e Giappone, ma quando rientra in campo a fine marzo, di nuovo contro il Perugia, sembra che per lui possano esserci ancora delle chance.
Un Brescia in ripresa, ma privo di Baggio infortunato, regola 3-0 in casa gli umbri, che in quel momento lottano per un posto Uefa, e Guardiola – promosso capitano – detta i tempi della squadra come se in quei mesi di riposo forzato fosse penetrato nell'anima di tutti i suoi compagni di squadra e del gioco di Mazzone.
La settimana dopo, a Udine, il Brescia perde e Guardiola è croce e delizia perché procura la punizione dal limite da cui nasce il primo gol di tale Marcos Paulo e segna al novantesimo l'inutile 2-3 finale. Mazzone, sempre quartultimo nonostante il ritorno di almeno uno dei suoi due campioni, non può smettere di vivere quella stagione con il volto contratto dalla gastrite che sfoggia entrando in campo a inizio partita nel servizio di Novantesimo minuto.
Nelle successive tre il Brescia pareggia in casa 0-0 con il Verona, perde di misura a Milano con l'Inter e distrugge 3-0 la Fiorentina nella gara in cui Baggio, appena recuperato, subentra al settantesimo dopo due mesi e segna due gol. Tutta Italia, Totti escluso poiché sostiene che in Corea e Giappone sarebbe solo “il ventitreesimo”, sogna che possa strappare a Trapattoni la convocazione al Mondiale.
A due giornate dalla fine, il Brescia si gioca la salvezza con Udinese, Parma, Verona e Piacenza, ma alla penultima contro la Juventus Guardiola si infortuna e dice addio alle poche speranze residue di essere convocato al Mondiale, così come di aiutare la squadra a evitare una retrocessione che lo 0-5 di Torino ha posticipato ancora.
Al Rigamonti arriva il Bologna e la città è in fermento: perdere significherebbe non solo serie B, ma anche dover rinunciare a Mazzone e ai campioni Baggio, Guardiola e Toni, che danno lustro al progetto. Come sostiene la scrittrice locale Maria Venturi in un'intervista al Corriere: «La vittoria della squadra è associata al prestigio della città». E per il vanto di tutta Brescia, le rondinelle vincono 3-0 e si salvano. Restano tutti tranne Guardiola.
L'equivalente locale del “milanese imbruttito” è il “bresciano malmostoso”, che con sguardo di biasimo ti osserva impigrirti dall'alto del suo essere tanto indispensabile sul posto di lavoro, tanto da non avere un minuto per fare, parlare o pensare ad altro. Guardiola, che vive di calcio con tutto il suo essere e che all'epoca già studiava in vista della futura carriera da allenatore, deve aver trovato molto familiare quella magnifica ossessione. Non importa verso cosa, purché sia totalizzante.
La chiamata della Champions lo attira a Roma, a sua volta attirata dal suo ingaggio a zero euro in virtù di un contratto di un solo anno firmato con il suo presidente, ma poi le panchine e l'incomprensione assoluta con il “difensivista” Capello lo trascinano di nuovo in Lombardia. E, nella sua seconda esperienza, Guardiola vive davvero nella bolla gioiosa raccontata a Fabio Fazio nella sua prima intervista uno a uno da oltre dieci anni.
Pep fa il suo esordio tris il 1° febbraio 2003 a Piacenza, la sua nuova ex squadra vince 4-1 e in mezzo a due corridori come Appiah e Matuzalem dimostra che uno con la sua classe è un lusso che poche squadre di seconda fascia possono permettersi. Anzi, proprio nessuna.
Con lui il Brescia, che già stava facendo cose egregie, prosegue imbattuto fino ad aprile inoltrato, quando viene fermato in casa dall'Inter in piena lotta per lo Scudetto, togliendosi la soddisfazione di fermare 0-0 la Roma all'Olimpico e di vincere il derby con l'Atalanta in casa dopo dieci anni.
Nella sfida avvelenata ai giallorossi, Guardiola è ancora in rodaggio ma di fronte a lui Dacourt non risplende di luce propria, mentre nella sentitissima sfida all'Atalanta, un anno e mezzo dopo la corsa di Mazzone, è a dir poco luciferino – inteso come portatore di luce – in coppia con un Baggio in versione “miracolo italiano”.
Il 6 aprile 2003, nel primo tempo, il codino fa assist ad Appiah per il primo gol e segna il 2-0 con un pallonetto dal limite che fa ripetere “poesia, poesia, poesia, poesia” quattro volte al cronista di Radio Bresciasette. Nella ripresa, su azione d'angolo duetta in punta di forchetta con Guardiola, scambiandosi la palla con un doppio uno-due delicato come una mousse, e poi serve al centro Petruzzi che scarica in rete con tutta la prepotenza del difensore centrale che si lancia all'attacco con l'obiettivo di non fare prigionieri. Dopo la partita con l'Atalanta, il Brescia è l'unica imbattuta nel 2003 ed è in un filotto di quindici partite utili con solo cinque gol subiti.
È il momento più alto dell'esperienza del Guardiola bresciano, uno che si è calato nella nuova realtà con tutta l'umiltà di chi resta in campo ad allenamento concluso per provare i cross sulla testa di Toni e che ancora oggi passa volentieri in città, come accaduto a giugno e dopo l'intervista da Fazio, per una cena con De Zerbi o per riunirsi a Baggio e all'ex centravanti azzurro a scambiare battute.
In una delle province più operose d'Italia – pure troppo secondo chi scrive – uno con la sua dedizione viene sempre guardato con simpatia.