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Paolo Demuru
Pelé, Maradona e la creatività umana
30 dic 2022
30 dic 2022
Cosa può dirci il calcio sulla creatività umana.
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Paolo Demuru
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Quando alle 17.45 circa del 17 giugno 1970 recupera palla sulla linea di fondo della propria metà campo, Everaldo non sa ancora le pieghe che la sfera avrebbe preso da lì a pochi secondi. Non lo può neanche immaginare, perché nel calcio l’inimmaginabile è compito e privilegio di pochi, e in quel Brasile fare il visionario non spetta certo a lui. In quel pomeriggio messicano, in quella semifinale mondiale già vinta contro l’Uruguay, Everaldo Marques da Silva, terzino sinistro del Gremio di Porto Alegre, ha una sola cosa da fare: rubare quel pallone e scaraventarlo ciecamente in avanti, sulla fascia, poco oltre Jairzinho, perché il corso dell’imprevedibile, allo stadio Jalisco di Guadalajara, possa finalmente iniziare.

 



 

Tutto comincia lì, con quel rinvio di Everaldo. Siamo in pieno recupero. Rivelino ha appena segnato il gol del 3-1, spedendo il Brasile in finale e gli uruguagi a Montevideo.

 

Non potendo salvare il risultato, la Celeste prova se non altro a salvare la faccia. Si lancia subito in attacco. Tre-quattro passaggi e Luiz Cubilla si ritrova al limite destro dell’area brasiliana: cross al centro, respinta di Everaldo e palla che si avvia lentamente verso il calcio d’angolo.

 

Everaldo, che è giocatore concreto e alla concretezza deve il posto da titolare nel Brasile, si dice, più forte di sempre, non ha dubbi sul da farsi: quando il traversone di Cubilla gli si schianta sulle gambe non ci pensa due volte: corre incontro al pallone, si gira e calcia più forte che può.

 

A metà campo, Jairzinho vede il sinistro del compagno cadere un po’ troppo in là. Ci arriva prima Ubinas, capitano dell’Uruguay, ma Jairzinho lo assale, e prima che l’altro possa capirci qualcosa gliel’ha già rubata.

 

A quel punto Jairzinho potrebbe anche fermarsi, aspettare, giocare con il cronometro. Lui però non è terzino, non è lì per difendere l’area e della concretezza se n’è sempre infischiato. Figuriamoci ora che gioca contro l’Uruguay. L’Urugauy che vent’anni prima scippò al Brasile il suo primo titolo mondiale, 2-1 al Maracanã, nella sua Rio de Janeiro. Di fare melina e aspettare il fischio finale non gli passa per la testa. Esita, finta un dribbling sulla sinistra, passa a Tostão, leggermente più accentrato, e corre in avanti come se fosse lui sotto di due gol a un minuto dalla fine.

 

Tostão ha spazio, avanza qualche metro sulla trequarti avversaria. Si guarda attorno, segue la discesa di Jairzinho lungo la linea laterale, ma è un bluff, perché ha già deciso che il pallone lo infilerà dalla parte opposta, verso il centro dell’area, dove dalla destra, tra un secondo o due, convergerà Pelé.

 

Il passaggio è millimetrico. Un diagonale filtrante che più preciso sarebbe impossibile. Mazurkievicz, portiere uruguagio di origini polacche, lo capisce subito. Capisce anche che Pelé ci arriverà un attimo prima di lui, lì sulla lunetta dell’area di rigore, e che ha un’unica chance di non subire il quarto gol: sperare che Pelé calci subito in porta e provare a intercettare il tiro con il corpo, con il braccio, con qualsiasi cosa. Ma è troppo banale. Più probabile che Pelé, con il nome e la classe che si ritrova, segua la sua corsa, tocchi piano il pallone e lo scarti sulla sinistra. È quello che ha visto Tostão. È quello che si aspettano di vedere i 51.000 spettatori del Jalisco. È quello che, ancora oggi, ci aspettiamo di vedere noi tutte le volte che carichiamo il video di quell’azione su YouTube.

 

E invece no. Pelé non fa né l’una né l’altra cosa. Fa quello che nessuno si aspetta, forse nemmeno lui: lascia che il passaggio di Tostão prosegua lungo la propria traiettoria, continua a correre verso il centro dell’area in direzione contraria al pallone, supera Mazurkievicz sulla sinistra, frena, cambia traiettoria e infine, disegnando una specie di elastico, vola a prenderselo sulla destra.

 

Indirizzare la palla da un lato e aggirare l’avversario dall’altro: in Brasile lo chiamano il drible da vaca, letteralmente, il “dribbling della vacca”. Pare che l’espressione alluda al movimento utilizzato dai primi calciatori tropicali per scartare le bestie che molto spesso invadevano i terreni di gioco improvvisati nelle piane pluviali, a inizio novecento, quando il calcio giunse in Sudamerica. O almeno questo dice la leggenda.

 

Pelé fa più o meno lo stesso. Più o meno, e in mezzo c’è un abisso. Perché se in un normale dribbling della vacca è il giocatore con la palla tra i piedi a decidere dove mandarla, a calibrarne l’intensità, a stabilirne la traiettoria per definire poi l’angolo, i tempi e la velocità giuste per superare il difensore dalla parte opposta, in questo caso le cose non stanno esattamente così.

 

Pelé tutti questi calcoli deve farli – li fa – sul passaggio di Tostão. Sul pallone servitogli da un altro, pensato e programmato perché lui lo tocchi lì, subito, di fronte a Mazurkievicz, e non dopo, alle sue spalle. È il dettaglio che fa del gesto di Pelé un gesto doppiamente imprevedibile. E se, come non si stancavano di ripetere lo storico dell’arte Aby Warburg e l’architetto Mies Van der Rohe, “Dio è nel dettaglio”, un gesto in qualche misura “divino”, talmente semplice e perfetto da sembrare “ultraterreno”, “sovrannaturale”. O, più semplicemente, un gesto “geniale”, fuori dalla normale comprensione e immaginazione umana. Dall’immaginazione di Mazurkievicz, Tostão e Jairzinho. Dall’immaginazione di Everaldo, che è ancora lì, nella propria metà campo, a chiedersi che fine ha fatto il suo rinvio.

 

Quando Mazurkievicz si gira cercando invano il pallone, Pelé sta già invertendo la rotta per correre nuovamente ad acciuffarlo. Ci arriva, sul pallone, poco sopra l’angolo destro dell’area piccola. Indietreggia qualche centimetro, ruota leggermente il corpo e calcia incrociato sul palo più lontano. La porta è vuota. Ancheta, centrale uruguagio, si lancia in un tentativo disperato di recupero, ma sbaglia i tempi e anticipa di poco il tiro. La palla gli passa dietro, non lontano dai talloni. Da lì in poi, tra lei e la rete, non ci sono più ostacoli.

 




 

***


Dice Murilo Filho, personaggio del romanzo “O drible”, “Il dribbling”, di Sergio Rodrigues, che con quella giocata Pelé ha voluto sfidare Dio. Per questo la palla è uscita, perché se fosse entrata “l’umanità non avrebbe più dormito tranquilla”. Quel gol che Pelé non ha fatto, quel “lampo di eternità caduto alla sinistra delle postazioni radio del Jalisco” – continua – “non è solo il momento più alto della storia di Pelé, è il momento più alto della storia del calcio”.

 

Come il gesto di Pelé, anche il racconto di Rodrigues ha a che vedere con il tema di questo libro: la creatività umana. Tuttavia, se il primo riguarda il qui ed ora dell’atto di creazione, l’istante esatto in cui l’imprevedibile si realizza e si manifesta, il secondo concerne, per così dire, una creatività di secondo grado: quella della memoria, della vocazione ancor più umana a raccontare storie, a rivivere l’evento e a renderlo immortale.

 

Sia chiaro: il vincolo tra i due è strettissimo. Non c’è evento senza racconto dell’evento, così come non c’è creazione senza racconto della creazione. Lo abbiamo visto con Maradona, lo vedremo anche con Pelé. Non ancora però. Prima facciamo un salto indietro al 2 agosto 1959, a San Paolo, alla Rua Javari, allo stadio Conde Rodolfo Crespi, dove Pelé, dicono tutti e dice anche lui, ha fatto – questa volta sì – il gol più bello della sua carriera.

 



Allo stadio Conde Rodolfo Crespi gioca la Juventus di San Paolo. Due sono le ragioni per cui la Juventus brasiliana è conosciuta: (1) si chiama Juventus e gioca in maglia granata (per volere, si narra, del Conte Crespi, fondatore del club, ammiratore della città di Torino e incurante, si presume, delle rivalità calcistiche d’oltreoceano); (2) è la squadra a cui Pelé ha rifilato il suo gol più bello. Un gol talmente bello che la stessa vittima ha deciso, nell’agosto del 2006, di rendergli omaggio collocando un busto di Pelé all’entrata del Crespi. Poco sotto la statua, una placca di bronzo reca incise le seguenti parole:

 

«Omaggio a Edson Arentes de Nascimento, il Re Pelé, atleta del XX secolo che, nella sua gloriosa carriera di calciatore, segnò il gol più bello della sua carriera nella partita Juventus-Santos, presso lo Stadio Conde Rodolfo Crespi, nella Rua Javari, il 2 agosto 1959».

 

Ma è davvero così bello questo gol? Che cosa ha di speciale rispetto ai tanti altri gol di Pelé considerati “belli”? Rispetto, per esempio, a quello contro la Portuguesa nel campionato brasiliano del 1973, stop di petto e sinistro di prima intenzione a bucare la rete, o a quello contro l’Italia nella finale della Coppa del 1970, cross di Rivelino, stacco in diagonale sulle spalle di Burgnich, colpo di testa e palla che si infila in fondo all’angolo destro, alle spalle di Albertosi? Insomma: com’è e come lo ha fatto, Pelé, questo gol? E perché tutti, compreso lui, lo ritengono il migliore?

 

***


 

È il 41esimo del secondo tempo. Il Santos conduce sulla Juventus per tre gol a zero, primo e secondo di Pelé, terzo di Dorval.

 

Non soddisfatto, Dorval si invola sulla fascia destra. Macina una decina di metri e crossa verso Pelé, in posizione centrale, al limite dell’area di rigore, seguito da Julinho. Spalle alla porta, Julinho incollato alla schiena, Pelé decide di sbarazzarsi dell’avversario e puntare lo specchio nel modo più rapido, efficace e difficile possibile per chi si trova in una situazione come quella in cui si trova lui al 41esimo del secondo tempo di Juventus-Santos, Stadio Conde Rodolfo Crespi, Rua Javari, San Paolo, Brasile, spalle alla porta e Julinho incollato alla schiena: aspetta che il pallone gli arrivi sui piedi e invece di fermarlo, valutare la situazione, capire cosa fare, lo tocca di prima verso l’alto e all’indietro, a scavalcare il difensore. Detto altrimenti, Pelé si libera di Julinho con quel dribbling che nel gergo calcistico prende il nome di “sombrero”, un tocco, ovvero, che fa disegnare al pallone una parabola dalla forma simile a quella dell’omonimo cappello messicano.

 

Ignaro di quanto appena accaduto, Julinho continua a correre verso il centrocampo. La palla gli vola sopra la testa, tocca terra e rimbalza un attimo dopo all’altezza del torace di Pelé, che nel frattempo si è girato, posizionando il proprio corpo dinanzi alla porta. In area, a impedire le traiettorie di tiro, ci sono ancora due giocatori juventini: Homero e Clóvis, che gli si lanciano immediatamente addosso. Calciare subito non servirebbe a nulla. Nella migliore delle ipotesi ne ricaverebbe un calcio d’angolo. Che fare allora? Che cosa inventarsi per realizzare il gol più bello?

 

C’è bellezza nell’unico e irripetibile e c’è bellezza nell’unico che si ripete, nel gesto o nella forma inattesa che torna nuovamente a presentarsi. Il terzo gol di Pelé alla Juventus, il quarto del Santos in quel 2 agosto 1959, rientra di diritto in questa seconda categoria.

 

Dopo essere rimbalzato sull’erba, il pallone si accinge a toccare un’altra volta il suolo. Non lo tocca, però, il suolo. E non lo toccherà più per i prossimi quattro-cinque secondi, il tempo che Pelé impiegherà a infilarlo alle spalle di Mão de Onça, “Man di giaguaro”, all’anagrafe Durval de Moraes, 28 anni compiuti da due mesi, portiere della Juventus granata di San Paolo.

 

L’azione del gol più bello prosegue come era iniziata: con un sombrero. E poi con un altro sombrero. E poi con un altro ancora. In tutto sono tre. Tre sombrero, tre giocatori beffati e palla in rete. Tocchi totali del pallone: cinque. Parti del corpo utilizzate da Pelé per toccare il pallone: tre.

 

Primo tocco, piede destro: sombrero a Homero.
Secondo tocco, piede destro: sombrero a Clóvis.
Terzo tocco, ginocchio destro: palleggio a portare avanti la sfera.
Quarto tocco, piede destro: sombrero a Man di Giaguaro.
Quinto tocco, testa: gol.

 

Tutto al volo. Tutto senza che la palla tocchi più l’erba. Tutto come in un loop da cui una volta entrati non si riesce più a uscire. Una sequenza ipnotica, un’onda, una serie di onde che toglie il fiato, un’apnea, più breve di quella di Maradona nell’86, ma comunque un’apnea. Un’apnea di parabole.

 

Un’apnea di parabole che, poco alla volta, si è fatta mito. Per la bellezza imprevista e imprevedibile del gesto, perché lo stesso Pelé lo ha assurto a gol più bello della sua carriera, ma anche, e soprattutto, perché quel gol non è stato filmato. Non lo ha ripreso nessuna telecamera. Lo hanno visto soltanto i 5000 spettatori del Crespi. Per quasi mezzo secolo, almeno, finché non è stato ricostruito digitalmente, finché l’immagine in movimento non ne ha riscritto le sorti e reinventato la memoria. Ma questa, vedremo, è tutta un’altra storia.

 

 

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