
Quelle appena trascorse sono state settimane di déjà-vu per il pubblico interista. Un'annata che rischia di rimanere nella storia, le aspirazioni di triplete e poi le semifinali di Champions League contro il Barcellona: era impossibile non ripensare alla stagione 2009/10 in uno scenario del genere. I piani temporali si sono sovrapposti in maniera così naturale che alla fine anche Pedro Rodríguez, ai tifosi dell’Inter, dev’essere sembrato quello di 15 anni fa.
In effetti, il tempo è un concetto relativo per l’ala spagnola, che a 38 anni, con la doppietta di domenica ai nerazzurri, ha raggiunto i 14 gol stagionali, 10 in Serie A (quarto miglior score di sempre in campionato dopo la stagione 2009/10, la 2010/11 e la 2013/14, dove però a innescarlo c’erano Messi e Xavi: il che avrà comportato qualche vantaggio in termini di occasioni…).
L’Inter è la quinta squadra alla quale Pedro, nella sua lunghissima carriera, ha segnato più gol: 5. La prima volta che aveva affrontato i nerazzurri, in quel 2009/10 tornato tanto attuale, appunto, aveva messo il timbro nella vittoria per 2-0 della fase a gironi di Champions: un piatto sinistro al volo su cross di Dani Alves. La rete più importante, però, era arrivata qualche mese dopo, nella semifinale d’andata: Pedro si era fatto trovare pronto al limite dell’area e aveva trasformato in gol una discesa sulla sinistra di Maxwell. La rete del momentaneo 0-1 aveva illuso il Barcellona, in quella che probabilmente rimane la notte più bella dell’Inter di Mourinho, che alla fine avrebbe vinto 3-1 in rimonta.
Ha vissuto tante vite calcistiche, Pedro, nel frattempo: negli anni ha svelato volti sempre nuovi del suo gioco, e ha finito per adattarsi agli allenatori più disparati. Quello che nel Barcellona sembrava essere uno specialista per determinate situazioni, alla fine si è dimostrato giocatore eclettico, un campione la cui sapienza e il cui talento vanno a braccetto, e gli consentono di essere decisivo ancora oggi, alla soglia dei quarant’anni.
Basterebbe elencarne i traguardi, per dare una dimensione della sua grandezza: Pedro è l’unico giocatore della storia ad aver vinto tutti i trofei di primo livello con club e Nazionale. E se non bastasse, lo ha sempre fatto con una certa clutchness (cioè l'abilità di performare nei momenti più importanti), visto che tra le altre cose ha segnato nelle finali di Champions, Europa League, Mondiale per club e Supercoppa europea.
Eppure Pedro non sembrava essere nemmeno uno dei prodotti pregiati della Masia. Il suo esordio in prima squadra era arrivato piuttosto tardi, soprattutto per gli standard del Barcellona: a 20 anni e 6 mesi, in una partita di gennaio 2008 vinta 4-0 contro il Murcia. Pedro aveva sostituito Eto’o all’88’. Indossava la maglia col numero 33, sormontato dal nome “Pedrito”, utilizzato all’epoca per non confonderlo con un altro giocatore dalla cantera, tale Pedro García, legittimo detentore della maglia col nome “Pedro” poiché arrivato nelle giovanili del Barcellona qualche mese prima del canario.
Ci sarebbe voluto ancora un po’ per lui prima di diventare un titolare e affermarsi come l’unico Pedro che avremmo imparato a conoscere. Era il 2009/10, secondo anno di Guardiola alla guida del Barça. Nella stagione precedente Pedro si era sdoppiato tra prima e seconda squadra e tutt’al più sembrava poter essere un buon gregario, utile per allungare la rosa e dare respiro ai titolari. Erano altri i nomi su cui puntare per il Barcellona, Bojan su tutti. Pedro, però, in quella rosa di fenomeni aveva caratteristiche peculiari, utilissime per Guardiola. Così, complici il declino di Thierry Henry e l’incompatibilità di Ibrahimović con Pep e la cultura culé, Pedro pian piano era diventato titolare.
Si trattava già di un giocatore dalle qualità tecniche eccellenti, ma il suo talento con la palla, ovviamente, passava in secondo piano rispetto ai fenomeni che gli stavano vicino. E così il Pedro del Barcellona di Guardiola lo ricordiamo soprattutto come una straordinaria arma tattica, la punta di lancia dei filtranti visionari di Messi, Xavi e Iniesta: impossibile difendere contemporaneamente i movimenti di Messi da falso 9, il possesso magnetico dei centrocampisti e i tagli in profondità di Pedro, che squarciavano le difese all’improvviso.
Pedro sembrava quasi più utile senza palla, perché tanto a gestirla vi erano già alcuni dei migliori giocatori della storia. E così, a testimonianza delle sue funzioni in quella squadra e di quanto fosse enigmatico affrontare il Barcellona di Guardiola al suo picco, ci rimane la telecronaca della TV spagnola della finale di Wembley del 2011, quella vinta per 3-1 contro lo United di Ferguson, dove, mentre tutti guardavano la palla, la seconda voce, Juanma Lillo, sottolineava come la posizione aperta di Pedro stesse liberando spazio al centro per Messi e soci, rendendo il campo troppo grande da difendere per gli avversari del Barcellona: «Pedro senza toccarla si sta rendendo più utile di quelli che sembrano fare di più».
In realtà Pedro era tanto altro, non solo l’intelligenza tattica e i movimenti. Era un giocatore tecnicamente all’altezza dei suoi compagni, straordinario sì con i tagli e la finalizzazione, ma anche tra le linee, dove stringeva per lasciare la fascia a Dani Alves. Se ne sarebbe accorto presto Del Bosque che, senza mai averlo convocato prima, lo avrebbe inserito in extremis nella lista per i Mondiali in Sudafrica: la sua semifinale contro la Germania fu un tripudio di ricezioni tra le linee, un incubo per difensori e centrocampisti tedeschi, che non capivano mai come uscire su di lui.
Dotato di un primo controllo eccellente e di un dribbling sgusciante nello stretto, Pedro sapeva dove posizionarsi alle spalle dei mediani e, una volta ricevuto, risultava spesso imprendibile. Quelle stesse caratteristiche sarebbero state perfette nel 3-4-3 di Antonio Conte al Chelsea, dove si era trasferito nell’estate del 2015 perché stanco di essere considerato un comprimario nel Barcellona, che nel frattempo era diventato la squadra della MSN. Al primo anno con Conte in panchina i “blues” avrebbero dominato la Premier League e Pedro sul centro destra sarebbe stato uno dei giocatori più importanti, ben più di Willian, che per talento avrebbe potuto contendergli il posto ma che non aveva la sua intelligenza posizionale né la sua qualità nel primo controllo.
Ancor più rilevante sarebbe stato il suo ruolo nell’anno di Sarri, che già dai suoi primi mesi a Londra sembrava un allenatore perfetto per Pedro. Quel Chelsea avrebbe chiuso col terzo posto in Premier e con un’Europa League in bacheca al culmine di un’annata dal rendimento altalenante, dove per Sarri però Pedro era rimasto una certezza. Talmente tanto che, due anni più tardi, non avrebbe esitato a portarlo con sé alla Lazio, spingendo Lotito a puntare su un giocatore che arrivava direttamente dalla Roma.
Pedro è diventato uno dei beniamini del tifo biancoceleste, e se le prime due stagioni erano state positive, anche in rapporto all’età che avanza, quella di quest’anno ha superato ogni aspettativa. Il 2024/25 è stata una stagione interlocutoria per la Lazio, che si è trovata ad aprire un nuovo ciclo. Pedro, insieme agli altri senatori, ha dovuto guidare un gruppo del tutto nuovo. Chi pensava che potesse essere più utile nello spogliatoio che in campo, però, si sbagliava.
Col mercato della scorsa estate la Lazio aveva puntato su giocatori dal buon potenziale come Tchaouna, Dele-Bashiru o Noslin. Nessuno di loro, però, è ancora esploso. Quando la squadra ha avuto bisogno, allora, è toccato a Pedro fare un passo in avanti e cambiare la sorte delle partite. Lo spagnolo è partito titolare in sole 6 occasioni in campionato, ma a questo punto della sua carriera è più importante la qualità dei minuti, che non la quantità: «Corro meno, ma ho esperienza: doso le energie. So quando scattare per segnare o restare in posizione: ho sempre avuto quell’istinto che mi guida nel momento giusto», ha detto in un’intervista degli scorsi giorni a L’Équipe.
I gol pesanti e le doti di finalizzazione sono da sempre prerogative di Pedro, che infatti in Serie A, tra i giocatori offensivi (punte, seconde punte, ali, trequartisti) con almeno 1200’, è secondo per percentuale di conversione: il 27% dei suoi tiri diventa un gol, meglio ha fatto solo Assane Diao col 29% (dati Hudl Statsbomb). Il fiuto di Pedro nell’ultimo terzo di campo somiglia più a quello degli attaccanti che delle ali, da sempre: il taglio sul filo del fuorigioco tra centrale e terzino con cui è arrivato al gol contro l’Empoli lo scorso ottobre, è esattamente lo stesso movimento con cui aveva segnato in casa del Real Madrid nello scontro decisivo per la Liga 2009/10 e al Manchester United nella finale di Champions League del 2011.
Come all’epoca del Barcellona, però, i gol sono solo la superficie dorata del suo contributo, prezioso anche in altri aspetti del gioco. Pedro è solito entrare a partita in corso come ala destra ma anche come seconda punta o trequartista. A prescindere dalla posizione, però, può prendere dove desidera. La libertà di sfilarsi dal traffico e abbassarsi a ricevere l’ha scoperta con Sarri al Chelsea e nella Lazio è stata una costante. A maggior ragione oggi, in una squadra spesso frenetica dove la sua sapienza occorre più che mai.
Pedro può ricevere in fascia, oppure abbassarsi a lato di Guendouzi se necessario, decidendo in prima persona dove si svilupperà l’azione. Se i compagni tagliano, è in grado di servirli con un filtrante. Altrimenti porta palla e combina, in attesa di ulteriori sviluppi. Se poi arriva vicino all’area, la tecnica, beh, quella non ha età. La capacità di girarsi col primo controllo è rimasta intatta, così come i dribbling stretti: tra quelli con almeno 1200', Pedro è il quinto giocatore offensivo della Serie A con meno turnovers (1,86 ogni 90'), cioè palloni persi per un dribbling o un controllo sbagliato. Anche a 38 anni, quindi, togliere la palla a Pedro rimane parecchio difficile: provate a chiedere a Timothy Weah, più volte maltrattato dallo spagnolo sulla fascia durante l'ultimo Lazio-Juventus.
D’altra parte, parliamo pur sempre di un talento delle Isole Canarie, i cui prodotti sembrano sempre benedetti da un virtuosismo diverso da tutto il resto: Pedri oggi ne è il massimo esponente, così come lo era David Silva in passato, e anche in Serie A con Nico Paz ne abbiamo un esempio; senza dimenticare eroi minori come il "mago de la Feria" Jonathan Viera, o Roque Mesa.
Pedro ha ricevuto la formazione della Masia, ma ha mantenuto il loro stesso amore per la palla, che aveva iniziato a scoprire a casa sua, ad Abades, villaggio inizialmente nato come ricovero per i lebbrosi, visto che nella prima metà dello scorso secolo la lebbra era parecchio diffusa a Tenerife. È lì che Pedro ha seminato i germogli del campione che sarebbe stato, non solo sviluppando la sua qualità tecnica ma, ad esempio, migliorando il piede debole grazie al battimuro: ancora oggi è quasi impossibile dire quale sia il piede forte di Pedro, che può portare palla, dribblare e calciare indipendentemente col destro e col sinistro.
A poco sarebbe valso il talento, però, se non ci fosse stata una determinazione fuori del comune ad animarlo. La stessa determinazione che gli ha permesso di superare, poco più che bambino, i primi mesi di adattamento in una città come Barcellona e poi, da grande, di diventare sempre decisivo quando contava.
Prima che un grande giocatore, Pedro è uno straordinario agonista. Quella determinazione, in lui, è ancora viva, ed è probabile che lo sarà fino al giorno in cui deciderà di smettere: «Questa fiducia nel poter fare la differenza mi sostiene; se dovesse sparire, sarebbe la fine per me».