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Paul George si sta prendendo le sue rivincite
29 giu 2021
29 giu 2021
La gara-5 della stella dei Clippers chiude le discussioni sul suo talento, o almeno si spera.
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Poco prima dell’intervallo di gara-5 tra Phoenix Suns e L.A. Clippers di questa notte, con Marcus Morris in lunetta per due tiri liberi e la prima voce di ESPN Mike Breen che parlava dei suoi guai al ginocchio nelle prime partite della serie, uno degli altri due commentatori della principale rete televisiva americana, l’ex giocatore e allenatore Mark Jackson, se ne è uscito pressoché dal nulla con queste parole: «Sono già stato in situazioni in cui il miglior giocatore della squadra, ad esempio Reggie Miller a Indiana, a volte aveva avuto primi tempi difficili. E toccava a noi andare da lui a dirgli: ‘Andiamo, abbiamo bisogno di te, non possiamo vincere se non sei al tuo livello’. Qualcuno deve andare a parlare con Paul George in questo momento: è troppo esitante, e può costare ai Clippers la partita».

Mike Breen, forse anche perché in disaccordo con quanto appena detto (o forse per “riequilibrare” le sparate dei suoi colleghi di telecronaca, cosa che spesso è chiamato a fare), è quindi passato a snocciolare le cifre del primo tempo di George: 11 punti, 4 rimbalzi, 4 assist, 5 tiri a segno sugli 8 tentati, due palle perse — le uniche del primo tempo pressoché perfetto dei Clippers. Paul George certamente non aveva giocato il migliore dei primi tempi possibili, ma non era nemmeno stato così disastroso o passivo come Jackson sembrava farlo apparire. Aveva segnato due bei canestri in contropiede, si era preso i suoi tiri ma senza togliere spazio a compagni più in ritmo di lui come ad esempio lo stesso Morris (20 punti nel solo primo tempo), aveva attaccato il ferro a ogni occasione possibile per mandare in rotazione gli avversari, contribuendo al 55.6% al tiro di squadra dei primi 24 minuti di gioco chiusi in vantaggio di 10 punti. Stava a tutti effetti “lasciando che la partita venisse a lui”, secondo quella strana definizione che Michael Jordan usava sempre, ammantando di una sorta di misticismo le sue prestazioni tanto leggendarie quanto inevitabili.

Anche all’inizio del quarto periodo, dopo che Paul George aveva segnato 20 punti in un terzo quarto celestiale giocato per intero e sbagliando un solo tiro sugli otto tentati, non appena è andato a riposare all’inizio del quarto quarto con i Clippers avanti di 13 lunghezze, l’altro commentatore Jeff Van Gundy ha detto immediatamente: «Paul George è seduto in panchina. Se io avessi segnato 20 punti in un quarto in una elimination game, avrei pregato in ginocchio Ty Lue per tenermi in campo. Perché hai l’adrenalina a mille che può sostenere la tua resistenza fisica, e se sei uno vero come Paul George devi avere la benzina per giocare tutti i minuti». Anche in questa occasione Breen ha fatto notare che George fino a quel momento aveva giocato 33 dei possibili 36 minuti, che alla fine di gara-4 sembrava essere effettivamente stanco (i Clippers hanno giocato letteralmente una volta ogni due giorni dal 28 di maggio in poi, senza mai avere 72 ore di distanza tra due partite) ed è rimasto in campo per più minuti di chiunque altro in questi playoff, con ampio margine sul resto della lega (735 minuti disputati, quasi 41 a partita, con Devin Booker secondo che supera a malapena i 600).

Il clima tossico ogni volta che si parla di Paul George

Cito le parole di Jackson e Van Gundy non tanto per criticarli, anche perché sono di gran lunga i migliori in circolazione nel loro lavoro, quanto per sottolineare il clima tossico che si è creato attorno a Paul George. Ogni cosa faccia, sembra che nulla vada bene e che tutti non aspettino altro che un suo passo falso per criticarlo: in 18 partite di questa post-season non è mai andato sotto quota 20 punti segnati (unico di questi playoff e record nella storia dei Clippers, che ok sono i Clippers ma comunque mettila lì), eppure non appena il suo livello di gioco scende anche solo di una tacca rispetto all’asticella fissata (dagli altri) a “fenomenale” sembra che sia tutto un disastro e che la sua intera carriera debba essere in discussione, come se da ogni tiro dipendesse come ci ricorderemo di lui negli anni a venire.

Questo intanto possiamo dirlo: un giocatore dei Clippers non aveva mai realizzato una prestazione del genere ai playoff.

Sicuramente c’entra il modo in cui si sono conclusi i playoff nella bolla dello scorso anno, con quel “palo” colpito dall’angolo di gara-7 contro Denver ancora marchiato a fuoco nella memoria di molti così come il suo 4/16 finale al tiro per appena 11 punti. Eppure non ci si ricorda che in gara-6 le aveva provate tutte per far vincere i suoi finendo con 33 punti, così come ne aveva segnati 26 in gara-5, e che anche Kawhi Leonard in gara-7 era stato disastroso tanto quanto George, chiudendo con 14 punti e 6/22 al tiro. Di sicuro c’entra anche essersi auto-soprannominato “Playoff P”, perché nulla fa scattare le persone sui social come gli atleti che si auto-incensano e poi non mantengono quello che promettono. E non è di certo l’unica dichiarazione rivedibile di George in questi anni, tra definire un “brutto tiro” quello di Damian Lillard che lo ha eliminato nel 2019 con la maglia di OKC e rifiutare l’etichetta di “Championship or bust” che lui stesso aveva dato alla scorsa stagione dei Clippers.

Però bisogna anche avere l’onestà intellettuale di riconoscere a George quello che è di George. In questi playoff sta giocando a un livello fenomenale e il fatto che i Clippers siano ancora in vita nella serie contro i Phoenix Suns — al netto delle fiammate di Reggie Jackson, della ritrovata energia di Patrick Beverley, della sempre sottovalutata versatilità di Nicolas Batum, della capacità di stringere i denti di Marcus Morris, dell’esplosione di Terance Mann contro i Jazz (unica partita in cui George non è stato miglior realizzatore dei suoi da quando è uscito Leonard) e delle alchimie tattiche che Tyronn Lue riesce a tirare fuori quando si ritrova spalle al muro — è per grandissima parte merito suo, che con i 41 punti di gara-5 ha firmato il suo nuovo massimo in carriera ai playoff. E lo ha fatto sbagliando solamente cinque tiri in tutta la partita sui 20 tentati, con un perfetto 8/8 ai liberi a cui ha aggiunto anche 13 rimbalzi, 6 assist e 3 recuperi, pur con 6 palle perse in 41 estenuanti minuti sul parquet.

Il tutto in trasferta sul campo di Phoenix dove aveva già lasciato per strada due tiri liberi pesantissimi in gara-2 che avevano aperto la strada al “Valley Oop” di Deandre Ayton (cancellando i due canestri del sorpasso che aveva segnato negli ultimi 30 secondi di gioco) e dove i Suns non perdevano da gara-2 contro i Los Angeles Lakers al primo turno. E il tutto, è bene ricordare, senza poter contare su un due volte MVP delle Finals come Kawhi Leonard. Perché i Clippers stanno giocando senza il loro giocatore di riferimento ormai da sette partite, una situazione che avrebbe azzoppato le speranze di qualsiasi altra squadra già nella serie contro Utah. E invece non solo i Clippers sono andati a vincere a Salt Lake City in gara-5 con una prova di maturità impressionante (e 37 punti in 40 minuti di PG13), ma hanno anche chiuso i conti con una rimonta leggendaria da -26 nel secondo tempo di gara-6. E in meno di 48 ore si sono presentati a Phoenix per cominciare le prime finali di conference della loro storia, andando non lontani dal portare a casa un 1-1 nelle prime due partite se gara-2 non fosse finita in quella incredibile maniera.

La fenomenale gara-5 di Paul George

Più il gioco si è fatto duro in questi playoff e più i Clippers hanno risposto presente, invertendo quella narrativa — già ben presente nella serie al primo turno contro Dallas — che li vedeva sciogliersi mentalmente alla prima difficoltà. Questi Clippers invece sembrano trovare nuove energie: le rotazioni sono più puntuali, chiudono più velocemente le linee di penetrazione avversarie, le loro braccia sembrano arrivare ovunque e danno battaglia a rimbalzo senza cedere un centimetro (a proposito: George ne ha presi 44 nelle ultime tre partite della serie), compensando la mancanza di centimetri dovuti anche all’infortunio di Ivica Zubac — come se non fosse già abbastanza dover fare a meno di Leonard (e di Serge Ibaka) — con la rapidità orizzontale del quintetto “piccolo”.

Alla loro fenomenale attività difensiva, in gara-5 i Clippers hanno aggiunto anche un livello di esecuzione in attacco che non si era necessariamente visto nelle prime quattro partite, specie nella tremenda gara-4 in cui il tiro li ha completamente abbandonati (32.5% dal campo, 5/31 da tre, 65% ai liberi e soli 14 punti nell’ultimo periodo). George, in particolare, è stato chirurgico nell’andare a stanare Devin Booker ogni volta che ne aveva l’opportunità, scegliendosi l’accoppiamento preferito per mandare in rotazione la difesa dei Suns e creare tiri per sé e per i compagni, giocando quel tipo di “mismatch ball” di stampo LeBroniano che non necessariamente gli appartiene.

L’uomo di Booker porta il blocco su George per forzare il cambio e, una volta ottenuto (con un po’ troppa facilità) PG13 si mette al lavoro sfruttando chili, centimetri e capacità tecniche, il tutto in un campo spaziato alla perfezione dalla presenza dei tiratori sul perimetro.

Per sua natura peraltro George sarebbe più a suo agio in un ruolo secondario, ricevendo in movimento lontano dalla palla e attaccando una difesa già mossa per sfruttare l’incredibile fluidità dei suoi movimenti e la capacità di arrestarsi in una frazione di secondo per alzarsi e tirare, uno dei movimenti di tiro più eleganti a ovest di Kevin Durant. L’assenza di un vero e proprio playmaker (Rajon Rondo è velocemente finito fuori dalle rotazioni di coach Lue esattamente come nelle prime due serie) e soprattutto quella di Leonard lo hanno costretto però a un ruolo da portatore di palla primario che lo costringe a spremere tantissime energie dal suo corpo, anche perché lui e Reggie Jackson sono di fatto gli unici due creatori di gioco in campo.

Spesso in passato questa mole di lavoro lo portava ad accontentarsi del suo tiro in sospensione, difetto in cui comunque certe volte incappa ancora, ma in questi playoff George sta attaccando il ferro come non mai. Il 20% dei suoi tiri viene preso nell’ultimo metro di campo, in netta salita rispetto al 14.5% dello scorso anno e superiore anche agli ultimi anni agli Indiana Pacers, dato che sale al 33% se si considerano anche gli altri tiri presi entro i tre metri dal canestro. Anche i tiri dalla media distanza sono in calo rispetto alla media della carriera ai playoff, senza però sacrificare eccessivamente le conclusioni da tre punti che rappresentano il 40% della sua “dieta” di tiri (comunque il dato più basso dal 2017). Prima della partita di questa notte George era 11° per penetrazioni a partita con 16.5 a partita, pari a quelle di Kawhi Leonard, salendo a 18.3 non appena ha dovuto fare a meno dell’altra stella della squadra. Il tutto andando in lunetta un numero considerevole di volte — il suo rapporto tra tiri liberi e tiri dal campo è del 40%, in linea con gli anni ad Indiana in cui era andato per due volte alle finali di conference —, il difetto che tutti gli imputavano prima di questi playoff.

Anche in gara-5 è stata evidente la sua volontà di arrivare al ferro, prendendosi 12 tiri nel pitturato di cui 10 al ferro e segnandone 8. Dalla media distanza invece ha preso solo due conclusioni quando la difesa di Phoenix aveva cominciato a collassare in area, aggiungendo poi un solidissimo 3/6 da tre e 8/8 dalla lunetta.

Paul George ci ha dato quello che volevamo

Che cosa vogliamo noi dalle superstar NBA, o dagli sportivi di alto livello in generale? Che ci siano nei momenti più importanti, che siano presenti quando si decidono le partite, che diano tutto quello che hanno, che siano loro stessi a farlo per regalarci momenti che siano memorabili e degni di spendere il nostro tempo per seguirli. Fino a questo momento, Paul George ha dato tutte le risposte che ci si aspettava da lui: sta viaggiando a 27.2 punti, 9.7 rimbalzi e 5.6 assist di media, sta difendendo a livelli altissimi, è la chiave di volta della sua squadra sia in attacco (-16.5 punti su 100 possessi quando esce dal campo) che in difesa (senza la sua presenza a rimbalzo i quintetti piccoli farebbero fatica a resistere, e marca qualsiasi giocatore si trovi davanti lunghi compresi), ha giocato più di chiunque altro anche a costo di arrivare a corto di energie nei finali di gara (solo il 36% al tiro in the clutch), ha raggiunto risultati che la sua franchigia non aveva mai raggiunto prima — e senza poter contare su uno come Leonard.

https://twitter.com/nbastats/status/1409726655573135368

Ah, non che il resto della NBA sia proprio stata in grado di pareggiare quanto fatto stanotte da PG13.

Magari in gara-6 giocherà un’altra pessima partita da 4/16 al tiro per 11 punti (d’altronde la sua storia ai playoff dice anche questo), i Clippers stanchissimi verranno schiantati dai Suns e la sua stagione si concluderà, di fatto, di nuovo senza quel viaggio alle Finals che non ha mai affrontato in carriera. Ma già solo il fatto che possa tornare a Los Angeles per giocarsi quella partita e che i Clippers siano a due vittorie di distanza dalle finali è un risultato da ricordare indipendentemente da come si concluderà questa serie, senza che diventi un referendum sulla sua carriera. Perché Paul George ha dimostrato di essere una superstar di questa lega, e che i soprannomi “Way-off P” e “Pandemic P” possono essere messi in soffitta. O almeno si spera.

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