Esistono giocatori dotati di una classe e di un’eleganza così naturale da farti emozionare e sentire appagato anche con delle giocate semplici. Javier Pastore fa parte di questa categoria, anche se il suo è un talento fragile e discontinuo. Nel corso degli ultimi anni molti personaggi del mondo del calcio si sono espressi su di lui, come Cantona, che lo ha definito nel 2015 «il tipo di giocatore che amo. Il più creativo del mondo, capace sempre di sorprenderti».
Pastore, detto "Flaco" (perché magro, come da traduzione letterale), è l’erede di una tradizione di numeri 10 argentini che ha segnato il calcio sudamericano e successivamente europeo dagli ’70 in poi, con l’uso delle pause e della visione di gioco per gestire il ritmo delle partite e colpire gli avversari facendo da ponte tra il centrocampo e l’attacco (quello che gli argentini chiamano enganche). Un ruolo quasi scomparso nel calcio, che rende Pastore un talento giàvintage. Forse per questo non è riuscito a diventare uno dei punti di riferimento del Paris Saint Germain, nonostante più di una volta sia riuscito a dimostrare sul campo il suo valore.
A Parigi – complici anche dei fattori esterni e gli infortuni – non ha saputo mostrare definitivamente la sua caratura e oggi, a 29 anni, ha sentito la necessità di rimettersi in gioco. Senza troppa enfasi, Pastore cerca una sua piccola rivincita, nel campionato italiano che lo aveva lanciato.
Breve storia del fallimento parigino di Pastore
Nel 2009, Pastore arriva a Palermo dall’Huracan di Angel Cappa, allenatore dall’impostazione molto offensiva, il primo a sfruttarne la tendenza naturale alla verticalizzazione. Delio Rossi lo usa come trequartista nel 4-3-1-2, suo habitat naturale. Dal 2009 al 2011 ha messo in crisi le difese del campionato italiano, non proprio le più naïf del mondo.
Per chi non dovesse ricordarlo, in quegli anni la sua azione tipo consisteva nel dribblare nello stretto per poi partire in progressione (quella che ha spinto alcuni a paragonarlo a Kakà da giovane), rallentare per individuare il passaggio (a sua detta il gesto tecnico che preferisce) con cui servire i tagli degli attaccanti o dei centrocampisti. Sabatini – che lo ha portato in Italia – ha espresso al meglio le sue caratteristiche: «Lui divora il campo palla al piede con grande armonia e facilità di conduzione di palla e individua le linee oscure di passaggio che altri giocatori non vedono».
Sia a Palermo che a Parigi, Cavani e Pastore hanno costruito un legame speciale che nasce dalle loro caratteristiche complementari.
A 20 anni Pastore era un maestro nell’alternare le pause agli strappi, sempre tranquillo come chi ha tutto sotto controllo. Con il passare dei mesi le sue letture (già ottime) migliorano e affina il dialogo con i compagni negli ultimi metri del campo. Tipo Ilicic, che lo affianca sulla trequarti nella sua seconda stagione, e aiuta la sua evoluzione a livello realizzativo (nel 2010/2011 segna 13 gol partendo come trequartista).
Il punto più alto che raggiunge è la tripletta nel derby contro il Catania, una partita speciale che ha rafforzato moltissimo il rapporto con la città: «Nel mio cuore e nella mia mente ho sempre vivo il ricordo di quel derby vinto contro il Catania, ricordo che feci impazzire i tifosi, per mesi i bambini non volevano altro che i miei poster. In quel pomeriggio ho avvertito un’emozione incredibile, la più forte che si possa percepire in terra».
Quella tripletta ha una dedica speciale per Maradona, che lo ha portato al Mondiale del 2010. El "Diez" ha definito Pastore, all’epoca appena ventunenne, «un maleducato del calcio che tocca la palla come se avesse giocato 4-5 mondiali» (foto di Chris McGrath / Getty Images).
Dopo la sua seconda stagione attira l’interesse delle grandi e il primo a muoversi è lo sceicco Al-Khelaifi, che spende la cifra allora record per la Ligue 1 di 43 milioni per portarlo al PSG. Ma in Francia mostra tutti suoi limiti e la sua fragilità, soprattutto caratteriali.
Nel primo anno realizza 16 gol tra tutte le competizioni. Ma poi arrivano altri grandi talenti in squadra e il "Flaco" perde fiducia e minuti in campo. Dopo un po’ il PSG non ha più bisogno di lui, ma neanche di venderlo, e Parigi diventa così la sua prigione dorata. Si inizia a parlare di lui come della classica promessa discontinua incapace di utilizzare con efficacia il suo talento, un’idea che alimenta con prestazioni fantastiche contro le migliori squadre europee alternate a lunghi mesi di anonimato in campionato.
Sabatini - che per ammissione di Pastore ha sempre detto cose giuste su di lui - ha inquadrato al meglio la situazione che si è creata per il "Flaco" a Parigi: «Non mi piace il percorso che ha fatto al PSG, perché il primo anno ha giocato un calcio sublime poi si è un pochino seduto e ha accettato di perdere i duelli con i nuovi acquisti. Ha accettato un ruolo di subalternità e questo un campione non lo può fare».
Chi è, oggi, Pastore?
Ancora adesso il ruolo naturale di Pastore sarebbe quello di trequartista, come il suo idolo Juan Roman: «Da bambino avevo occhi solo per Riquelme. Grazie a lui ho scoperto il gesto tecnico che amo di più: il passaggio. Lui ha rilanciato il ruolo del playmaker ed è un modello per me, anche se sono molto lontano dall’influenza che aveva lui sul gioco».
Purtroppo per lui il calcio europeo è diverso da quello giocato da Riquelme ai tempi del Villarreal e si sta sviluppando su ritmi sempre più alti che impediscono alle squadre di avere trequartisti puri. Questo ha spinto giocatori che in un’altra epoca avrebbero giocato sicuramente tra il centrocampo e l’attacco a dover cambiare posizione di partenza per poter essere funzionali nel contesto delle loro squadre (De Bruyne gioca molto più arretrato, Isco spesso deve partire da esterno nel 4-4-2). Finora Pastore non è riuscito ad acquisire una vera dimensione né da interno di centrocampo né da esterno offensivo, ma le responsabilità di questo mancato adattamento non ricadono solo su di lui.
I problemi di Pastore al Psg sono iniziati con il passaggio al 4-3-3 voluto da Blanc e portato avanti successivamente anche da Emery. Sia l’allenatore francese che quello spagnolo hanno provato a utilizzare Pastore nei tre di centrocampo, da mezzala, oppure da esterno d’attacco. Ma sempre con scarsi risultati, finendo per attribuirgli il ruolo di alternativa di lusso in caso di assenza di uno dei titolari.
In sostanza Pastore è stato costretto in una posizione del campo diversa da quella a lui più congeniale in un momento in cui la sua maturazione era quasi completa, e i suoi allenatori hanno ritenuto troppo dispendioso concentrarsi sulla sua transizione. Così si è lentamente abituato al ruolo di vestito demodée nel ricchissimo guardaroba del Paris Saint Germain.
Nell’ultima stagione Emery lo ha schierato titolare solo in 13 occasioni e ha preferito concentrarsi sullo sviluppo di Giovani Lo Celso (giocatore con un background molto simile al suo ma più giovane e plasmabile di lui) riuscendo a trasformarlo con successo da trequartista a centrocampista.
Lo Celso si è adattato a partire molto più basso (con la complicità del livello tecnico non eccelso della Ligue 1, in Champions League contro avversari più difficili non è andata altrettanto bene). Emery è riuscito a sfruttare il gioco associativo di Lo Celso per trasformarlo in un “Verratti sudamericano”, ma non ha trovato posto per Pastore.
Possiamo riassumere la situazione al PSG dicendo che negli ultimi anni ai centrocampisti della capitale francese sono state richieste due abilità: quella di saper gestire il pallone davanti alla difesa e (in alternativa) quella di essere efficaci nell’andare a chiudere le azioni con gli inserimenti senza palla. Pastore non ha nessuna di queste due attitudini ed è naturale quindi che gli siano stati preferiti giocatori come Verratti, Rabiot o Matuidi (e non gli è stata d’aiuto nemmeno l’organizzazione della manovra della squadra, che nell’ultima stagione ha avuto come obiettivo quello di consegnare il più velocemente possibile il pallone ai due esterni offensivi, Neymar e Mbappé, per affidarsi al loro talento).
Quando invece Pastore è stato schierato sulla fascia si è limitato a sopravvivere utilizzando la tecnica nello stretto e la visione di gioco, ma il suo gioco resta legato alla zona centrale del campo: fin da giovane il "Flaco" aveva fatto vedere di essere diverso da altri talenti della sua generazione, capaci di decentrare la loro zona d’azione per adattarsi al gioco.
Alla Roma, Pastore dovrà confrontarsi con lo stesso modulo che ha frenato la sua carriera, ma sia l’impostazione dei due allenatori che i suoi compiti saranno molto diversi. Ne è un esempio l’atteggiamento in fase di non possesso delle due squadre: se il PSG di Emery usava un pressing ordinato ma non eccessivamente alto, per la Roma è una delle fonti primarie di gioco: nella squadra di Di Francesco la difesa è sempre molto alta, facendo diminuire lo spazio a disposizione per l’attacco una volta recuperato il pallone.
Questa impostazione è il motivo per cui un giocatore dinamico come Nainggolan, che prolifera negli spazi non è riuscito a esprimersi al meglio con Di Francesco; ma allo stesso tempo potrebbe essere un vantaggio per Pastore, più a suo agio nelle situazioni in cui lo spazio diminuisce, dove può essere decisivo con la sua fantasia, per la creazione di occasioni da gol.
Due big match giocati in casa e due atteggiamenti molto differenti: il Paris Saint Germain ha recuperato il 18% dei suoi palloni (10 su 53) nella metà campo offensiva, mentre la Roma il 44% (22 su 50). Le caratteristiche di Pastore lo rendono un giocatore più adatto all’impostazione della Roma che a quella del Psg.
Come cambia la Roma da Nainggolan a Pastore
Nella passata stagione uno dei principali problemi della Roma è stato quello di convertire in reti il numero di occasioni generate: il rapporto tra gli Expected Goals creati e gol segnati nello scorso campionato è stato negativo (unica squadra tra le migliori del campionato) e il numero di reti rispetto alla stagione 2016-2017 è crollato da 90 a 61.
I problemi realizzativi della Roma sono stati spesso causati da una manovra ingolfata che finiva per abusare dei cross. Con l’acquisto di Pastore (che potrebbe prendere il posto di Nainggolan che ha giocato spesso più da trequartista che da mezzala) la Roma avrà più qualità e meno dinamismo nel centrocampo, colmando l’assenza di un palleggiatore, una lacuna che restava dalla cessione di Pjanic (Monchi in conferenza stampa lo ha definito con orgoglio «uno dei giocatori più qualitativi che ha acquistato in tanti anni da direttore sportivo»).
In modo abbastanza scontato la conversazione con i giornalisti si è spostata piuttosto velocemente sulla cessione di Nainggolan, sulla quale lo spagnolo si è esposto in maniera netta da subito: «Noi abbiamo fatto una scelta: e il lavoro del direttore sportivo è proprio quello di fare una scelta ogni giorno. So che qualcuno la capirà e altri no».
Da un punto di vista tattico la Roma ha ceduto un giocatore dal talento indubbio, ma molto peculiare, e la cui efficienza veniva ridotta dal calcio codificato di Di Francesco, che finisce per esprimersi in spazi molto ridotti. Acquistando un giocatore dalle caratteristiche diametralmente opposte, Monchi ha fornito una soluzione tecnica a uno dei problemi principali della propria squadra, e cioè proprio le difficoltà dei giocatori a far avanzare il pallone in verticale in spazi stretti.
Un minuto di highlights di Pastore è più che sufficiente per creare un hype mostruoso nei tifosi della Roma, è oggettivamente difficile rimanere indifferenti.
«Ho scelto la Roma perché voglio tornare a sentirmi importante», ha detto Pastore nella conferenza stampa di presentazione prima di rispondere in maniera piuttosto vaga sulla sua predisposizione a giocare da mezzala.
A livello tattico la presenza di un palleggiatore come lui tra i centrocampisti potrebbe avere un effetto benefico per i due registi della squadra nella scorsa stagione, Kolarov e Dzeko, che dovranno affrontare una minore pressione.
E sarà interessante seguire lo sviluppo della convivenza tra l’argentino e Dzeko, che ha caratteristiche completamente diverse dagli attaccanti con cui ha giocato il "Flaco" nella sua carriera: se i movimenti di Cavani sono quelli ideali per il calcio di Pastore, la tendenza di Dzeko a venire incontro al pallone e abbandonare l’area non si sposa al meglio con il suo stile (una situazione che per certi versi può ricordare quella vissuta da Pastore con Ibrahimovic).
Anche partendo da posizioni diverse, sia l’argentino che il bosniaco amano giocare la palla nella stessa zona di campo per creare gioco e sarà compito di Di Francesco impedire che i due si sovrappongano troppo spesso in campo. Probabilmente una buona parte del successo della squadra nella metà campo offensiva nella prossima stagione passerà proprio dalla loro interazione, ma dipenderà anche dagli inserimenti dei centrocampisti e degli esterni offensivi (questo gol realizzato da Rabiot al Lione nella scorsa stagione mostra ad esempio uno sviluppo potenziale che la Roma potrebbe cercare utilizzando Pastore e Dzeko fuori dall’area per riempirla con gli altri uomini offensivi).
Da non sottovalutare, nel passaggio da Nainggolan a Pastore, anche il diverso carattere. Il belga e l’argentino sono due tra le persone più diverse che si possano incontrare: da un lato Radja è energico e vulcanico, ha fatto della lotta in campo il suo manifesto e si è schierato; dall’altra il "Flaco" è composto e rispettoso, con un modo di giocare etereo ed elegante che rappresenta l’opposto dello stile di Nainggolan.
Dietro la cessione del belga potrebbe esserci anche la volontà di normalizzare lo spogliatoio con un giocatore più calmo e ordinato fuori dal campo, capace in ogni caso di esercitare un’influenza nel gruppo, sicuramente meno forte e netta, ma più quotidiana e mentale, testimoniata anche dalle parole di Al-Khelaifi. Il presidente del PSG ha salutato il primo acquisto della sua presidenza con un bel messaggio, che è sembrato poco convenzionale: «Dai suoi primi passi con la nostra maglia, i gesti precisi e raffinati di Javier hanno incantato il Parco dei Principi. Resterà tra coloro che hanno plasmato l’identità della nostra squadra e della nostra società».
In conferenza un giornalista ha fatto notare all’argentino che a Parigi ha fatto vedere cose buone, ma non quelle straordinarie che ci si aspettava da lui; la risposta nasconde il passaggio chiave per Pastore a Roma: «Sono molto felice della carriera che ho fatto, sono arrivato al PSG che non vinceva niente, negli ultimi 7 anni abbiamo vinto 19 titoli e sono stato presente sempre».
Dopo anni di trofei a Parigi da comprimario, Pastore dovrà essere uno dei leader di una Roma alla ricerca di una dimensione europea inseguita quasi ossessivamente negli ultimi anni. In questo senso, Pastore dovrà dimostrarsi diverso e più maturo. In campo, invece, la speranza di tutti è che riparta da dove ha finito la conferenza stampa: «Sono qui per far vedere a tutti il "Flaco" che hanno conosciuto quando ero a Palermo».