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Che cos’è un passaggio riuscito?
04 dic 2025
Nel calcio si provano circa mille passaggi a partita, ma quanti sono fatti davvero bene?
(articolo)
9 min
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In una partita di calcio, arrotondando per eccesso, si effettuano mille passaggi. Quanti di questi saranno decisivi per il risultato finale? Due? Tre? Quattro? Cinque? Se vogliamo essere di manica larga, e aggiungere anche quelli potenzialmente decisivi, cioè quei passaggi che portano al tiro, sprecati da chi doveva convertirli in gol, possiamo arrivare a 10, sempre facendo una media a occhio, che vuol dire che in una partita ce ne saranno di più e in un'altra di meno.

Dieci diviso mille fa 0.01. Possiamo quindi affermare che appena l’1% dei passaggi di una partita sono passaggi che - effettivamente - possono o quanto meno dovrebbero portare al gol.

Ne restano 990.

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Novecentonovanta passaggi sono tanti. Presi tutti insieme formano un groviglio di avvenimenti che poi, più o meno, sono la partita stessa. Ma presi singolarmente? Che considerazione abbiamo di un singolo passaggio? Stiamo parlando di un gesto che si ripete per 11 volte ogni minuto, uno ogni circa 5 secondi e mezzo (sempre usando dei dati a spanne, non siamo qui a fare statistica).

I singoli passaggi, mi sembra, tendiamo a dividerli semplicemente in giusti, quando arrivano a un compagno, e sbagliati, quando non gli arrivano. Una divisione manichea che però lascia fuori tutte le sfumature qualitative. Anche le statistiche da questo punto di vista sono indicative: conteggiamo la percentuale dei passaggi riusciti sul totale, quanto fanno progredire l'azione a livello spaziale, ma facciamo difficoltà a inserirli in una metrica qualitativa.

Eppure il modo in cui viene fatto un passaggio influisce, inevitabilmente, su tutto quello che succederà dopo, al di là del semplice arrivare a destinazione. Da un passaggio dipende il primo controllo di chi lo riceve, la sua posizione rispetto alla porta avversaria, la velocità che può imprimere alla sua azione e tante altre cose. Ogni passaggio, quindi, anche il più piccolo o il più corto, ha un’influenza sulla partita, può determinare se un’azione diventerà gol o una palla persa, anche se arriva a 100 metri dalla porta avversaria.

Sto scrivendo una cosa che, per chi ha guardato un po’ di calcio in vita sua, è banale, scontata, lapalissiana. E, tuttavia, è poco indagata, analizzata, affrontata.

Prendiamo questo passaggio di Pedro Neto.

A livello puramente formale è un passaggio giusto, visto che il pallone arriva a Garnacho. Ma è chiaro ed evidente a tutti, o almeno a molti, che si tratta invece di un passaggio sbagliato, sbagliatissimo (come viene evidenziato nei commenti al tweet, che invece voleva essere contro l’esterno argentino del Chelsea). Pedro Neto non avrebbe dovuto passare il pallone sui piedi del compagno, ma verso la linea ideale della sua corsa. Non voglio mettermi qui a discutere il perché del suo errore (poteva passarla prima? Usare il destro?), ma solo farvi notare quanto la qualità di un passaggio può condizionare una partita. Se Pedro Neto non fosse stato così sciatto, possiamo affermare, l’azione si sarebbe conclusa con un gol o comunque con un grandissima occasione per il Chelsea.

Ho scelto un caso estremo, ma di passaggi sciatti in una partita ce ne sono molti, anche se spesso passano inosservati, perché eseguiti in situazioni di gioco meno decisive. A farci attenzione, però, le partite sono piene di questi passaggi che non sono mai davvero il passaggio, chiamiamolo così, ideale. Perché fare un passaggio perfetto è così difficile mi chiedo spesso? In apparenza, mandare il pallone da un punto A a un punto B non sembra così difficile, a essere difficile, mi sembra, sia stabilire qual è il punto B, e cioè il punto ideale dove il pallone deve incontrare il movimento del mio compagno.

Capire il punto B ideale è un fondamentale tecnico, come il primo controllo o il tiro. Arsène Wenger nella sua biografia La mia vita in bianco e rosso la chiama empatia tecnica: “Passare il pallone significa comunicare con un’altra persona; significa mettersi al servizio di un’altra persona. È fondamentale. Perché un passaggio sia buono, il giocatore deve mettersi nei panni di chi lo riceverà. È un atto di intelligenza e generosità, ciò che io chiamo empatia tecnica”.

Mi piace questa definizione, perché raccoglie bene le due qualità che servono per fare un passaggio perfetto: la sensibilità nel piede e la capacità di comprendere la persona che deve ricevere il passaggio. Ecco un esempio di grande empatia tecnica:

Qui Iago Aspas è coinvolto in un'azione in qualche modo simile a quella di Pedro Neto, ma il risultato è all’opposto. Iago Aspas tiene il pallone esattamente quanto lo deve tenere e poi lascia partire il passaggio nell’esatto momento in cui lo deve far partire, facendolo arrivare nell'esatto punto in cui doveva arrivare. Lo spagnolo non si è inventato niente, il suo non è uno di quei passaggi che può fare solo un calciatore particolarmente dotato e visionario, ma è, se consideriamo tutti i passaggi possibili in quella situazione, il passaggio migliore e quindi quello perfetto.

Se ho iniziato a sviluppare una fissa per il passaggio perfetto è a causa della Juventus. Non voglio far diventare questo articolo uno di quegli strali contro la decadenza della squadra per cui si tifa, eppure è impossibile non notare come la mancanza di empatia tecnica sia diventato il problema maggiore della squadra negli ultimi anni. Lo va ripetendo anche Spalletti, a modo suo: «Serve più qualità, una precisione maniacale, anche nei passaggi semplici», oppure, «Recuperiamo palla, mi giro e pum... l'abbiamo regalata a loro. Col Cagliari lo abbiamo fatto 4-5 volte di fila».

Non si tratta solo di passaggi sbagliati, come detto, ma soprattutto di passaggi non pensati bene. Prendiamo questa transizione: non c’è niente di sbagliato, eppure con due passaggi sciatti una situazione di vantaggio numerico svanisce, senza neanche avvicinarsi a diventare pericolosa.

juve 1

Cosa si poteva fare meglio qui? Il primo passaggio di Adzic, se fatto sulla corsa di Vlahovic, e non pigramente con l’esterno del piede, costringendo il centravanti a fermarsi per controllare, avrebbe consentito di mantenere il vantaggio iniziale che invece si perde con il tempo di gioco necessario al serbo per controllare e girarsi verso la porta. Ma c’è un errore anche nel secondo passaggio, quello di Vlahovic ad Adzic. Il serbo abbassa la testa e cerca il compagno sulla figura, senza guardare che quello sta tagliando - giustamente - verso il centro, dove c’era uno spazio in cui infilarsi. Sembrano due minime sbavature, ma - per quanto casuale - sul successivo ribaltamento Vardy segnerà il gol del 2-1, riaprendo una partita che Vlahovic e Adzic potevano chiudere pochi secondi prima.

Sono piccole sbavature che si ripetono e denotano, appunto, una mancanza di empatia tecnica. Qui ad esempio due passaggi verso destra di Locatelli, tutti e due giusti, ma tutti e due con un diverso grado di distanza dal possibile passaggio perfetto.

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Probabilmente non sarebbe cambiato nulla se per due volte Locatelli fosse stato in grado di vedere ed eseguire il miglior passaggio possibile e, forse, possiamo dire che è meglio fare un passaggio sciatto ma giusto, che un passaggio più intraprendente ma sbagliato. L'idea però rimane: in una partita di circa mille passaggi (in Serie A in realtà un po' meno) l'attenzione al singolo passaggio tende a perdersi, soprattutto in squadre con poca empatia tecnica.

Per non far sembrare il tutto un articolo contro Locatelli, qui metto forse la mia azione preferita riguardo le difficoltà nel fare il passaggio giusto: McKennie che per due volte non riesce a imbeccare il passaggio che poteva portare a una grande occasione da gol.

mckennie 1

Ovviamente non è un problema solo della Juventus, ma del calcio in generale: uno sport che si gioca coi piedi, che per definizione hanno poca sensibilità. Mi viene da dire che il passaggio perfetto esiste solo in laboratorio, come gli esperimenti, mentre il calcio reale vive di questi problemi, un’eterna lotta contro l'erba troppo secca o troppo bagnata, contro la stanchezza, il freddo, il caldo, lo stadio che urla, la bambina che non ha dormito, o anche semplicemente la sciatteria degli esseri umani, anche quelli migliori, i professionisti. È per questo che si tratta di uno sport a basso punteggio, con poche occasioni e tanti errori.

Qui ad esempio Pulisic prima fa una cosa geniale, forse non voluta, ma che comunque denota grande intuizione, poi però spreca tutto con il passaggio. In diretta si è sentito proprio lo stadio spegnersi.

pulisic

Prima ho scritto che ho iniziato a immaginare la stesura di questo articolo guardando la Juventus giocare. È vero, ma solo in parte. Se davvero mi sono messo a scrivere queste banalità è perché in Serie A è arrivato un calciatore con un’empatia tecnica che mi stupisce ogni volta che lo vedo giocare: Luka Modric.

È anche difficile da spiegare a parole: ogni passaggio di Modric, mi sembra il passaggio migliore possibile o almeno la sua versione più vicina possibile. Ancora, non mi sto avventurando nel campo della genialità, cosa in cui comunque certo non difetta, ma nell'esecuzione. Prendete questo passaggio.

modric

È un passaggio che di per sé non ha niente di speciale, ma in quanti in Serie A avrebbero scelto quella traccia, invece di passarla tra i piedi di Athekame? Lo stesso Athekame si sarebbe aspettato quel passaggio e invece Modric gli mette un pallone nel miglior punto possibile per crossare di prima, con la velocità giusta per imprimergli la forza necessaria ad arrivare sul secondo palo. Le partite di Modric sono piene di questi passaggi: forti quando devono essere forti, leggeri quando devono essere leggeri, sui piedi quando devono essere sui piedi, sulla corsa quando devono essere sulla corsa.

Torniamo al discorso iniziale: in un passaggio non è tanto arrivare da un punto A a un punto B, quanto come scegliere qual è il punto B. È qui che entra in gioco l'empatia tecnica, che trova la sua forma ideale quando coinvolge più giocatori. Il tiki-taka del Barcellona è stata forse la forma più pura e collettiva: i passaggi dei giocatori erano apparentemente semplici, ma nessuno è mai riuscito a replicare quel sistema allo stesso modo. Questo perché i giocatori di quel Barcellona condividevano una relazione che era di natura tecnica ma anche emotiva, diciamo, che gli consentiva di avere sempre ben chiaro quale fosse il punto B perfetto per il compagno a cui passavano il pallone.

L'esempio più limpido di empatia tecnica condivisa in Serie A è stata probabilmente quella tra Totti e Cassano nella Roma. La storia poi ci ha raccontato di due calciatori che non avevano un grande rapporto fuori dal campo, ma dentro ha generato alcune giocate che continuano a essere condivise anche a oltre vent'anni di distanza.

Oggi immaginarsi un calcio così, almeno nel nostro campionato, è davvero difficile. È un segno dei tempi, il gioco è cambiato molto rispetto a vent'anni fa, ma anche della perdita di questa benedetta empatia tecnica. I motivi sono forse da ricercarsi dal fatto che i giovani non giocano più per strada, dove l'empatia tecnica si impara (scherzo, o almeno: credo di scherzare) o forse più semplicemente nella tendenza delle squadre a cercare altre caratteristiche nei propri giocatori.

La ricerca del passaggio perfetto diventa sempre più difficile, ma finché esisteranno i Modric, continueremo a cercare: è comunque il motivo per cui guardiamo le partite di calcio.

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