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La rinascita francese di Lucas Paquetá
10 feb 2021
10 feb 2021
Nel Lione di Rudi Garcia, il brasiliano è uno dei giocatori più importanti.
(articolo)
9 min
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Quando a fine settembre Paquetá è stato venduto al Lione per 20 milioni di euro a praticamente tutti nei pressi di Milanello è sembrato un grande affare. La dirigenza rossonera deve aver pensato come a un miracolo all’idea di poter recuperare i quasi 40 milioni spesi all’inizio del 2019 per prelevarlo dal Flamengo, quando sembrava il più succoso dei nuovi frutti del calcio brasiliano. Paquetá non giocava con continuità da titolare da novembre del 2019 e il suo tramonto era coinciso quasi perfettamente con la rinascita della squadra di Pioli, come se una cosa fosse davvero legata all’altra. In campo si era dimostrato troppo poco diretto per il gioco di Pioli, e la sua indole associativa forse era stata avvertita come un inutile amore per l’inutile in un calcio che invece andava dritto al punto. D’altra parte, Paquetá era stato anche l’acquisto di punta del fallimentare secondo mandato di Leonardo al Milan e per di più si era presentato sotto le spoglie da falso idolo di erede di Kakà. Venderlo, insomma, è stato un po’ come cambiare pagina.

A circa quattro mesi da quel momento, però, è ormai chiaro che quella stessa pagina è stata cambiata felicemente anche da Paquetá. Il centrocampista brasiliano è infatti una delle rivelazioni di questa stagione di Ligue 1 ed è titolare inamovibile di una delle squadre che ambiscono al titolo, il Lione di Rudi Garcia, al momento secondo in classifica a soli due punti dal Lille capolista. France Football gli ha dedicato la copertina del suo ultimo numero di gennaio, in cui Paquetá - definito “la tigre di Lione” - sembra intimarci lo stop con sguardo serissimo, mentre l’Equipe lo ha inserito nella Top XI del girone d’andata. A vederlo da qui, dove era considerato un giocatore lento, leggero e lezioso, quello che stupisce in primo luogo è come Paquetá venga invece percepito in Francia. Uno dei pezzi che France Football gli ha dedicato ha il titolo eloquente di “Una tigre nel motore” e celebra lungamente la sua energia, anche in fase difensiva. Al suo interno vengono riportate diverse dichiarazioni di Rudi Garcia, tra cui una che ne elogia «lo spirito di squadra e la combattività».

A dispetto della leggerezza con cui è stato fatto partire, Paquetá ha fin da subito avuto un impatto molto forte non solo sul gioco del Lione ma anche sulle idee del suo allenatore. Rudi Garcia dopo il suo arrivo ha deciso di abbandonare definitivamente il 3-5-2 molto reattivo che aveva contraddistinto la scorsa stagione, soprattutto in Champions League, tornando in pianta stabile a quel 4-3-3 tecnico ed associativo che aveva contraddistinto le sue prime esperienze in panchina. Qualcosa di particolarmente importante per un club come il Lione, che ormai da diversi anni punta sulla difesa a quattro e sul controllo del possesso anche nelle giovanili per permettere ai talenti usciti dal vivaio di inserirsi più facilmente nella prima squadra. Non è un caso che il suo acquisto sia stato molto voluto dal DS del Lione, Juninho Pernambucano, secondo cui «una grande squadra è sempre costruita intorno a un grande centrocampista».

Il Lione di Rudi Garcia, però, non ha meccanismi tattici rigidi e anzi è molto fluido in campo. In questa nuova configurazione tattica il centrocampo punta soprattutto sulla completezza, con Thiago Mendes, Aouar e Paquetá («tre numeri 10», come ha detto Rudi Garcia) che si muovono in maniera piuttosto libera sul campo e si dividono quasi del tutto equamente i compiti di recupero del pallone, costruzione e definizione. Tra i tre, però, forse Paquetá è proprio quello che meglio incarna le idee del suo allenatore: è lui, più di Aouar, a scendere in mediana a contribuire alla prima costruzione, resistendo alla pressione con il suo abituale bagaglio di numeri nello stretto, ed è lui, più di Thiago Mendes, a proporsi senza palla sulla trequarti, a volte persino in profondità, alle spalle della linea avversaria.

Lo si è visto, per esempio, nel suo secondo gol in campionato, segnato pochi giorni fa al Dijon.

Come aveva già dimostrato a sprazzi anche in Italia, Paquetá sembra abbinare naturalmente il gioco con e senza palla, ed è raro che non dia seguito a una sua giocata con un movimento che permetta al suo compagno di avere una nuova linea di passaggio. In questo modo il centrocampista brasiliano, che viene schierato formalmente da mezzala da destra per permettergli di rientrare dentro al campo con il sinistro, è utile a praticamente ogni altezza del campo e sembra moltiplicare le possibilità di gioco ad ogni tocco di palla. D’altra parte, l’intelligenza, la capacità di legare il gioco individuale a quello collettivo, e la poliedricità sono qualità connaturate nel calcio di Paquetá da sempre. Il suo allenatore nelle giovanili del Flamengo, Zé Ricardo, ha ricordato a France Football come la sua evoluzione da ragazzino tecnico ma gracile a maturo calciatore professionista stupì persino lui. «Era diventato un giocatore universale, capace di giocare ovunque», ha dichiarato Zé Ricardo «Sarebbe potuto evolvere in un numero 5, 6, 7, 8 o 10». In prima squadra, in Brasile, giocherà anche da numero 9.

Oggi Paquetá sembra poter effettivamente ricoprire ognuno di quei ruoli, in un calcio che però non sembra più far troppo caso a queste differenze. Il minimo comun denominatore rimane l’istinto ad associarsi con i compagni toccando spesso il pallone, anche se quasi mai con più di due tocchi - come se avesse bisogno di gravitare intorno alla sfera per trovare la posizione in campo. E così, in una squadra che lascia molte libertà ai propri giocatori ma che comunque cerca di dominare l’avversario con il possesso, le qualità di Paquetá sono tornate ad essere indispensabili. Lo si vede anche dai suoi numeri che, come Rudi Garcia, parlano di quella completezza che in Francia sembra sia stata scoperta per la prima volta. Paquetá, infatti, è ai primi posti della classifica degli Expected Assist prodotti su azione (settimo, per la precisione, con 0.25 per 90 minuti) ma anche in quella dei recuperi palla offensivi aggiustati per possesso (sesto, con 3.1 per 90 minuti), a testimonianza di un’efficacia nel recupero del pallone che in Italia quasi mai gli è stata riconosciuta.

La sua migliore prestazione finora è arrivata in maniera provvidenziale nella partita più importante della stagione, quella di metà dicembre contro il PSG al Parco dei Principi che, con la vittoria del Lione per 0-1, ha segnato il primo grande colpo di scena del campionato francese. In una partita che ha visto il Lione difendersi sotto la linea della palla per la gran parte del tempo forse per la prima volta in stagione, Paquetá è stato fondamentale nel difendere il possesso dai tentativi di riaggressione immediata della squadra parigina spezzando il ritmo degli avversari e dando la possibilità alla propria squadra di arrivare in maniera pulita e veloce sulla trequarti. Contro il PSG, il centrocampista brasiliano ha superato l’avversario in dribbling tre volte su quattro (meno solo di Aouar, 5, tra i suoi compagni) vincendo contemporaneamente tre contrasti su otto, al pari di Cornet come migliore della partita.

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Un esempio della completezza di Paquetá messa a servizio della squadra: il centrocampista brasiliano partecipa al pressing alto del Lione, poi sulla palla recuperata elude la pressione alle spalle di Gueye, toccando il pallone con la punta e permettendo alla squadra di Rudi Garcia di attaccare fronte alla porta.

In un dibattito calcistico sempre pronto a spaccare il capello esattamente a metà, la storia recente di Paquetá è interessante perché non ci fornisce alcuna scorciatoia nella sua interpretazione. A Milano saranno pochi quelli che lo rimpiangeranno, soprattutto adesso che il Milan è davvero in corsa per lo Scudetto, e saranno in molti a vedere nella sua ascesa una conferma della povertà tecnica del campionato francese, che in Italia ha pochissimi estimatori. La sua rinascita in Francia in appena una mezza stagione, però, ci dice qualcosa sulla nostra cultura calcistica.

Sono passati poco più di due anni, ma credo che oggi in pochi ricordino che Paquetá nei primi sei mesi con Gattuso stupì per rapidità di adattamento al calcio italiano dimostrandosi subito pronto per la Serie A. La difficoltà di inquadrarlo in un ruolo predefinito, però, divenne presto un limite, anche per allenatori molto affezionati all’identità della propria squadra. Giampaolo e Pioli, con le dovute differenze, sono entrambi allenatori che richiedono alle proprie squadre di essere estremamente verticali e diretti una volta superata la prima pressione, un contesto tattico non ideale per un giocatore ordinato e associativo come Paquetá. Entrambi, infatti, lo hanno rimproverato per non essere sufficientemente decisivo nell’ultimo terzo di campo. Giampaolo gli chiese, ad esempio, di «essere meno brasiliano alcune volte, più concreto e meno giocherellone» dichiarando di preferire «un giocatore che lì sia attaccante nelle caratteristiche». Pioli si limitò invece spronarlo ad essere «più incisivo». Nelle loro parole è riflesso il desiderio costante della cultura calcistica italiana di richiedere a tutti i centrocampisti offensivi di essere numeri 10 che creano gioco dal nulla, che portano la propria squadra al gol con una giocata spettacolare o una progressione - tanto più se questi centrocampisti sono brasiliani e hanno il gusto per i dribbling barocchi.

In questo senso, è interessante notare che anche Rudi Garcia ha chiesto a Paquetá di essere «ancora più decisivo» nell’ultimo quarto (una richiesta comprensibile per una mezzala offensiva che anche in una stagione positiva ha comunque messo a referto solo due gol e un assist in 17 partite giocate), individuandolo però come margine di miglioramento di un gioco di cui ha elogiato «la sua lucidità e la sua qualità nei passaggi», «il suo gioco in verticale ad un tocco» e «la sua capacità di prendere le decisioni giuste e far giocare meglio gli altri». Qualità che erano chiare anche durante la sua esperienza italiana, come aveva notato Federico Aquè poco più di un anno fa quando scriveva come Paquetá amasse «invitare la pressione, entrare a contatto con l’avversario, infilarsi in situazioni difficili e poi uscirne con un gioco di prestigio, trovando il compagno nello spazio che nel frattempo si è liberato».

L’evoluzione di Paquetá per certi versi è speculare a quella di Calhanoglu, un centrocampista offensivo che invece ha ritrovato la linfa vitale del suo talento all’interno del contesto tattico iper-verticale ed entropico costruito da Pioli, che lo invita a puntare la profondità o la porta ogni volta che ne ha la possibilità. Il centrocampista brasiliano, allo stesso modo, ha trovato nel gioco di Rudi Garcia l’ambiente ideale dove rendere al meglio, in una squadra che gli lascia grande libertà di muoversi per il campo, che lo invita a prendersi responsabilità con la palla e che si ordina intorno alla sua capacità di uscire dalla pressione e di connettere i compagni. La storia recente di Paquetá , in definitiva, ci impedisce di schierarci nettamente da una parte o dall’altra riguardo al suo valore assoluto, qualsiasi cosa significhi, e ci costringe ad aprire gli occhi sull’importanza del contesto nell’affermazione di un giocatore.

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