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Paolo Sorrentino e il calcio
01 giu 2020
01 giu 2020
Il rapporto tra il regista premio Oscar e lo sport che continua a ispirarlo.
(articolo)
12 min
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Prepararsi il discorso della vita, pesare minuziosamente le parole, i silenzi e la punteggiatura mentale, e infine pronunciarlo davanti a una platea mondiale di decine di milioni di spettatori, non è un affare da poco. Si può risolvere la questione in stile Joe Pesci, che il 25 marzo 1991 – dopo aver ricevuto l'Oscar come miglior attore protagonista in Quei bravi ragazzi – disse semplicemente: «È stato un piacere. Grazie». Pur soggetto a numerose eccezioni, il regolamento ufficiale dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences prevede che il vincitore di un Oscar disponga di 90 secondi a cominciare dal momento della proclamazione, e dunque che il cronometro parta dal momento in cui si alza dalla sedia per dirigersi sul palco. E se inciampassimo lungo il percorso? E se rimanessimo paralizzati dall'emozione, mascella bloccata, sudori freddi irrefrenabili?

Il 2 marzo 2014, al Dolby Theatre di Los Angeles, i pensieri nella mente di Paolo Sorrentino furono chiarissimi: dopo l'annuncio di Ewan McGregor (“and the Oscar goes to... The Great Beauty, Italy”) salì sul palco spalleggiato da Toni Servillo e dal produttore Nicola Giuliano e dopo i ringraziamenti di rito dedicò un pensiero alle sue fonti d'ispirazione: «Federico Fellini, Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona».

Il rapporto tra il cinema italiano e il pallone è sempre stato problematico e, in generale, non è affatto facile fare un film sul pallone (anche quello che è probabilmente il miglior titolo al mondo, Febbre a 90° dal romanzo di Nick Hornby, è più un film sui tifosi di calcio che sul calcio in sé). Gli esempi luminosi o perlomeno accettabili sono pochi, da Ultimo minuto di Pupi Avati (1987) al recente Il campione di Leonardo D'Agostini (2019), che sfrutta felicemente una partnership con la Roma. Ancora più scivolosi i film biografici sui calciatori, specialmente quando non poggiano su materiale d'archivio ma fanno largo uso di attori e comparse, con tutte le goffaggini del caso.

Sorrentino ha una considerazione del calcio molto alta come strumento di spettacolo: «È una bellissima variazione del cinema: ci sono tecniche, tattiche, trucchi, escamotage e c'è un finale che non è scontato, e che nessuno conosce», ha dichiarato in un'intervista a Sky Tg24. Finora Sorrentino non ha mai voluto celebrare il pallone in sé, casomai un suo singolo esponente elevato ad artista, fino a inserirlo in una ristretta cerchia di giganti, dandogli dignità da maestro. Anche perché a dirla tutta la timidezza di Sorrentino ha tenuto a lungo nascosta una storia allo stesso tempo poetica e terribile, di quelle che rendono letterale una di quelle tipiche frasi che si dicono per impressionare una platea: sì, Diego Armando Maradona gli ha salvato la vita.

Dopo l'Oscar il San Paolo tributò questo striscione a Sorrentino, prima di un Napoli-Roma.

In un'intervista del 2015 a So Foot Sorrentino ha rievocato il primo momento magico con gli stessi toni lirici con cui si ricorda il primo bacio o una proposta di matrimonio: «Era l'estate dei miei 14 anni e mi trovavo in vacanza da solo in Inghilterra. Chiamavo a casa ogni tre giorni e uno di questi giorni mio padre mi disse che il Napoli aveva comprato Maradona. Poi fece una pausa – era un uomo che manteneva sempre un certo distacco – e mi disse: “Ho già fatto gli abbonamenti per l'anno prossimo”».

L'omaggio più appassionato a Diego, Sorrentino lo riserva proprio nel film successivo all'Oscar, il crepuscolare Youth (2015) in cui illustra il tramonto della vita di una coppia di anziani (Harvey Keitel e Michael Caine) in una casa di riposo in Svizzera. Tra gli ospiti della residenza c'è anche in tutta evidenza il Pibe, grottescamente grasso, con cronici problemi respiratori, decorato con piccole variazioni sul tema: al posto del tatuaggio del Che ne appare uno gigantesco di Karl Marx, che gli copre tutta la schiena («una cosa simpatica» ha detto il regista, «senza nessun significato particolare»). Il film ragiona sull'illusione e la volgarità della fama a buon mercato, appannata e sepolta dal tempo che passa. Di questo discorso Maradona (che nei titoli di coda è presentato semplicemente come “Sudamericano”) è simulacro ed esempio inimitabile: lo vediamo sfiatato e ansimante, eppure mai domo, mentre palleggia con una pallina da tennis, riferimento a un episodio mitico dell'adolescenza di Sorrentino, qui raccontato a Concita De Gregorio: «Poco prima dei Mondiali 1986 lo spiai per una notte mentre si allenava di nascosto su un campo da tennis e tirava ininterrottamente palloni in porta mettendoli sempre all'incrocio dei pali, nello stesso punto. Più spettacolo di questo, non mi viene in mente niente».

Il Maradona di Youth è interpretato dall'attore Roly Serrano cui lo accomuna – oltre alla mole – il fatto di essere argentino, di simpatizzare per il Partito Comunista e di essere stato sposato con una donna di nome Claudia.

Sul ruolo salvifico di Maradona nella vita del regista torneremo dopo. Ma il napoletano Sorrentino deve pur sempre la fama internazionale a un grande affresco romano, pesantemente influenzato – non è certo un mistero – dalla Dolce Vita felliniana. E così, di spettacolo in spettacolo, di numero 10 in numero 10, non poteva ignorare il calciatore che a Roma gode di stima superiore anche a quella del Papa, che pure si chiama come lui. Scena iniziale: il cannone del Gianicolo fa “bum”, i turisti applaudono, le campane annunciano il mezzogiorno. Un uomo sosta ai piedi del monumento a Garibaldi: “Roma o morte”, si legge bene. Alcuni busti. Seduta su una panchina accanto al busto del generale e patriota risorgimentale Giuseppe Avezzana, una signora di mezza età fuma mentre legge la Gazzetta dello Sport. La cinepresa si sofferma su una pagina non casuale: “Allarme per Totti”. Le riprese de La Grande Bellezza sono iniziate il 9 agosto 2012 probabilmente a partire proprio dalla prima scena: la Gazzetta in questione risale infatti proprio al giorno prima, pagina 35 dell'8 agosto 2012, e riporta di un misterioso fastidio alla gamba sinistra occorso al capitano nel ritiro austriaco di Irdning, in piena preparazione estiva dell'infelice stagione del Zeman-bis.

A questo punto potreste giustamente obiettare che la signora in realtà non sta leggendo la notizia su Totti, ma la pagina accanto: sarà mica laziale? Sarà certamente una coincidenza, ma anche la pagina accanto rimane in tema: un'intervista a un ex giallorosso che parla di numeri 10, Alberto Aquilani, all'epoca neo-acquisto della Fiorentina di Vincenzo Montella (ex romanista pure lui), che proclama di voler indossare la maglia che era stata di Roberto Baggio.

Il passato, la nostalgia, la fantasia, il colpo che spariglia: grandi classici dell'immaginario sorrentiniano. In un film che gronda romanismo, dalla bizzarra comparsata di Antonello Venditti alle partecipazioni di giallorossi doc come Carlo Verdone e Sabrina Ferilli, il calcio rientra di straforo più tardi in un bizzarro frammento, il racconto della bella e fragile Ramona a proposito della sua prima volta con un futuro calciatore della Nazionale: un ragazzotto in mutande che fa freestyle con un pallone a esagoni anni Settanta sulla musica della sigla di Novantesimo Minuto.

L'ouverture de La Grande Bellezza.

Prima di tornare a Napoli, al Pibe e alla circostanza calcistica che ha cambiato per sempre la vita di Paolo Sorrentino, è obbligatoria una divagazione cavalleresca: nel senso di Silvio Berlusconi, protagonista assoluto del biopic in due atti Loro (2018). Non esisterebbe Berlusconi senza il Milan, le cui vicende sono profondamente intrecciate a quelle del Napoli di Maradona. Eppure Sorrentino riserva al Berlusconi presidente di calcio solo un piccolo spazio, quando tenta invano di corteggiare un calciatore nero che preferisce la Juventus (nessun riferimento apparente alla realtà) ospitandolo nella villa in Sardegna. Così come non vanno oltre la macchietta le pennellate di “napolismo” del cardinale Angelo Voiello (Silvio Orlando) nella serie The Young Pope: l'alto prelato ha le cover dell'iPhone griffate Hamsik, Insigne e Higuain, legge abitualmente il Corriere dello Sport e ha come suoneria del cellulare “L'estate sta finendo” dei Righeira (che per tutti i tifosi napoletani altro non è che “Un giorno all'improvviso”). E ancora tornano Diego e l'eterno scontro calcistico Roma-Napoli, quando il cardinale confessa a un ispettore di aver ceduto a uno scatto d'ira nei confronti di un ristoratore della Capitale: «Aveva asserito che Maradona si droga ancora».

In spregio a ogni scaramanzia, cosa assai sorprendente per due napoletani, Sorrentino ha rivelato di aver girato con Silvio Orlando – e poi tagliato – una scena in cui Voiello festeggia un ipotetico scudetto del Napoli facendo il bagno in una fontana del Vaticano.

Molti sorrentiniani della prima ora, come spesso succede con i fan più fedeli, identificano il suo miglior lavoro nell'opera d'esordio. “Era il mio primo film”, ha detto Sorrentino, “ero più giovane e naïf, e quando si è giovani lo sport sembra una specie di isolotto in cui regnano sovrani il Bene, il Giusto, il Bello”. Ne L'uomo in più (2001), film impregnato di mistica calcistica sin dal titolo, Sorrentino racconta la perdita dell'innocenza dell'adolescente e dell'appassionato.

La prima scena del suo primo film è ambientata nello spogliatoio ospiti dello stadio San Paolo, anno 1980. È l'intervallo di una partita di campionato tra il Napoli e una squadra con la maglia tutta rossa (la scena fu girata prima del calcio d'inizio di una vera Napoli-Perugia del 18 marzo 2001) e assistiamo allo show del tipico allenatore-tiranno che preferisce gli insulti alla diplomazia. Lo vediamo estrarre dalle tasche della giacca chiavi e accendino, sganciarsi con teatrale istrionismo il cinturino dell'orologio, gesti solenni e plateali che preludono a un cazziatone epico. Il suo soprannome è “il Molosso”, citazione evidente del “Petisso” Bruno Pesaola, allenatore anni Sessanta e Settanta che si porta appresso un'aneddotica leggendaria, più sorrentiniana di Sorrentino, riassunta in una battuta di José Altafini: «Un giorno annunciò che ci avrebbe dato serata libera e ci disse: chi rientra prima delle 3 di notte sarà multato».

Il Molosso si sfila la giacca e la fa roteare come il lazo di un cowboy, la scaglia contro il muro, poi finalmente scarica un diluvio di insulti sui suoi avviliti giocatori. Uno di loro – il più carismatico, il più sensibile, il capitano – è Antonio Pisapia, stopper a fine carriera (interpretato da Andrea Renzi) che nel silenzio dello stanzino si permette di dare consigli tattici al mister. Il suo rapporto con l'allenatore è all'insegna di una vivace dialettica: «Come mi ha rotto i coglioni lei, non me li ha rotti mai nessuno, Pisapia».

L'attore che interpreta “il Molosso” è Italo Celoro, detto 'O Prufessor.

Quando un regista realizza la sua opera prima, incerto se ne seguiranno altre, tende a metterci tutto ciò che sente e conosce meglio, dando fondo al proprio bagaglio personale di esperienze, conoscenze, luoghi e frasi del cuore. È forse per questo che – caso unico nella filmografia di Sorrentino – il calcio non è semplicemente una gag, una macchietta o un ammiccamento citazionista, ma il fulcro dell'intero discorso, e danza a lungo e tragicamente con la morte. «Il calcio è un gioco, Antonio, ma tu sei un uomo fondamentalmente triste», si sente dire Pisapia dal suo presidente cialtrone e trafficone, che gli motiva così la futura esclusione dal giro che conta.

Isolato, trascurato, dimenticato, Pisapia si toglie la vita, in un gesto di depressione che è anche denuncia del cinismo del mondo di cui credeva ingenuamente di far parte. Anche lo spettatore meno esperto avrà notato la similitudine con la vicenda umana di Agostino Di Bartolomei, la cui vita ha ruotato intorno alla data del 30 maggio, il giorno prima del compleanno di Sorrentino. «Con Di Bartolomei ho fatto una scoperta sconvolgente. Un uomo che fa un mestiere normale e si suicida è un avvenimento nell'ordine delle cose; ma un calciatore che si suicida è un fatto eccezionale. Ho avuto voglia di raccontare questa fase in cui la vita smette di essere facile e smette di essere un gioco». Invece Sorrentino a 50 anni sta bene, benone, è un artista di fama internazionale, uomo, marito e padre compiuto, eppure al calcio e al Napoli deve la vita, come dicevamo, letteralmente.

Per l'omaggio in Youth Maradona ha ringraziato Sorrentino con un post su Facebook in tre lingue – inglese, spagnolo, napoletano.

Il 2 aprile 1987 Paolo Sorrentino ha 16 anni ed è all'inizio di una primavera che non dimenticherà mai, quella del primo scudetto della storia del Napoli. La città fibrilla e segue col fiato sospeso le ultime giornate di un campionato che gli azzurri di Ottavio Bianchi stanno guidando da sei mesi.

Come succede spesso nei fine settimana di bel tempo, i suoi genitori stanno per raggiungere la casa in montagna di Roccaraso, ma Paolo per una volta non li seguirà: quel week-end il Napoli gioca a Empoli e lui ha finalmente ottenuto da Sasà e Tina – nomi che ricorrono anche nel discorso di ringraziamento dell'Oscar – il permesso di andare in trasferta, accompagnato da un amico. «Mamma era solare, accogliente, divertente. Radiosa. Papà era poco napoletano. Zitto, introverso, mai una parola; con lampi di ironia che ci rendevano felici. Toni Servillo me lo ricorda, con il suo rigore e le sue fiammate di ilarità irresistibile», ha ricordato al Corriere della Sera. «I miei genitori erano di origine popolare, venivano dai Quartieri Spagnoli. Papà lavorava in banca, mamma a casa». Così passa il sabato notte da solo nella casa al Vomero e la domenica mattina risponde euforico al suono del citofono: ma non è il suo amico, bensì il portiere. Quando scende al piano terra scopre la notizia tremenda: a Roccaraso il monossido di carbonio esalato da una stufa difettosa ha ucciso nel sonno i suoi genitori. L'adolescenza, l'età inquieta per definizione, per Sorrentino diventa un limbo vissuto in stato confusionale, in cui l'unico punto fermo è il tracagnotto geniale con la 10 con cui si dà appuntamento ogni domenica.

Abbonato in curva B, cresciuto nel mito di Salvatore Bagni («Da ragazzo giocavo a centrocampo e correvo tanto come lui, poi ho iniziato a fumare»), Sorrentino cura da trentacinque anni un piccolo pantheon dei calciatori della sua vita: Zico, Zidane, Bergkamp, naturalmente Maradona. «Sono giocatori che a lungo sembrano uguali agli altri, ma all'improvviso li scopri capaci di qualcosa di sovrannaturale, ed è in quel momento che diventano eroi. Questi calciatori vivono in un mondo a cui noi non possiamo avere accesso, del quale ignoriamo anche il modo stesso di entrare. È questa, l'emozione».

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