Il suo gol preferito (Italia-Brasile, Mondiale ‘82)
Di Daniele Manusia
Paolo Rossi sottolineava sempre la sua forza di volontà. La «voglia di arrivare», ha detto in quell’unica occasione – o, meglio, occasione unica – in cui ho potuto parlarci insieme a Emanuele Atturo. È diventato quello il suo “mito”, il calciatore senza doti fisiche o atletiche straordinarie, «un ragazzo come noi» cantato da Venditti, che ha segnato tre gol al Brasile e ha vinto il Pallone d’Oro. Così, per caso, o per volontà divina. Ovviamente non può essere vero fino in fondo e Paolo Rossi aveva anche qualcosa di straordinario, qualcosa che non tutti hanno, una vitalità spiccata che in termini sportivi definirei intensità. Un insieme di concentrazione, attenzione, riflessi. Paolo Rossi giocava sulla punta dei piedi, sempre pronto allo scatto decisivo, più sensibile e ricettivo degli altri giocatori in campo, dei difensori che lo marcavano. Con una capacità di vedere e prevedere sviluppatissima. Noi ci accorgiamo di quel singolo movimento, quello immediatamente precedente al gol, e lo chiamiamo “guizzo”, diamo merito al suo “istinto”; ma dietro c’erano cento scatti inutili, mille movimenti fatti in funzione del difensore, della palla, o di entrambi. Paolo Rossi in area di rigore era uno sciamano in cerca di segni, brancolava nel buio aspettando l’improvvisa illuminazione. Consistevano anche in questo il talento e la volontà di Paolo Rossi, in quell’appetito insaziabile che lo teneva sempre in movimento.
«Era una mia qualità, una mia forza, quella di giocare senza pallone, di non aspettare», ci ha detto lui quel giorno, al Centro Pecci della sua Prato (che non aveva mai visitato prima, ed era curioso quanto noi di trovarsi in un posto nuovo). «Non avendo un grande fisico, in un ruolo in cui bisogna avercelo – se pensiamo a quelli di oggi poi… – dovevo sviluppare altre doti». Certo, ma quella dote, una volta sviluppata, esercitata, con pazienza e fiducia, lo ha reso speciale. Per ricordarlo ho scelto il primo gol al Brasile al Mondiale del 1982, quello della svolta e che anche lui sceglieva come suo gol preferito perché «lì volevo metterlo», il pallone. Io l’ho scelto perché, prima di colpire la palla di testa sul secondo palo, e incrociarla nell’angolino opposto con la precisione di un ragioniere mancato, quale era, Paolo Rossi esegue un movimento per smarcarsi che ogni volta che lo vedo mi sembra contenga tutta la conoscenza di un grande attaccante.
Quando Cabrini prende palla lui stringe verso Luizinho, il centrale di difesa di sinistra. Sa già che Cabrini dopo aver controllato la palla crosserà e in qualche modo ha calcolato esattamente il tempo che gli ci vorrà a fare tutte le cose necessarie per trovarsi solo al posto giusto. Mentre Cabrini carica il traversone lui si stacca dal centrale, si allarga verso il terzino sinistro, Junior, gli si mette davanti e prende la rincorsa. Poi si lancia nello spazio tra i due difensori. Al di là dei trofei, dei riconoscimenti di squadra e individuali (nella mostra al Centro Pecci, l’artista Mir aveva accumulato 2500 trofei che le avevano donato delle persone, tutti speciali e con una storia da raccontare, ma tutti insieme assolutamente irrilevanti) è in gol di questo tipo di gol che si nasconde l’essenza del calcio, con cui Paolo Rossi era in contatto.
È un gol che Paolo Rossi avrebbe fatto in qualsiasi categoria, anche se non fosse diventato calciatore professionista, come a un certo punto pensava – se non fosse diventato Pablito nazionale. Ed è un gol a suo modo eterno, che potrebbe decidere anche la finale del prossimo Mondiale. Finché esisterà il calcio gli attaccanti segneranno di testa, saltando sul secondo palo tra due difensori. Soprattutto, ogni volta che vedrò un gol del genere mi tornerà in mente Paolo Rossi, e quel giorno del marzo di due anni fa in cui mi era parso così vitale e in forma che, pensavo, se avessimo giocato quello stesso pomeriggio e avessi dovuto marcarlo in area di rigore mi avrebbe fregato nove volte su dieci, nonostante la differenza di età.