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Umberto Preite Martinez
La grandezza di Bettini non aveva a che fare con le vittorie
28 set 2018
28 set 2018
Ricordo di uno dei più grandi ciclisti italiani.
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Umberto Preite Martinez
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Come al Mondiale del 2008, a Varese, la sua ultima gara. Tutti si aspettano che lasci col botto, alla sua maniera. Invece Bettini rimane fermo, sono i suoi compagni a scattare a ripetizione. Uno dopo l'altro scappano al controllo degli avversari, mentre i grandi favoriti rimangono dietro, a marcare l’uomo da battere, Bettini per l’appunto. Aspettano uno scatto che non ci sarà mai.

 

È Bettini che, semplicemente rimanendo fermo, immobile, ad aspettare, fa fuori dai giochi tutti i principali favoriti. Poi, certo, servono anche le gambe del singolo, e allora ecco lo scatto di Alessandro Ballan in Piazza Monte Grappa, all'ultimo giro: l'esempio perfetto di pura potenza. E poi il gioco di squadra dei suoi compagni, Cunego e Rebellin, che stoppano ogni tentativo degli avversari di andare a riprenderlo.

 


BALLAAAAAAAAAAAAAAN!


 

Era il terzo Mondiale di fila che si concludeva con il tricolore italiano a sventolare sul pennone più alto, anche grazie al genio tattico del CT Franco Ballerini, dopo i due trionfi di Paolo Bettini, a Salisburgo nel 2006 e a Stoccarda nel 2007. Due Mondiali che Bettini aveva vinto con grande forza, ma sempre finalizzando un enorme lavoro di squadra, sfiancando i suoi avversari con scatti a ripetizione fino allo sfinimento, e poi demolendoli in volata.

 

Il ciclismo è uno sport individuale a squadre, se così si può dire. Perché si corre in squadra, si vince di squadra, ma poi quello che resta negli almanacchi è il nome del singolo vincitore. Ciò che rende appassionante questo sport non è tanto la vittoria, o almeno non solo: quello che ci interessa, più che altro, sono tutti quei piccoli gesti di contorno, ogni singolo anello della catena che ha portato un uomo da solo alla vittoria. Quella è, per me, l'essenza del ciclismo. Ed è sempre questo il motivo che spiega la grandezza di Bettini.

 





 



 



 



 

Se guardi una corsa dal vivo in realtà non vedi la corsa, non la vedi nel suo svolgersi per intero, non capisci davvero cosa stia succedendo. Sai solo che a un certo punto il gruppo passerà da quella porzione di strada che si intravede dalla sommità del muro sul quale sei appollaiato da ore.

 

È più comodo guardarla da casa: è più facile, più bello. Da casa, in televisione, riesci a seguire tutta la corsa in diretta. Certo, anche starsene sei ore seduti sul divano a guardare duecento persone che pedalano su una strada dritta non è che sia la cosa più facile del mondo, ma sicuramente un divano è più comodo rispetto alla cima di un muro a bordo strada.

 

Poi ti passano davanti a una velocità che non riesci a comprendere. Ore di attesa e poi eccoli lì, e via. Quando il gruppo è passato, quando è tutto finito, rimani lì un altro po', come a goderti ancora per qualche minuto quel momento. Non lo si fa tanto per



 

Bettini di solito faceva esplodere le corse molto presto, lontano dal traguardo, nei momenti più impensabili ma anche più belli e significativi. Vinse una Liegi-Bastogne-Liegi scattando sulla Redoute, una Milano-Sanremo partendo sul Poggio, un Lombardia salutando tutta la compagnia sul Ghisallo. Salite storiche, che hanno segnato per sempre questo sport. Salite che un tempo erano decisive, in un ciclismo eroico che non c'è più, quando si attaccava a 100 km dal traguardo quasi solo per il gusto di fare un'impresa. Oggi quelle salite sono passate in secondo piano. Vuoi perché troppo lontane dall'arrivo, come la Redoute o il Ghisallo, vuoi perché ormai troppo facili anche per i velocisti, come spesso accade al Poggio, visti i miglioramenti generali dei materiali oltre che delle tecniche di allenamento e dell'organizzazione maniacale delle squadre in corsa.

 

In questo senso, Bettini è il trait-d'union fra il ciclismo eroico e quello moderno. Perché faceva cose impensabili nel contesto del ciclismo contemporaneo, che ti spingevano ad alzarti in piedi dallo stupore, o ad arrampicarti su un muro a bordo strada per riuscire a vederlo dal vivo.

 

Eppure Bettini non sembrava certo un eroe classico. Quando lo vidi dal vivo a Milano, all'arrivo del Giro d'Italia del 2015, davanti al palco delle premiazioni, mi sembrò un uomo estremamente normale: basso, pelato, anche con un po' di pancetta. Non un eroe, insomma, ma più che altro un uomo comune consacrato all'eroismo.

 





 



Ci sono due corse nella carriera di Paolo Bettini che ne segnano drasticamente la vita di ciclista e di uomo. Le Olimpiadi di Atene del 2004, innanzitutto. Bettini, come avrete ormai capito, parte in un momento apparentemente innocuo, quando il traguardo è ancora solo un miraggio. Non è un caso che l'unico a seguirlo è un perfetto sconosciuto. Nessuno sa chi sia, perché “l'unico portoghese forte che conosciamo è José Azevedo”, dice in diretta Auro Bulbarelli cercando di rompere l'imbarazzo. Ma non è lui, si chiama Sergio Paulinho. Oltre a lui, da dietro, si muove solo Axel Merckx, un altro che di vincere non gli passava neanche per la testa.

 

Tutti i principali favoriti lo guardano andar via senza poter far nulla. Semplicemente non capiscono chi glielo fa fare, pensando di poterlo andare a riprendere in ogni momento.

 


Bettini attacca a due giri dalla fine e sgretola il gruppo. Vinokourov, un altro con una visione delle gare molto particolare, cerca di seguirlo ma poi si rialza. Paulinho è l’unico che asseconda la follia del “Grillo”.


 

L’ordine di arrivo rimane quello: Bettini vince l'oro alle Olimpiadi; l'argento va a Sergio Paulinho; il bronzo se lo prende Axel Merckx che in tanti anni di carriera non ha mai vinto nulla che il padre non avesse già vinto prima di lui, tranne, per l’appunto, una medaglia alle Olimpiadi. Quella vittoria sembra essere la definitiva consacrazione di un campione. Ma non lo è.

 


La cosa che più colpisce nel riguardare queste vecchie foto è lo sguardo mentre alza le braccia al cielo: un po’ commosso, un po’ incredulo. Come se neanche lui credesse davvero alle sue visioni.


 



 

Oggi le squadre sono molto più organizzate e anche in percorsi più o meno nervosi riescono facilmente a tenere la corsa chiusa fino agli ultimi chilometri. La vera rivoluzione in tal senso era già partita con la US Postal di Lance Armstrong che grazie alla superiorità della squadra teneva a bada facilmente tutti i suoi avversari prima di piazzare la stoccata nei chilometri finali.

 

Un altro fattore da tenere sempre in considerazione è il sistema a punti del World Tour, nato nel 2011. All'epoca di Bettini, l'unica cosa davvero importante era vincere e basta. Non contavano i piazzamenti, perché l'obiettivo era entrare nella storia di questo sport, lasciare una traccia, l'impronta di un'impresa sulle orme dei grandi campioni del passato.

 

Oggi invece le squadre si preoccupano più di fare punti per il World Tour, e giocarsi la vittoria a viso aperto è considerato un rischio eccessivo di fronte alla ricerca di un buon piazzamento. Gli ultimi Tour de France sono davvero emblematici in tal senso: davanti al predominio di Chris Froome e del Team Sky, non è raro vedere gli avversari sfidarsi per le posizioni di rincalzo senza mai provare ad attaccare davvero. Una situazione di immobilismo perenne che porta a una corsa “a selezione naturale”: tutti agganciati al trenino degli Sky con l’unico pensiero di difendere il proprio piazzamento, che vale punti World Tour e, soprattutto, l’opportunità di portarsi a casa un po’ di soldi extra.

 



 

A cristallizzare ulteriormente le cose ci sono poi gli sponsor, che hanno in questa particolare classifica l'unico punto di riferimento oggettivo per valutare l'andamento della squadra (e quindi stabilire i fondi da destinare per la stagione successiva). Bettini, a differenza dei suoi successori, era ancora immune a tutto questo.

 



 

Il 25 settembre 2006, Paolo Bettini trionfava ai Mondiali di Salisburgo dopo una gara incredibile, battendo in volata Eric Zabel e Alejandro Valverde. Subito dopo il traguardo alzò la sua bicicletta più in alto che poteva, mentre una folla oceanica si stringeva attorno a lui quasi sommergendolo. Pochi giorni dopo, un incidente stradale si portava via per sempre suo fratello Sauro. Erano cresciuti insieme, fianco a fianco, condividendo tutto. Due fratelli partiti da La California, non uno degli Stati Uniti, ovviamente, ma un piccolo paesino in provincia di Livorno.

 


La gioia di Bulbarelli è incontenibile. Cassani prova a inserirsi ma è un vano tentativo, e il suo urlo gli rimane in gola, strozzato a metà.


 



 



 

Si potrebbe dire che quella gara era a fine stagione, e che quindi le squadre erano più stanche. Aggiungere che organizzare un inseguimento in una corsa così nervosa com'era quel Lombardia, in quel periodo dell'anno, era cosa molto difficile. Ma così facendo si continua a toccare solo una parte della realtà. Perché se è vero che le squadre sono stanche, è anche vero che tutti partono con le stesse possibilità. Si tratta sempre di due gambe che spingono sui pedali. Non c'è altro.

 



 

Anche l'UCI, l'Unione Ciclistica Internazionale (la FIFA del ciclismo, per intenderci), volle fare la sua parte obbligando i ciclisti a firmare l'autorizzazione a tutta una serie di controlli aggiuntivi e adottando alcune misure esemplari in caso di positività (una su tutte, l'obbligo per il ciclista trovato positivo di “restituire” un anno del proprio stipendio). Misure volute da Pat McQuaid (ex presidente dell’UCI) per mostrare all’opinione pubblica di star reagendo agli scandali doping. Indicativo, in questo senso, che a proporre questo codice etico fu proprio l'uomo che verrà politicamente spazzato via dall'esplosione dello scandalo Armstrong.

 



 


Il podio del Mondiale 2006, con Valverde e Zabel (foto di Franck Fife / Getty Images)


 

La motivazione pubblica Bettini la spiega in molte interviste: quei controlli sono gli stessi che da anni effettuava anche la WADA (l'agenzia mondiale antidoping). «



 



 



 

«All'UCI ho inviato lo scorso 10 luglio una lettera raccomandata di adesione, tutelandomi con il contributo di un legale: mi hanno risposto con una mail che la mia lettera non era stata presa in considerazione perché diversa formalmente dalle altre dei miei colleghi». Bettini cerca di difendersi con rabbia, dice che quel protocollo lui l'ha firmato ma “con riserva”.

 



 



 

Ma non c'è spazio per fare la differenza così e allora se li trascina tutti in volata. Parte lungo Evans, che sa di essere già battuto, Kolobnev gli prende la ruota e lo salta facilmente. Bettini è dietro, Bettini rimonta, Bettini lo supera, Bettini vince.

 


Un'altra perla di Auro Bulbarelli


 



 

Certo, ha vinto per due volte la Liegi-Bastogne-Liegi e il Giro di Lombardia, una Milano-Sanremo, due Mondiali di fila e un'Olimpiade, tante tappe qua e là al Giro d'Italia, al Tour de France e alla Vuelta à España. E ancora la Tirreno-Adriatico, il Campionato di Zurigo, il San Sebastian. In tutto, 68 vittorie in 12 anni di professionismo.

 

Ma se teniamo presente il fatto che ha corso da capitano unico in tutte le sue squadre dal 2000 al 2008, il risultato è che sì, ha vinto tante corse importanti, ma forse con una conduzione di gara più oculata avrebbe vinto anche di più. O forse avrebbe vinto corse diverse.

 

Alejandro Valverde, il suo grande rivale, ha vinto molto più di lui. Ma l'ha fatto nascondendosi, aspettando l'attimo giusto senza scoprirsi mai, senza rischiare nulla. Rimanendo sornione là davanti e poi battendo i suoi avversari in volata. Non ha mai vinto il Mondiale, questo è vero, ma ha vinto due Liegi in più e altre corse importanti fra cui la Vuelta del 2009.

 

Bettini, insomma, alla luce del suo talento, avrebbe sicuramente potuto vincere di più nella sua carriera, ma, in un certo senso, non sarebbe stato Bettini. Non avrebbe costretto migliaia di appassionati a rimanere incollati davanti a uno schermo le domeniche di aprile ad attendere un suo scatto, o addirittura a scendere per la strada per vederlo dal vivo anche solo per un breve istante.

 

Le cause del suo ritiro sono dolorose. La Quick Step, la sua squadra da sempre, scelse di non rinnovargli il contratto preferendogli Stefan Schumacher, capitano della Gerolsteiner. Dopo l'annuncio, Bettini vinse due tappe alla Vuelta, nascondendo il nome dello sponsor.

 

Pochi mesi dopo, il 6 Ottobre 2008, Schumacher venne trovato positivo (come altre meteore di quella squadra, come Bernie Kohl). La Gerolsteiner chiuse i battenti, la Quick Step si ritrovò senza un uomo di punta per le Classiche delle Ardenne e Bettini, con il numero uno sulla schiena, scelse di ritirarsi, diventando immediatamente leggenda.

 

La grandezza di Bettini ha poco a che vedere con le sue vittorie. Il suo stile era e rimane inimitabile, frutto di un controllo assoluto e di un rapporto organico con la bicicletta e con il suo corpo. Non solo per la capacità di esprimere una stupefacente combinazione di potenza, leggerezza e agilità, ma anche e soprattutto per la caleidoscopica capacità di rendersi competitivo su ogni terreno, di poter vincere in qualunque situazione e in qualunque modo.

 

Bettini è stato l’ultimo a riuscire a stupire il pubblico con una tale capacità. Splendido tramonto di un ciclismo che non esiste più.

 

 

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