Nello sport ci sono tanti esempi di uomini o squadre il cui lascito va ben al di là dei risultati sportivi. Non vorrei scomodare la grande Ungheria del ‘54 e l’Olanda di Cruijff come esempi nel calcio, o l’eterno secondo Raymond Poulidor o “El Diablo” Chiappucci nel ciclismo. Eppure inserire Paolo Bettini può avere il suo senso.
Non tanto per i successi - i due titoli iridati consecutivi, la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene e tanti altri successi di prestigio - perché Bettini ha probabilmente vinto meno di quanto il suo talento gli avrebbe consentito. Non sono le vittorie ad averlo portato nel ristretto circolo dei ciclisti più amati di sempre, non è per questo che lo ricordiamo né è il motivo di questo articolo.
Bettini non ha nemmeno rivoluzionato il ciclismo, tutt’altro: è stato l’ultimo interprete di un ciclismo che non esiste più, fatto di attacchi in momenti impensabili, lontano dal traguardo. Sfide a viso aperto contro tutti gli avversari, all’ultimo respiro. Paolo Bettini sembrava sempre che riuscisse a vedere qualcosa che gli altri non sapevano neanche immaginare.
Come al Mondiale del 2008, a Varese, la sua ultima gara. Tutti si aspettano che lasci col botto, alla sua maniera. Invece Bettini rimane fermo, sono i suoi compagni a scattare a ripetizione. Uno dopo l'altro scappano al controllo degli avversari, mentre i grandi favoriti rimangono dietro, a marcare l’uomo da battere, Bettini per l’appunto. Aspettano uno scatto che non ci sarà mai.
È Bettini che, semplicemente rimanendo fermo, immobile, ad aspettare, fa fuori dai giochi tutti i principali favoriti. Poi, certo, servono anche le gambe del singolo, e allora ecco lo scatto di Alessandro Ballan in Piazza Monte Grappa, all'ultimo giro: l'esempio perfetto di pura potenza. E poi il gioco di squadra dei suoi compagni, Cunego e Rebellin, che stoppano ogni tentativo degli avversari di andare a riprenderlo.
BALLAAAAAAAAAAAAAAN!
Era il terzo Mondiale di fila che si concludeva con il tricolore italiano a sventolare sul pennone più alto, anche grazie al genio tattico del CT Franco Ballerini, dopo i due trionfi di Paolo Bettini, a Salisburgo nel 2006 e a Stoccarda nel 2007. Due Mondiali che Bettini aveva vinto con grande forza, ma sempre finalizzando un enorme lavoro di squadra, sfiancando i suoi avversari con scatti a ripetizione fino allo sfinimento, e poi demolendoli in volata.
Il ciclismo è uno sport individuale a squadre, se così si può dire. Perché si corre in squadra, si vince di squadra, ma poi quello che resta negli almanacchi è il nome del singolo vincitore. Ciò che rende appassionante questo sport non è tanto la vittoria, o almeno non solo: quello che ci interessa, più che altro, sono tutti quei piccoli gesti di contorno, ogni singolo anello della catena che ha portato un uomo da solo alla vittoria. Quella è, per me, l'essenza del ciclismo. Ed è sempre questo il motivo che spiega la grandezza di Bettini.
Dall’eroismo alla modernità
«Io non ero un predestinato. Il ciclismo significava stare con gli amici, praticare uno sport, andare in ritiro, dormire una notte fuori, fare quasi una vacanza», diceva Bettini di se stesso ormai più di dieci anni fa.
È vero, non era un predestinato. Dopo il quarto posto (e le lacrime amare) ai Mondiali U23 del 1996, dietro agli altri tre azzurri Figueras, Sgambelluri e Sironi, Bettini ha iniziato la sua carriera fra i professionisti nel 1997 come gregario per Michele Bartoli, un altro fuoriclasse troppo spesso dimenticato. Silenziosamente iniziò a ritagliarsi un suo piccolo spazio all’interno della squadra più competitiva nelle corse di un giorno dell’epoca, la Mapei, fino alla grande occasione alla Liegi-Bastogne-Liegi del 2000. L’assenza del capitano Bartoli lasciava spazio alle seconde punte della Mapei, come Andrea Tafi. Ma sulla strada, i gradi di capitano passarono ben presto sulle spalle del giovane Bettini, 5° al traguardo nell’edizione di dodici mesi prima.
In fuga con Rebellin ed Etxebarria, Bettini vinse con rabbia quello sprint a tre e da semplice gregario arrivò dritto fra le stelle del ciclismo mondiale. Da lì a pochi anni sarebbe diventato uno dei ciclisti più amati della sua generazione. Uno di quelli che ti spingevano a uscire di casa per ammirarlo anche solo per pochi istanti.
Personalmente, mi ha spinto ad uscire di casa per ben tre volte. È difficile descrivere a parole cosa induca un ragazzo ad arrampicarsi in cima a un muro per riuscire a vedere l'arrivo di una tappa del Giro d'Italia. Ancora più difficile è spiegarlo per una tappa della Tirreno-Adriatico, come quella di Frascati, in provincia di Roma, dove lo vidi due volte.
Se guardi una corsa dal vivo in realtà non vedi la corsa, non la vedi nel suo svolgersi per intero, non capisci davvero cosa stia succedendo. Sai solo che a un certo punto il gruppo passerà da quella porzione di strada che si intravede dalla sommità del muro sul quale sei appollaiato da ore.
È più comodo guardarla da casa: è più facile, più bello. Da casa, in televisione, riesci a seguire tutta la corsa in diretta. Certo, anche starsene sei ore seduti sul divano a guardare duecento persone che pedalano su una strada dritta non è che sia la cosa più facile del mondo, ma sicuramente un divano è più comodo rispetto alla cima di un muro a bordo strada.
Poi ti passano davanti a una velocità che non riesci a comprendere. Ore di attesa e poi eccoli lì, e via. Quando il gruppo è passato, quando è tutto finito, rimani lì un altro po', come a goderti ancora per qualche minuto quel momento. Non lo si fa tanto per vedere la corsa. Più che altro è un rito. Si fa così, dogmaticamente.
Bettini di solito faceva esplodere le corse molto presto, lontano dal traguardo, nei momenti più impensabili ma anche più belli e significativi. Vinse una Liegi-Bastogne-Liegi scattando sulla Redoute, una Milano-Sanremo partendo sul Poggio, un Lombardia salutando tutta la compagnia sul Ghisallo. Salite storiche, che hanno segnato per sempre questo sport. Salite che un tempo erano decisive, in un ciclismo eroico che non c'è più, quando si attaccava a 100 km dal traguardo quasi solo per il gusto di fare un'impresa. Oggi quelle salite sono passate in secondo piano. Vuoi perché troppo lontane dall'arrivo, come la Redoute o il Ghisallo, vuoi perché ormai troppo facili anche per i velocisti, come spesso accade al Poggio, visti i miglioramenti generali dei materiali oltre che delle tecniche di allenamento e dell'organizzazione maniacale delle squadre in corsa.
In questo senso, Bettini è il trait-d'union fra il ciclismo eroico e quello moderno. Perché faceva cose impensabili nel contesto del ciclismo contemporaneo, che ti spingevano ad alzarti in piedi dallo stupore, o ad arrampicarti su un muro a bordo strada per riuscire a vederlo dal vivo.
Eppure Bettini non sembrava certo un eroe classico. Quando lo vidi dal vivo a Milano, all'arrivo del Giro d'Italia del 2015, davanti al palco delle premiazioni, mi sembrò un uomo estremamente normale: basso, pelato, anche con un po' di pancetta. Non un eroe, insomma, ma più che altro un uomo comune consacrato all'eroismo.
Foto di David Mariuz / Stringer
L'apoteosi
Ci sono due corse nella carriera di Paolo Bettini che ne segnano drasticamente la vita di ciclista e di uomo. Le Olimpiadi di Atene del 2004, innanzitutto. Bettini, come avrete ormai capito, parte in un momento apparentemente innocuo, quando il traguardo è ancora solo un miraggio. Non è un caso che l'unico a seguirlo è un perfetto sconosciuto. Nessuno sa chi sia, perché “l'unico portoghese forte che conosciamo è José Azevedo”, dice in diretta Auro Bulbarelli cercando di rompere l'imbarazzo. Ma non è lui, si chiama Sergio Paulinho. Oltre a lui, da dietro, si muove solo Axel Merckx, un altro che di vincere non gli passava neanche per la testa.
Tutti i principali favoriti lo guardano andar via senza poter far nulla. Semplicemente non capiscono chi glielo fa fare, pensando di poterlo andare a riprendere in ogni momento.
Bettini attacca a due giri dalla fine e sgretola il gruppo. Vinokourov, un altro con una visione delle gare molto particolare, cerca di seguirlo ma poi si rialza. Paulinho è l’unico che asseconda la follia del “Grillo”.
L’ordine di arrivo rimane quello: Bettini vince l'oro alle Olimpiadi; l'argento va a Sergio Paulinho; il bronzo se lo prende Axel Merckx che in tanti anni di carriera non ha mai vinto nulla che il padre non avesse già vinto prima di lui, tranne, per l’appunto, una medaglia alle Olimpiadi. Quella vittoria sembra essere la definitiva consacrazione di un campione. Ma non lo è.
La cosa che più colpisce nel riguardare queste vecchie foto è lo sguardo mentre alza le braccia al cielo: un po’ commosso, un po’ incredulo. Come se neanche lui credesse davvero alle sue visioni.
Vedere il traguardo
C’è da dire che le imprese di Bettini avevano il loro senso in un ciclismo molto diverso da quello che conosciamo adesso.
Oggi le squadre sono molto più organizzate e anche in percorsi più o meno nervosi riescono facilmente a tenere la corsa chiusa fino agli ultimi chilometri. La vera rivoluzione in tal senso era già partita con la US Postal di Lance Armstrong che grazie alla superiorità della squadra teneva a bada facilmente tutti i suoi avversari prima di piazzare la stoccata nei chilometri finali.
Un altro fattore da tenere sempre in considerazione è il sistema a punti del World Tour, nato nel 2011. All'epoca di Bettini, l'unica cosa davvero importante era vincere e basta. Non contavano i piazzamenti, perché l'obiettivo era entrare nella storia di questo sport, lasciare una traccia, l'impronta di un'impresa sulle orme dei grandi campioni del passato.
Oggi invece le squadre si preoccupano più di fare punti per il World Tour, e giocarsi la vittoria a viso aperto è considerato un rischio eccessivo di fronte alla ricerca di un buon piazzamento. Gli ultimi Tour de France sono davvero emblematici in tal senso: davanti al predominio di Chris Froome e del Team Sky, non è raro vedere gli avversari sfidarsi per le posizioni di rincalzo senza mai provare ad attaccare davvero. Una situazione di immobilismo perenne che porta a una corsa “a selezione naturale”: tutti agganciati al trenino degli Sky con l’unico pensiero di difendere il proprio piazzamento, che vale punti World Tour e, soprattutto, l’opportunità di portarsi a casa un po’ di soldi extra.
Il World Tour non è altro che una grande classifica all'interno della quale sono state inserite tutte le più importanti corse del calendario (a volte considerando il punto di vista storico-sportivo, ma più spesso solamente quello economico), senza distinzione riguardo alla tipologia della corsa. Si sono quindi mischiati in un unico calderone i Grandi Giri, le Classiche Monumento, le brevi corse a tappe di una settimana e le altre corse di un giorno più o meno rinomate. Alla fine della stagione si tirano le somme e si stila la classifica in base ai piazzamenti ottenuti dalle squadre nelle corse World Tour. In teoria, l'ultima squadra in classifica dovrebbe “retrocedere” nella categoria delle Professional. In pratica questo non avviene mai per semplici motivi economici, dando vita al cosiddetto sistema a licenze bloccate.
A cristallizzare ulteriormente le cose ci sono poi gli sponsor, che hanno in questa particolare classifica l'unico punto di riferimento oggettivo per valutare l'andamento della squadra (e quindi stabilire i fondi da destinare per la stagione successiva). Bettini, a differenza dei suoi successori, era ancora immune a tutto questo.
Inferno e paradiso
La seconda vittoria che ci dà l'idea di cosa abbia rappresentato Bettini è il Giro di Lombardia del 2006.
Il 25 settembre 2006, Paolo Bettini trionfava ai Mondiali di Salisburgo dopo una gara incredibile, battendo in volata Eric Zabel e Alejandro Valverde. Subito dopo il traguardo alzò la sua bicicletta più in alto che poteva, mentre una folla oceanica si stringeva attorno a lui quasi sommergendolo. Pochi giorni dopo, un incidente stradale si portava via per sempre suo fratello Sauro. Erano cresciuti insieme, fianco a fianco, condividendo tutto. Due fratelli partiti da La California, non uno degli Stati Uniti, ovviamente, ma un piccolo paesino in provincia di Livorno.
La gioia di Bulbarelli è incontenibile. Cassani prova a inserirsi ma è un vano tentativo, e il suo urlo gli rimane in gola, strozzato a metà.
Due settimane dopo, il 14 ottobre, si correva il Giro di Lombardia, la “Classica delle foglie morte”. Quel giorno Paolo Bettini scattò una prima volta sul Ghisallo portandosi dietro il solo Fabian Wegmann. Poi lasciò lì anche lui, prima di involarsi verso il traguardo, da solo. Le braccia alzate al cielo per un attimo, prima di scendere sul volto a coprire un'espressione di sincera commozione.
Paolo Bettini voleva vincere più di ogni altra cosa al mondo, e quel giorno lo fece alla sua maniera. Di gambe, di cuore, con quel barlume di follia che ci ha fatto innamorare di lui più di una volta. Era il favorito numero uno e correva su un percorso che sembrava dipinto apposta per le sue caratteristiche. Avrebbe potuto vincere in mille modi diversi ma decise di farlo così. E quando vedi un uomo partire da solo lontano dal traguardo, essere raggiunto e partire di nuovo e poi rilanciare l'azione ancora e ancora mentre dietro nessuno riesce a stargli dietro, c'è qualcosa che non capisci. Forse non si può cercare di interpretare con la logica quello che fece in quel 2006, perché non c'era logica nel suo modo di correre.
Si potrebbe dire che quella gara era a fine stagione, e che quindi le squadre erano più stanche. Aggiungere che organizzare un inseguimento in una corsa così nervosa com'era quel Lombardia, in quel periodo dell'anno, era cosa molto difficile. Ma così facendo si continua a toccare solo una parte della realtà. Perché se è vero che le squadre sono stanche, è anche vero che tutti partono con le stesse possibilità. Si tratta sempre di due gambe che spingono sui pedali. Non c'è altro.
Contro tutti
Gli anni fra il 2006 e il 2010 sono stati anni difficili per il ciclismo. Dopo lo scandalo della Operacion Puerto dell'estate 2006, ci fu il cosiddetto periodo della “caccia alle streghe”. I controlli vennero irrigiditi e intensificati, si partì con il progetto del Passaporto Biologico e si proseguì con vari protocolli etici che si susseguirono negli anni.
Anche l'UCI, l'Unione Ciclistica Internazionale (la FIFA del ciclismo, per intenderci), volle fare la sua parte obbligando i ciclisti a firmare l'autorizzazione a tutta una serie di controlli aggiuntivi e adottando alcune misure esemplari in caso di positività (una su tutte, l'obbligo per il ciclista trovato positivo di “restituire” un anno del proprio stipendio). Misure volute da Pat McQuaid (ex presidente dell’UCI) per mostrare all’opinione pubblica di star reagendo agli scandali doping. Indicativo, in questo senso, che a proporre questo codice etico fu proprio l'uomo che verrà politicamente spazzato via dall'esplosione dello scandalo Armstrong.
Gli unici a non firmare furono i ciclisti spagnoli, spalleggiati dalla propria Federazione. Oltre a loro, il solo Paolo Bettini, l'uomo del momento, il campione del Mondo uscente.
Il podio del Mondiale 2006, con Valverde e Zabel (foto di Franck Fife / Getty Images)
La motivazione pubblica Bettini la spiega in molte interviste: quei controlli sono gli stessi che da anni effettuava anche la WADA (l'agenzia mondiale antidoping). «È dal '97 che i ciclisti hanno accettato di sottoporsi ai controlli del sangue e dell'urina. Di fatto è dal '97 che hanno un'infinità di dati su ogni atleta». Altro punto cruciale è la restituzione di un anno di stipendio in caso di positività: «la parte etica l'avevo sottoscritta a suo tempo. Non mi possono accusare di non essere allineato sulla lotta al doping. [...] È vero, sono in disaccordo sulla parte economica, ma questa non è etica». E in più, questo nuovo “codice etico” è nient'altro che un ricatto, “una misura coercitiva e un'estorsione”, la mossa dell'UCI per pulirsi la coscienza fingendo di non vedere.
McQuaid minaccia Bettini di una clamorosa esclusione dal Mondiale di Stoccarda. Addirittura è Susanne Eisenmann, assessore allo sport e presidente del comitato organizzatore dei Mondiali 2007, a rivolgersi al Tribunale di Stoccarda per far sì che Bettini venga escluso.
Dietro alla reazione della politica c’è il tentativo di richiudere le crepe che gli scandali doping hanno aperto nel ciclismo tedesco. Dopo l'Operacion Puerto, nella quale era stato coinvolto anche Ullrich, o “Kaiser Jan” come era chiamato in Germania, a fare outing furono altri due pilastri del movimento tedesco del calibro di Jaksche e Zabel, oltre alla giovane promessa Sinkewitz, trovato positivo al testosterone durante il Tour de France di quell'anno. Le televisioni tedesche minacciavano di non voler più trasmettere il ciclismo e le istituzioni sportive cercavano di correre ai ripari. Lo stesso Wolfgang Schäuble, allora ministro dell'Interno tedesco, dichiarò che la partecipazione di Paolo Bettini ai Mondiali di Stoccarda avrebbe distrutto «la credibilità della battaglia comune contro il doping nel mondo del ciclismo».
«All'UCI ho inviato lo scorso 10 luglio una lettera raccomandata di adesione, tutelandomi con il contributo di un legale: mi hanno risposto con una mail che la mia lettera non era stata presa in considerazione perché diversa formalmente dalle altre dei miei colleghi». Bettini cerca di difendersi con rabbia, dice che quel protocollo lui l'ha firmato ma “con riserva”.
Alla fine corre lo stesso, incurante di tutto e con in mente un'idea fissa: vincere. «Se mi fanno questo alla vigilia di un Mondiale per destabilizzarmi sappiano che io il Mondiale a Stoccarda glielo rivinco apposta», dichiara quasi per dispetto.
A 15 km dal traguardo, Bettini parte di rabbia, trascinandosi dietro Schumacher e Frank Schleck. Da dietro, in discesa, rientrano Kolobnev e Cadel Evans. Bettini riparte ancora, e poi ancora. Negli ultimi 10 chilometri di quel Mondiale attacca su ogni zampellotto, su ogni piccola rampa, ogni volta che la strada sale anche se solo per pochi metri.
Ma non c'è spazio per fare la differenza così e allora se li trascina tutti in volata. Parte lungo Evans, che sa di essere già battuto, Kolobnev gli prende la ruota e lo salta facilmente. Bettini è dietro, Bettini rimonta, Bettini lo supera, Bettini vince.
Un'altra perla di Auro Bulbarelli
Perché Bettini
Se davvero era così semplice, se davvero bastava attaccare sempre e comunque, allora perché proprio lui e nessun altro? Innanzitutto perché lui sapeva di poter vincere solo in quel modo. Ma la realtà ancora più crudele e desolante è che, spesso, Bettini non vinceva.
Certo, ha vinto per due volte la Liegi-Bastogne-Liegi e il Giro di Lombardia, una Milano-Sanremo, due Mondiali di fila e un'Olimpiade, tante tappe qua e là al Giro d'Italia, al Tour de France e alla Vuelta à España. E ancora la Tirreno-Adriatico, il Campionato di Zurigo, il San Sebastian. In tutto, 68 vittorie in 12 anni di professionismo.
Ma se teniamo presente il fatto che ha corso da capitano unico in tutte le sue squadre dal 2000 al 2008, il risultato è che sì, ha vinto tante corse importanti, ma forse con una conduzione di gara più oculata avrebbe vinto anche di più. O forse avrebbe vinto corse diverse.
Alejandro Valverde, il suo grande rivale, ha vinto molto più di lui. Ma l'ha fatto nascondendosi, aspettando l'attimo giusto senza scoprirsi mai, senza rischiare nulla. Rimanendo sornione là davanti e poi battendo i suoi avversari in volata. Non ha mai vinto il Mondiale, questo è vero, ma ha vinto due Liegi in più e altre corse importanti fra cui la Vuelta del 2009.
Bettini, insomma, alla luce del suo talento, avrebbe sicuramente potuto vincere di più nella sua carriera, ma, in un certo senso, non sarebbe stato Bettini. Non avrebbe costretto migliaia di appassionati a rimanere incollati davanti a uno schermo le domeniche di aprile ad attendere un suo scatto, o addirittura a scendere per la strada per vederlo dal vivo anche solo per un breve istante.
Le cause del suo ritiro sono dolorose. La Quick Step, la sua squadra da sempre, scelse di non rinnovargli il contratto preferendogli Stefan Schumacher, capitano della Gerolsteiner. Dopo l'annuncio, Bettini vinse due tappe alla Vuelta, nascondendo il nome dello sponsor.
Pochi mesi dopo, il 6 Ottobre 2008, Schumacher venne trovato positivo (come altre meteore di quella squadra, come Bernie Kohl). La Gerolsteiner chiuse i battenti, la Quick Step si ritrovò senza un uomo di punta per le Classiche delle Ardenne e Bettini, con il numero uno sulla schiena, scelse di ritirarsi, diventando immediatamente leggenda.
La grandezza di Bettini ha poco a che vedere con le sue vittorie. Il suo stile era e rimane inimitabile, frutto di un controllo assoluto e di un rapporto organico con la bicicletta e con il suo corpo. Non solo per la capacità di esprimere una stupefacente combinazione di potenza, leggerezza e agilità, ma anche e soprattutto per la caleidoscopica capacità di rendersi competitivo su ogni terreno, di poter vincere in qualunque situazione e in qualunque modo.
Bettini è stato l’ultimo a riuscire a stupire il pubblico con una tale capacità. Splendido tramonto di un ciclismo che non esiste più.