Una delle cose più strane che si possono dire su quest’ultimo Pallone d’Oro è che erano 66 anni che non lo vinceva per la prima volta un calciatore di almeno 34 anni. Per trovare una persona più anziana di Karim Benzema ad aver alzato per la prima volta il Pallone d’Oro bisogna tornare a Stanley Matthews, che quando l’ha vinto di anni ne aveva addirittura 41, ma parliamo del calcio dei palloni di cuoio con la cucitura esterna, le magliette di lana e i video in bianco e nero accelerati. Allora anche il Pallone d’Oro si dava con altri criteri: alla fine della stagione 1955/56 Matthews non aveva vinto nemmeno il campionato inglese (arrivò secondo con il Blackpool dietro il Manchester United). Possiamo dire con discreta sicurezza, quindi, che Benzema è il giocatore più anziano di sempre a vincere per la prima volta il Pallone d’Oro per come lo conosciamo oggi, che è una statistica che getta una luce ambigua su un’assegnazione che invece a prima vista ci sembra incontrovertibile.
C’è chi ha detto, credo proprio alla luce di questa statistica, che questo Pallone d’Oro è stato il premio di chi ha saputo aspettare. Lo ha scritto per esempio Rory Smith sul New York Times, alludendo alla fine dell’era Messi-Cristiano Ronaldo (quest’ultimo fuori dalla top 10 del premio per la prima volta dal 2006), lo hanno suggerito diverse card sui social, come questa che vedete qui sotto.
Ancora prima di questo Pallone d’Oro era piuttosto diffusa la convinzione che la crescita di Benzema negli ultimi anni fosse dovuta al vuoto lasciato al Real Madrid da Cristiano Ronaldo, come se il campo non fosse un campo ma un palcoscenico dove i calciatori sgomitano per mettersi in mostra. Adesso Benzema può finalmente mostrare chi è davvero, si diceva. Eppure Cristiano Ronaldo ha lasciato il Real Madrid nell’estate del 2018 e da quel momento Benzema non ha mai avuto una stagione nemmeno lontanamente avvicinabile a quella che si è chiusa alla fine dello scorso maggio. Lo scorso anno Benzema ha segnato quattro gol in campionato in più rispetto all’anno precedente e più del doppio in Champions League, e il confronto diventa ancora più impietoso con le stagioni 19/20 e 18/19.
Questo Pallone d’Oro non è nemmeno un premio alla carriera. Non solo perché, come detto, Benzema non ha mai avuto una stagione come quella appena passata, ma anche perché non è uno di quei giocatori, come Xavi o Iniesta, che possono davvero recriminare di aver avuto il proprio picco nel momento sbagliato, cioè quando Messi e Ronaldo semplicemente non erano di questo mondo. Forse c’entra anche il suo rapporto conflittuale con la Nazionale francese, che fino all’anno scorso non gli ha praticamente mai permesso di giocare Mondiali e Europei, ma pensateci: istintivamente quando direste che Benzema avrebbe dovuto vincere il Pallone d’Oro anche escludendo Messi e Ronaldo? Non è immediato come sembra.
La questione dell’età è interessante perché non è nemmeno uno di quei giocatori che, come si dice, sembra migliorare invecchiando (e di solito si aggiunge: come un buon vino). Benzema non è certo più veloce, o più atletico, di qualche anno fa, e si vede che si porta dietro qualche anno. È più magro rispetto al gigante con lo sguardo da bambino che arrivò in Spagna nel 2009, la sua corsa leggermente ingobbita, gli occhi vagamente più infossati. Con la barba folta, la mano fasciata e la maglia candida del Real Madrid che gli stava leggermente larga l’anno scorso assomigliava a un santone di una setta pseudo-religiosa che ti fa rinascere immergendoti in qualche lago sperduto del Medio Oriente. Benzema non ha certo più l’atletismo del giocatore che a Lione prendeva palla sulla fascia sinistra e puntava il diretto avversario come un rinoceronte (un rinoceronte che però a un certo punto, se ne aveva bisogno, poteva anche mettersi sulle punte e sfilare tra due avversari con una veronica), e il fatto che abbia fatto la sua migliore stagione oggi, nonostante i limiti di un corpo che inevitabilmente invecchia, credo dica qualcosa su di lui e sul calcio degli ultimi anni.
Benzema, forse l’avrete visto, ha ricevuto il Pallone d’Oro da Zinedine Zidane e nei loro sguardi, nei loro sorrisi c’era un’intimità che non si vede tutti i giorni, per lo meno in cerimonie di questo tipo. Zidane ha dichiarato che per lui Benzema è il più forte attaccante francese di tutti i tempi «perché l’ho visto da vicino e so quello che vale». Il passaggio del Pallone d’Oro dalle mani del primo al secondo è significativo per il calcio francese, perché Zidane è stato l’ultimo giocatore francese a vincerlo prima di Benzema (nel 1998), e anche per i moltissimi francesi di origine algerina che popolano il Paese e che quando giocano a calcio si rivedono in loro e nel loro modo di giocare. Ha ragione Emanuele Mongiardo su Twitter quando scrive che «se Benzema non fosse stato un ragazzo di sangue algerino del ghetto non avrebbe mai sviluppato lo stesso modo di giocare».
Quello che mi interessa però non è solo il passaggio del simbolo dalle mani di un giocatore all’altro, ma anche quei sorrisi così intimi, che forse sono solo i sorrisi tra un giocatore e un suo ex allenatore, ma che da fuori sembrano quelli che si scambiano le persone che condividono un segreto, che si sono appena dette qualcosa che gli altri non sanno. Zidane e Benzema condividono diversi aspetti del loro gioco, ma il più importante credo sia quello di aver creato una propria grammatica senza avere bisogno di essere i giocatori più dominanti della propria epoca. Quando Zidane ha vinto il suo, di Pallone d’Oro, sembrava più anziano di quando passerà al Real Madrid e deciderà finalmente di rasarsi la testa. Aveva pochi capelli e la chierica da persona che ha almeno una ventina d’anni in più, il corpo ossuto che sembrava scavato nel legno. L’anno precedente, nel 1997, il Pallone d’Oro l’aveva vinto Ronaldo “il fenomeno”, che aveva già mostrato al mondo una combinazione di tecnica e velocità che semplicemente prima di quel momento sembrava non potesse esistere. Ronaldo, come si dice, ci aveva portato nel futuro, e mai espressione fu più veritiera se pensiamo che dopo Ronaldo “il fenomeno” abbiamo vissuto tredici anni (tra il 2008 e il 2021) in cui il Pallone d’Oro, con l’unica eccezione di Luka Modric, l’hanno vinto solo due calciatori che quella combinazione di tecnica e velocità l’hanno riprodotta su scala industriale facendocela apparire a tratti normale.
Messi e Ronaldo (con una velocità non umana nel condurre il pallone il primo, con la capacità di arrivare con i piedi dove alcuni portieri non riescono ad arrivare con le mani il secondo) hanno in un certo senso strappato la storia del calcio per come lo conoscevamo, impedendo agli avversari anche solo di avvicinarsi e rendendo ridicolo qualsiasi paragone con i giocatori del passato. In un certo senso, si sono posti oltre la storia del calcio, a volte dribblando tutti gli avversari che gli si paravano davanti, altre volte tirando da quaranta metri con una forza che sembrava poter bucare la porta come nelle pubblicità. Il loro è davvero il calcio dei supereroi, cioè di due persone con qualità fisiche e neurologiche che sono fuori dalla norma rispetto alla totalità dei giocatori che hanno giocato insieme a loro e che, con la sola eccezione di “Ronaldo il fenomeno”, sono venuti prima di loro. Questo è anche il calcio che credo ci lasciano in eredità, se concordiamo sul fatto che Haaland e Mbappé presumibilmente domineranno il calcio europeo nei prossimi anni. Parliamo quindi del calcio di chi sa segnare di tacco portando la gamba sopra la testa, quasi all’altezza della traversa, e di chi può lanciarsi la palla anche trenta metri in avanti con la sicurezza che sarà di nuovo suo solo una frazione di secondo più tardi.
È il calcio dei supereroi, per l’appunto, il calcio in cui nessuno a parte Messi, Ronaldo, e forse Haaland e Mbappé, e chissà chi dopo di loro, può davvero identificarsi. Il calcio in cui, però, invecchiando si diventa ridicoli, la caricatura del superuomo che si era, come Ronaldo che viene preso in giro perché si siede in panchina o Messi che per segnare in rovesciata deve accartocciarsi su sé stesso come un bambino che tenta una capriola sul letto.
Il sorriso tra Zidane e Benzema allora forse è quello di chi conosce il segreto per arrivare alla versione migliore di sé stessi alla fine delle propria carriera. Zidane ha raggiunto il suo apice nelle ultime partite giocate con la Francia ai Mondiali del 2006 (esiste uno Zidane più Zidane di quello?), Benzema ha avuto la sua migliore stagione in carriera dopo aver compiuto 34 anni, e per lui si può fare la stessa domanda. Che Benzema ricorderemo tra qualche anno, dopo il suo ritiro: quello senza rughe e veloce come il vento che esultava sparando con le dita a Lione, o quello con il viso segnato dal tempo e la mano fasciata, che sotto la pioggia di Londra mette la palla di testa sotto la traversa?
Quello di Zidane e Benzema, però, non è un segreto di alchimia medievale, come detto nessuno dei due era davvero più giovane a 35 anni che a 25. Eppure non mi sembra un caso che entrambi siano migliorati con il tempo, al rallentare dei loro corpi, mano a mano che potevano fare meno affidamento semplicemente sulla propria velocità, e più quindi dovevano farsi aiutare dai compagni e soprattutto dal pallone. Il loro sorriso quindi forse è quello di chi sa che il pallone ha i suoi segreti. Di chi, arrivato a 35 anni o 50 nel caso di Zidane, li ha scoperti quasi tutti. Che per esempio per la totalità dei calciatori che non sono i supereroi che ho citato prima il calcio si gioca con la mente tanto quanto i piedi, e le gambe e i polmoni, e che la mente, al contrario di tutte queste altre parti del corpo, può migliorare con il tempo, se si ha il talento e la volontà di farlo. Che accarezzando il pallone con la suola come in un incantesimo si può indurre il difensore a un intervento più avventato. O che il marcatore non potrà mai tenere d’occhio contemporaneamente il pallone e ciò che succede alle proprie spalle. Che ci si può infilare nel lato cieco senza essere seguiti se solo si ha un compagno come Modric in grado di metterti un pallone sulla testa dentro l’area piccola. Che in una semifinale dominata dall’avversario, in cui hai toccato solo una manciata di palloni, il portiere dal dischetto non si aspetterà mai un cucchiaio.
È celebre la frase di Benzema, che una volta ha detto di giocare per chi “sa di calcio”. Dopo ieri sera forse ho capito che non si riferiva agli intenditori, come viene spesso interpretata quella frase, ma in senso più letterale agli allenatori e ai giocatori che conoscono quegli stessi segreti. Benzema ha giocato per, cioè si è messo al servizio, si è fatto allenare da chi sa di calcio, come Zidane. Oppure ha giocato per, cioè ha corso per gli assist dichi sa di calcio, come Modric, senza cui la stagione di Benzema non sarebbe stata quella che abbiamo visto. È impossibile pensare un gol di Benzema senza un assist di Modric, perché solo il primo sa muoversi dove può mettere la palla il secondo, e viceversa. La foto di loro due che si abbracciano in ginocchio come due naufraghi che si ritrovano dopo giorni di stenti è il simbolo della scorsa stagione del Real Madrid, ma anche più in generale delle connessioni che si possono creare tra gli esseri umani più diversi su un campo di calcio. Perché, anche se Messi e Ronaldo ce l’hanno fatto dimenticare, si gioca con i compagni e anche con gli avversari, e rivedendo tutti i gol in Champions di Benzema quest’anno si noterà come molti sono nati sfruttando errori di portieri e difensori. Anche questo è calcio.
In definitiva il sorriso che si sono scambiati Zidane e Benzema mi ha fatto di nuovo sentire parte di qualcosa, di più grande o di più piccolo vedete voi, comunque solo nostro, cioè di chi segue il pallone con gli occhi da quando ancora non aveva ricordi definiti. Per un momento mi sembrava stessero riavvicinando due lembi lontani tra loro 24 anni, riannodando la storia del calcio per come lo conoscevamo prima. Lo sport in cui, insieme a dieci compagni e contro undici avversari, devi saperti inventare qualcosa con l’aiuto di un pallone.