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Foto di Shaun Botterill / Getty Images
Calcio Fabrizio Gabrielli 27 aprile 2019 4'

Non è ora di assegnare un Pallone d’Oro per ruolo?

Momo ci ha chiesto se non è arrivato il momento di assegnare un Pallone d’Oro per ogni ruolo. Risponde Fabrizio Gabrielli.

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Ciao redazione di L’ultimo Uomo, vorrei porvi una domanda riguardante la consegna del pallone d’oro,che ormai da parecchi anni ha preso una piega molto netta e che va nella direzione di premiare essenzialmente gli attaccanti e i goleador in generale (eccetto l’ultimo caso Modric)….quindi ciò che vi vorrei chiedere non sarebbe giunta l’ora di istituire più “palloni d’oro” (4) per ciascun ruolo?

 

Momo

 

Risponde Fabrizio Gabrielli

 

Ciao Momo,

mi perdonerai se ti rispondo subito in maniera tranciante, e ti prego di non volermene per questo, dicendoti che secondo me no, non è giunta per niente l’ora, e per come la vedo spero che mai giunga.

 

Cercherò di spiegarti il mio punto di vista, che è opposto al tuo, che però capisco perfettamente. Per il mio ragionamento partirò da un postulato, cioè il regolamento: il Pallone d’Oro, come saprai, viene assegnato «al giocatore che si è più distinto nell’anno solare, militando in una squadra di un qualsiasi campionato del mondo». Il giocatore: uno, incrovertibilmente. I criteri per l’assegnazione sono l’insieme delle prestazioni individuali (e di squadra), il valore del giocatore (cioè una valutazione che prenda in considerazione talento e fair-play); la personalità e il carisma.

 

Criteri simili sono alla base del conferimento di tutti i Palloni d’Oro del Mondo. Intendo dire che anche negli altri continenti l’inclinazione verso giocatori offensivi, che si muovono in campo dalla linea di centrocampo in avanti ed hanno essenzialmente la peculiarità di fare un sacco di gol, o farli fare, è un dato di fatto inoppugnabile. Non so se segui l’African Footballer of the Year, ma in Africa, nell’ultimo ventennio, tra i premiati non c’è stato un calciatore che giocasse più basso, in campo, di Yaya Touré.

Per non parlare del Sudamerica, il talentificio del mondo, almeno nella vulgata, dove l’egemonia brasilian-argentina (cliché nel cliché) è stata spezzata raramente e sempre per virare su modelli della quintessenza del talento offensivo (gente tipo Teo Gutiérrez, Mati Fernández o Salvador Cabañas). Questo in buona sostanza perché, tra i vari criteri di base, il talento – o la percezione che ne abbiamo, o meglio ancora la percezione del concetto di talento che ha chi vota – finisce sempre, in una maniera o nell’altra, per essere associata all’aspetto più estetico, universalmente riconoscibile, del gioco. E stiamo parlando di far gonfiare le reti, o aiutare a farlo.

 

Tu penserai: ok, ma non è un riduzionismo? Posso anche essere d’accordo con te: forse premiare solo chi fa gol è un po’ banale. Pur essendone il fine ultimo, mettere palloni all’interno della rete tesa tra i tre pali all’estremità della metà di campo avversaria, nel gioco, non dovrebbe finire per esserne l’unico significato fondamentale. Altrimenti rischieremmo di dare un peso specifico troppo sbilanciato alla destinazione, rispetto al viaggio. E noi, essenzialmente, siamo cultori del viaggio. Sì, ma noi chi?

 

Perché a questo punto del discorso va preso in considerazione il particolare, per nulla secondario secondo me, che il premio si assegna sulla base delle votazioni di giornalisti specializzati. Ed è così, ancora una volta, per tutti i Palloni d’Oro del mondo. Sono abbastanza certo del fatto che la sensibilità di un giornalista finisca sempre, in un modo o nell’altro, per essere tarata sulla sensibilità del pubblico dei lettori. E il Pallone d’Oro per avere il vincitore che il pubblico si aspetta.

 

Ti faccio due esempi per cercare di spiegare meglio questo aspetto che forse ha a che fare determinismo culturale. In Asia, il Premio di Calciatore dell’Anno, sempre negli ultimi vent’anni, è finito più volte – sempre poche, ma con un’incidenza statistica già più rilevante – nelle mani di difensori. Il Pallone d’Oro, invece, per esempio, solo una: nel 2006 è stato premiato Fabio Cannavaro (e al secondo posto si è classificato Gianluigi Buffon). Quest’ultima votazione, ovviamente, è la più cristallina realizzazione del criterio di rispondenza tra prestazioni individuali e di squadra: nell’Italia campione del Mondo la solidità difensiva non è stata un fattore, ma il fattore, e incarnare così pienamente il carattere della propria squadra non poneva dubbi, né alternative. In Asia, invece, il talento forse è stato più spesso soppesato con il carisma: il difensore di una squadra asiatica, mediamente, è chiamato a compiti più complicati, per tradizione e cultura, rispetto a quelli dei difensori del resto del mondo. Resistere è una virtù fondante, ed erigersi a condottieri della resistenza, secondo me, il più grande dei meriti.

 

Sono certo che quando pensi alla deriva goleador, inevitabilmente, stai pensando al duopolio Messi-Ronaldo. Credo sia il momento di mettere sul piatto la mia motivazione più forte e brutale: il Ballon d’Or risponde a una volontà assolutistica, che è in linea con il nostro Zeitgeist, e va benissimo così.

 

Quella che abbiamo celebrato per un decennio è stata, innanzitutto, la magnificazione di un’eccezione, di un’irripetibilità, di un unicum che trascende qualsiasi altro tipo di valutazione estetica. Messi e Ronaldo, la loro sfida titanica al di sopra della mortalità, non ha fatto altro che personificare il meccanismo antropologico di Marcel Mauss secondo il quale un dono, in questo caso il premio, obbedisce alla semplice dinamica «dare, ricevere, ricambiare». Hanno dato più di ogni altro e quindi preteso di ricevere in cambio. Dopotutto chi segna una tripletta si porta a casa il pallone: chi compie tre parate decisive? Chi effettua tre chiusure importanti? Chi registra più passaggi precisi?

 

Anche gli aspetti più materiali alimentano questa visione. Alla fine stiamo parlando di premio composto da un pallone, perdipiù coperto d’oro, il metallo più coatto, quello di cui sono fatte le corone dei re, le cavezze dei gangsta rapper, i denti del Re dei Gitani.

 

Nel libro di favole che leggo ogni sera a mia figlia per farla addormentare ce n’è una, la sua preferita: parla di quando, in fondo al mare, si doveva eleggere il nuovo regnante degli abissi. E visto che in fondo al mare abitano sirene, ma anche sirembe (sirene con la coda di gambero), siranchie (con le chele da granchio) e sirane (con le zampe palmate da rana), ognuno pensava dovesse esserci una certa alternanza democratica, perché in fondo, in buona sostanza, a vincere erano invece sempre state le sirene. Le sirene, nel mio giochino metaforico, sono gli attaccanti. Nella favola, alla fine, una sirena, una siremba, una siranchia e una sirana decidono di presentarsi come entità polimorfa, per essere tutte insieme regnanti. Ma il concetto di pluralità del migliore, oltre che una contraddizione in termini, è un concetto consolatorio solo per mia figlia, che infatti si addormenta felice. Chi invece assiste alla premiazione del Pallone d’Oro vuole la sicurezza di un premio unico.

 

Uno che batte un altro. Il Pallone d’Oro, insomma, per sua natura, è un premio che non ammette concessioni democratiche. E forse è giusto così.

 

 

Tags : cristiano ronaldofabio cannavarola posta del cuoreLionel Messipallone d'oro

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia occupandosi di Sudamerica, calcio e letteratura, anche in combine. Il suo ultimo libro si intitola "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012). È vice-direttore de l'Ultimo Uomo.

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