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L'anno del sesto Pallone d'Oro di Lionel Messi
03 dic 2019
03 dic 2019
Per l'argentino è stata la stagione delle responsabilità.
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Con la vittoria del Pallone d’Oro 2019, Lionel Messi ha impreziosito una stagione individuale piuttosto eccezionale: negli stessi 12 mesi ha vinto anche il premio al miglior giocatore della Liga, il premio The Best della FIFA, la Scarpa d’Oro al miglior marcatore d’Europa e quello come miglior playmaker dato dall’IFFHS. La maggioranza dei giornalisti, dei giocatori, degli allenatori e degli statistici concordano sul fatto che Messi è ancora il miglior giocatore al mondo. È ancora valido quello che diceva Markus Kaufmann: «Messi è il paradiso futuro, la promessa di un giocatore venuto da lontano per risolvere ogni cosa». E per dare un’idea di cosa significhi l’esperienza Messi nel 2019 basta tornare indietro di 24 ore.

Mancano 6 minuti alla fine della sfida tra Atletico e il Barcellona. Contrariamente alle attese, è l'Atletico la squadra ad aver avuto più occasioni da gol, grazie ad un piano di gioco funzionale che prevedeva una pressione alta sull’uscita palla del Barcellona e un lavoro di squadra per spingere Messi a ricevere largo e lontano dalla porta, in una zona di campo in cui per Simeone era più facile controllarlo, grazie ad un 4-4-2 con Koke esterno sinistro, Thomas Partey al centro sinistra e addirittura Saúl come terzino sinistro, così da avere sempre qualcuno in grado di stargli vicino e uno in copertura. In questo modo l'Atletico è riuscito a tenere Messi a soli 2 tiri in porta nei primi 84 minuti di gioco.

Solo un’invenzione sembra poter risolvere la partita per il Barcellona, ma per loro fortuna hanno dalla loro parte il giocatore che da quindici anni si occupa di inventare: Messi capisce che il momento è arrivato, alza il braccio per chiamare il pallone all’inizio di una interessante transizione offensiva. Riceve largo come sempre, ma intuisce che con le linee dell'Atletico più aperte del solito, può virare verso il centro del campo, andando in diagonale. Il solo Thomas Partey dei centrocampisti riesce a tornare indietro per provare a supportare la linea difensiva, posizionandosi vicino a Saúl per frapporsi tra il numero 10 e i circa 25 metri che lo separano dalla porta.

A questo punto succede quello che abbiamo visto tante volte e che tante volte vedremo ancora, con Messi che accelera e sterza improvvisamente per condurre ora orizzontalmente la sua corsa verso il centro e passare il pallone a Luis Suárez posizionato spalle alla porta al limite dell’area. Il passaggio di Messi arriva teso e il tocco di prima del numero 9 lascia il pallone scorrere rasoterra perpendicolare alla linea dell’area senza che nessuno dell'Atletico riesca ad intercettarlo. Con un cambio di passo Messi si lascia alle spalle Thomas e calcia di prima col collo interno del suo sinistro. L’effetto a rientrare del suo calcio impedisce ad Oblak l’intervento, il portiere può solo sfiorarlo prima di vedere il pallone entrare in porta alle sue spalle.

Messi è uno di quei giocatori che ancora riesce a stupirci citando sé stesso, senza che si sia trovato un modo per fermarlo. Tutti allo stadio e davanti alla televisione sapevano cosa stava per accadere, nessuno degli avversari è riuscito però a impedire che accadesse.

Questo gol è l’undicesimo della stagione appena iniziata (insieme a 8 assist in 14 partite). La scorsa l’ha chiusa con 51 gol e 22 assist in 50 partite giocate. Elencare le cifre del suo impatto offensivo serve per dare un senso tangibile alla sua presenza in campo, ma quello che abbiamo visto è molto di più: nel 2019 Messi per il Barcellona è stato questa promessa di cui parlava Kaufmann, questa idea di salvezza personificata. Una salvezza tangibile, perché in una stagione in cui l’incapacità di Valverde di creare un sistema di gioco in grado di esaltare Messi, un sistema che riesca a metterlo nella condizione ideale per fare il suo calcio, ha costretto Messi a uno sforzo mentale enorme nel momento chiave.

Il Barcellona non è riuscito autonomamente a creare una manovra di gioco in cui il pallone potesse arrivare pulito dietro la pressione avversaria e ha costretto il più delle volte Messi a fare da regista, rifinitore e primo marcatore. Non è un caso se è nella scorsa stagione che abbiamo visto sublimarsi del passaggio largo per Jordi Alba in area di rigore o dell’appoggio per Suárez spalle alla porta, perché quelle sono le pezze sulla coperta di Linus per un Messi, che aveva bisogno di azioni sicure su cui appoggiarsi mentre cercava il modo di arrivare alla conclusione contro squadre che ormai sono solite mettergli attorno un raddoppio costante.

Messi deve ordinare la sua squadra e disordinare quella rivale, iniziare e concludere le occasioni. Per farlo con continuità deve inventare nuovi modi, come la punizione contro il Liverpool in semifinale di Champions League o il gol contro il Betis in Liga. Come ha detto Iniesta: «La grandezza di Messi è che non smette mai di sorprenderci».

Quanto visto con l'Atletico riassume quindi in pochi secondi cosa sia assistere all’esperienza di veder giocare Messi nel 2019. Ed è qualcosa di diverso rispetto a cosa fosse ormai 10 anni fa, quando vinse il suo primo Pallone d’Oro. Perché il suo stile di gioco - che fonde analisi e istinto - dà il meglio quando riesce a prevedere le variabili con cui deve interagire. Per questo ha modificato il suo sforzo lungo i 90 minuti, alternando in maniera piuttosto evidente momenti in cui spinge al massimo il proprio motore quando ha il pallone tra i piedi a momenti di totale riposo quando non ce l’ha. Oggi, nei primi 10 minuti della partita, quasi non vuole toccare palla.

Un comportamento simile a quanto si racconta facesse Muhammad Ali all’inizio di ogni suo match, che va in totale controtendenza rispetto ai ritmi di gioco del calcio contemporaneo. Messi per i primi 10 minuti di partita si estrae completamente dal gioco per camminare placidamente tra le linee e scandagliare tutto il campo, leggere i movimenti degli avversari, le marcature, i pattern di gioco. Poi - come ha raccontato il suo allenatore Valverde al Financial Times - «con la partita che va avanti, si muove piano piano sempre di più, a quel punto sa esattamente dove si trovano le debolezze degli avversari».

Per capire cosa sia Leo Messi a 32 anni, nel momento in cui lui stesso dice di poter vedere la fine della sua carriera, bisogna avere la consapevolezza di quale sia il suo contributo in termini di tecnica e ruolo. Non ruolo in campo, ma all’interno di un gruppo di primo livello, capire cosa significa per lui essere leader e come poi questo si trasmette in campo. Messi ha ormai superato il picco atletico, non può più permettersi lo stesso numero di ripetute a partita e la velocità di punta non è la stessa che aveva all’inizio del decennio.

Nell’ultima stagione però, complice forse la maturità raggiunta come padre di tre bambini e la partenza di Iniesta per il Giappone, si è sentito in dovere di prendere sulle sue spalle la responsabilità dell’umiliazione subita dalla Roma nel ritorno dei quarti di Champions League. L’unica vera partita da assente ingiustificato del 2018 l’ha probabilmente messo davanti alla necessità di cambiamento in termini di leadership, all’interno di un gruppo ormai esperto ed estremamente coeso. Dopo i tanti anni insieme guidati prima da Puyol, poi da Xavi ed Iniesta, Messi ha capito che toccava a lui.

Mai come nell’ultima stagione abbiamo visto Messi parlare tanto con compagni, avversari, arbitri. Mai l’abbiamo visto tanto attivo nel chiamare il pallone, come nel caso della partita con l'Atletico, nel momento in cui sente ci sia bisogno di intervenire in prima persona. La sua non è più soltanto una leadership tecnica. Dopo tanti anni è ovviamente difficile riconoscere un cambiamento tale, che però si è fatto via via sempre più evidente fino a compiersi totalmente nella scorsa stagione, quella che possiamo chiamare della sua consapevolezza. Nonostante il calo fisico, quindi, Messi quest'anno è diventato più consapevole delle sue responsabilità.

Questo si vede durante le partite, ma anche fuori dal campo. Nel nuovo documentario Matchday si vede Messi parlare nello spogliatoio prima dell’infausta trasferta di Liverpool, avvisare i compagni di come la debacle di Roma fosse dietro l’angolo: «Ricordiamoci che Roma è stata colpa nostra. Di nessun altro. Non facciamo succedere la stessa cosa, è stata colpa nostra e di nessun altro».

Sappiamo che le parole non sono servite, che il Liverpool ha fatto 4 gol e eliminato il Barcellona proprio come ne fece 3 la Roma l’anno prima. La differenza però è che questa volta Messi ci ha realmente provato fino alla fine. All’andata aveva segnato in modo indelebile la partita con due gol, nel ritorno invece non ci è riuscito, ma ha provato in tutti modi a influire sulla partita, con azioni personali e provando a mandare in porta i compagni.

Come ha scritto Michael Cox dopo aver rivisto la partita di ritorno per la sua analisi: «La sconfitta del Liverpool al Camp Nou è da attribuire alla loro incapacità di fermare Leo Messi, che ha segnato due gol. Per avanzare nel turno, hanno dovuto fermare Messi e sicuramente non subire reti. L’ultima cosa gli è riuscita, ma l’influenza di Messi non è stata tanto misera quanto il risultato farebbe supporre. Invece si potrebbe argomentare che, anche se non al massimo del suo splendore, Messi è stato comunque il migliore giocatore della partita. Ha inventato tre eccellenti occasioni da gol, per Philippe Coutinho, Jordi Alba e Luis Suárez, che le hanno sprecate».

Un solo giocatore è uscito dalla partita con tre passaggi chiave, con tre compagni messi davanti ad Alisson nei 90 minuti, lo stesso che nell’andata sul 3-0 continuava a spingere per provare a segnarne un altro. Lo stesso che sull’assurdo errore di Dembélé su di un suo passaggio si è disperato come se si trattasse del mancato gol vittoria. Nella stessa partita in cui aveva già segnato una doppietta contro una squadra che non aveva ancora mai perso 3-0 in stagione.

Quando a settembre gli hanno chiesto che stagione è stata per lui: «È stata una stagione “negativa”, perché abbiamo vinto solo la Liga. A livello personale è andata bene, però come dico sempre quello che mi interessa sono i titoli di squadra. E la scorsa stagione non abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi». E l’ha detto parlando del Barcellona, che ha vinto l’ennesima Liga, torneo in cui è stato contemporaneamente quello che ad aver segnato più gol e più assist, ed è uscito in semifinale di Champions League come capocannoniere della competizione dopo aver segnato una doppietta agli ottavi, una ai quarti e una in semifinale, ma probabilmente l’ha detto pensando anche all’Argentina.

Il 2019 di Messi è stato anche l’ennesima Copa América e l’ennesima delusione per l’Argentina, questa volta eliminata in semifinale dai padroni di casa del Brasile. Ancora una volta in un torneo sempre al limite dello psicodramma per tutti, lui per primo, con un contesto totalmente avverso a ogni forma di gioco di squadra. Ancora una volta con tutto il peso della manovra offensiva sulle spalle, con anche l’uscita del pallone dalla difesa che non riusciva ad essere buona se non arrivava Messi a prendersi il pallone dietro il centrocampo per giocarlo.

Questa volta l’eliminazione della sua Argentina non è arrivata dopo una partita abulica come accaduto altri volte, anzi questa volta Messi ha davvero poco da rimproverarsi - visti i 4 tiri, 7 dribbling riusciti e 4 passaggi chiave - se non per il palo colpito all’ora di gioco sotto 1-0 e le accuse contro l’arbitro a fine partita con la delusione ancora cocente addosso.

Ed è questo forse il grande tema di discontinuità con l’immagine che avevamo di Messi prima di quest’anno. Si può uscire da una semifinale di Champions League per un calcio d’angolo difeso male, come si può uscire in semifinale di Copa América contro una squadra che gioca meglio, ma mai come quest’anno Messi ci ha sempre provato, risultando il migliore in campo nelle vittorie, ma anche uno dei migliori nelle sconfitte. Il giocatore che sa di poter sempre creare più di un’occasione da gol per sé o per i compagni, che aspetta il momento giusto con la pazienza di chi sa di essere il più forte in campo.

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