
Ci sono posti che te li devi conquistare, che non ti fanno sentire a tuo agio. Trieste ti apre la sua finestra sul mondo: Piazza Unità si specchia sul Golfo, in un cucchiaio di Adriatico. Ma può darsi che sbattano le imposte, e che tutta questa luce non ti accolga per davvero.
Trieste ha una grazia scontrosa, scriveva Umberto Saba, se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore. Come un amore con gelosia. Fece il servizio militare a Salerno, lavorò al Resto del Carlino a Bologna e al caffè del Teatro Eden a Milano; fu costretto a spostarsi in Lombardia nella Prima guerra mondiale, e poi a Parigi, Roma e Firenze nella Seconda. Sarà ricoverato a Gorizia per gli ultimi mesi di vita. Ma la sua Trieste l’avrebbe vissuta, custodita e respirata in ogni aspirata di pipa, con il braccio ad uncino per accompagnare Lina e Linuccia e il bastone che cadenzava i suoi passi.
I figli di Trieste la sanno riconoscere. Quando chiedo a Daniele Cavaliero un’istantanea, cita esattamente quei versi di Saba per descrivere la sua città, che il poeta chioserà dipingendola “in ogni parte viva, che ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva”. Chi questo angolo di mondo a sé l’ha fatto suo, ha determinate coordinate di riferimento. Per l’ex capitano della Pallacanestro Trieste si tratta di sole, mare, vento. Tanto vento. «Trieste è una città dove puoi trovare gente molto chiusa e molto aperta; dove puoi beccare un sole splendido, ma con un cazzo di vento che non riesci a stare in piedi» racconta, con la voce che un pochino si piega.
E «puoi andare al mare in quattro minuti, ma sul marciapiede: il nostro lungomare». Quando la vistai per la prima volta, scendendo dal Carso a bagnare i piedi in acqua per rimanere incantato dal Castello di Miramare, mi aveva impressionato. È una strana comodità, ma che ti appartiene.
«Ci piace guardare quelli che vanno veloci. Ogni tanto ci piace accelerare il passo, ma poi torniamo al nostro lungomare - il marciapiede - a fare una passeggiata. Col cappellino che ti parte, perché anche oggi c’è un po’ di bora» . Cavaliero non porta la coppola come Saba, ma il cappellino parte uguale. Anche adesso che la pallacanestro, a Trieste, va più veloce del solito.
VADO, FACCIO, BRIGO, RITORNO
Il 28 aprile 2017, Daniele Cavaliero posta su Instagram una foto del PalaTrieste, la casa della pallacanestro biancorossa intitolata a Cesare Rubini, vicino di casa dello Stadio Nereo Rocco nel quartiere di Valmaura. Scrive solo una parola, intervallata da qualche punto di sospensione: “...Casa…”
Tre giorni prima, aveva annunciato l’addio alla Pallacanestro Varese, settima squadra - dopo Milano, Roseto, Fortitudo Bologna, Avellino, Montegranaro e Pesaro - della sua carriera. E casa è Trieste, il posto dove inevitabilmente ritorni, il nido verso cui spieghi le ali per appoggiarti e riposare.
L’inaspettata avventura del nuovo capitano biancorosso sarebbe equivalsa a una rincorsa verso la Serie A, buttandosi a capofitto nei Playoff di Serie A2, conclusi però con la sconfitta 3-0 in finale contro un’altra nobile precedentemente decaduta della pallacanestro italiana, la Virtus Bologna.
L’anno successivo, il 2017-18, è quello giusto: Trieste comanda la classifica e fa filotto in postseason, perdendo una sola ininfluente partita ai quarti di finale contro Montegranaro, una delle ex di Cavaliero. Guidati da Eugenio Dalmasson e un secondo allenatore come Marco Legovich, triestino DOC, i giuliani tornano in Serie A.
In quella squadra, aggregato, c’era anche Lodovico Deangeli. «Io a 10 anni sono venuto qua, adesso che ne ho 24 sono ancora qui. Sì, ho fatto un anno a Biella e uno a Udine, per l’amor di Dio. Ma sono sempre stato qui. Mi allenavo 14 anni fa al palazzetto e mi ci alleno oggi. Sento questa società sotto la mia pelle», dice con sentita emozione.
Anche lui, come Daniele Cavaliero, Andrea Pecile e Michele Ruzzier, è partito da Trieste per tornare a Trieste. È uno spirito d’appartenenza congenito, che si passa di generazione in generazione. Figli di una Stefanel che, prima dell’esodo milanese, aveva visto Gregor Fucka, Dejan Bodiroga, Silvester Gray, Dino Meneghin sul proprio lungomare. Figli della finale di Coppa Korac, di sogni infranti.
Daniele Cavaliero sa soppesare bene le parole, specialmente quando si tratta di inquadrare cosa significhi davvero indossare questi colori. «È un grandissimo orgoglio. Penso che ci sia un pattern un po' simile nel vivere la pallacanestro di noi triestini. Io vado, faccio, brigo. Vinco, se riesco». E lui ci è riuscito, tra parentesi. «Ma io voglio stare qui», aggiunge.
«Voglio vedere questa città, questa squadra, questo club crescere. Voglio giocare davanti alla mia gente. Avere ragazzi che sono abbastanza bravi per giocare e che hanno la voglia di rimanere attaccati a questo club e a questi colori è una grande fortuna».
«Hanno carriere diverse, percorsi diversi, ma vederli allenarsi ogni mattina col sorriso, mostrare la città ai compagni, anche agli stranieri, farsi un po' carico delle persone che arrivano e prendendosi la responsabilità di avere quel logo e l'Alabarda sul petto, a me inorgoglisce tantissimo. Il primo plauso va a tutta la città di Trieste, che è riuscita a tirare fuori - e continua a farlo - giocatori».
«E poi la bellezza di avere anche qui una storia. Il capitano [Andrea] Coronica, che è stato capitano per nove anni, fino al 2021 ha giocato solo per la Pallacanestro Trieste, perché qui voleva stare. Siamo tutti molto attaccati e felici di aver fatto parte di quello che è casa nostra, no? È bello anche da mostrare al campionato; da mostrare, chissà, magari un giorno anche fuori dai confini italiani».
L’ultimo capitolo triestino di Daniele Cavaliero è durato fino al termine della stagione 2021-22, conclusa con una tranquilla salvezza in Serie A e dei Playoff sfumati al fotofinish. “Che bello che è stato, grazie. Oggi mi ritiro”, aveva scritto sui social, condividendo una sua foto sgranata, da piccolo.
«Dani è un mentore» dice Lodo Deangeli. «Il suo ultimo anno di carriera lui era capitano, e io lo sono diventato appena lui si è ritirato. Eravamo compagni di stanza. È tornato per vincere a casa sua e chiudere il cerchio qui. Nei suoi ultimi anni di Trieste sembra abbia ricevuto buonissime offerte per andare via, per guadagnare cifre importanti. Ma non ne ha mai considerata mezza. Ed è il motivo per cui questa squadra, questa città, sono così sentite dalla sua gente». «Penso a [Daniele] Cavaliero, [Andrea] Coronica, [Michele] Ruzzier, [Stefano] Bossi, [Lodovico] Deangeli; ma anche a [Juan Manuel] Fernandez, Javonte Green, [Matteo] Da Ros: gente che è arrivata qui e si è comprata una casa. C’è sempre stato lo zoccolo duro, o di triestini o triestini adottivi».
«Non so perché; non so se sia la città, la società. Sicuramente è anche nostro compito far sentire i nuovi che arrivano come benvenuti a casa. Ma c’è sempre stata questa sensazione del voler rimanere, dell’affezionarsi al di là della pallacanestro. E c’è ancora adesso: Markel Brown, che è un giocatore pazzesco che ha giocato in tanti posti diversi, mi dice che qui vive sensazioni come da nessuna parte. È qualcosa di un po' magico, un po' unico: questa è la sensazione» aggiunge.
Ecco: Trieste ti fa affezionare. Il dover (e poter, voler) rappresentare un angolo d’Italia così lontano da tutto, ti rende partecipe a prescindere di un qualcosa di unico. La triestinità si respira a piccoli fiati, sospesi. È nell’ordinazione di un caffè: un nero, un gocciato, un capo. È nei volantini del Movimento per l’Indipendenza del territorio triestino, che qualche voto alle elezioni comunali lo prende sempre. È nella minestra culturale che meglio di tutto descrive questa terra di confine: l’architettura mitteleuropea, l’impronta teresiana, la cucina contaminata da tradizioni slave e austro-ungariche: la Jota, la Ljubljanska, Karadjordjeva, la Pljeskavica.
È giocare nel quartiere popolare di Valmaura, con la montagna alle spalle e l’orizzonte sul mare. È il poter incontrare mondi diversi in poco tempo: il confine con la Slovenia è a un passo, mezz’ora dalla Croazia, due ore dall’Austria. Trieste ti catapulta in una dimensione spazio-temporale differente. È nella bora, il vento gelido che ti respinge, o che a volte ti culla. Non è un caso se nella stagione 2023-24, si poteva leggere “Vengo dal vento” sulla divisa della Pallacanestro Trieste, con tanto di rosa dei venti stilizzata, a richiamare il Molo Audace.
«Qua quando c’è la bora fa freddo, veramente freddo. Nella città vecchia, attorno a Cavana, in qualche borgo trovi ancora delle specie di corrimano fatti con la corda a cui la gente si aggrappava per poter anche semplicemente camminare. E penso che plasmi. Fa parte della nostra cultura, di chi siamo».
«Nella settimana di bora non esci di casa: è come se ci fossero due metri di neve, se è bora vera. Non solo soffia fortissimo, ma è un vento gelido, ghiacciato. La bora è uno di quei cani da guardia che ti sembrano cattivi, ma per il triestino è come il suo cucciolo», continua il capitano.
Quando Lodovico Deangeli mi parla dell’affezione per la sua città, è perfettamente conscio di cosa significhi essere un giocatore triestino, a Trieste. Ci dirigiamo verso le case popolari di Valmaura, dove la società ha contribuito a rinnovare un campetto ormai in disuso, qualche tifoso lo ferma. È l’8 dicembre, al Nereo Rocco la Triestina ospita il Vicenza. È uno dei tanti derby in questa zona di mondo.
«Tantissimi triestini, me compreso, si sentono prima triestini che italiani. Non è un modo di mancare di rispetto, ma la triestinità è una cosa molto sentita. Non è un caso che un triestino a Trieste abbia un valore che viene visto diversamente rispetto a un ragazzo di Cremona che gioca a Cremona», dice.
«Qui c'è sempre stata una base di giocatori autoctoni. Poi è chiaro, siamo a due passi dalla Slovenia, ma è più facile che gli sloveni parlino italiano che noi lo sloveno. Forse è anche un po' il motivo per cui Trieste è stata scoperta dopo; alla fine siamo lontani da tutto, anche se è la trasferta più vicina per qualcuno sono comunque tre ore di macchina».
«Guardando la cartina Trieste non sembra Italia: è proprio all’angolo. C’è la percezione di essere un qualcosa di particolare, specialmente appena fuori dal centro; in Carso, per esempio. La triestinità è sentitissima, da tutti» continua il capitano. Il triestino di questo gruppo. Anzi, uno dei triestini.
«Trieste è il mio amore. Amo davvero tutto della città dove sono cresciuto». Michele Ruzzier non lascia spazio ad interpretazioni. Ha giocato nelle due anime di Basket City, ha vinto un’EuroCup da membro delle rotazioni con la Virtus Bologna e appreso i trucchi del mestiere da Milos Teodosic, ha sollevato una Coppa Italia a Cremona. Ma, anche lui, è tornato a Trieste. Passando anche da Venezia e Varese, come fatto da Daniele Cavaliero. «Avevo l’abbonamento quando c’era la Serie A, ed ero un bambino quando vidi Dani esordire a 16 anni. Da triestino è sicuramente sempre stato un punto di riferimento, e così come lui anche Pecile e il Poz».
Ruz - così come lo chiamano tutti, dalla dirigenza ai tifosi passando per i compagni di squadra - sembra la perfetta trasposizione sul campo, a qualche anno di distanza, dell’anima del suo predecessore con la 18 sulle spalle.
E se Cavaliero ha lasciato l’Alabarda nel 2004, quando i fasti e la gloria hanno tristemente lasciato spazio alla mesta ufficialità di un fallimento, per Michele è valsa l’ambizione di provare a dire la sua in Serie A, in un momento economicamente e progettualmente complesso per il club. Quando le aspirazioni delle due anime sono venute a combaciare, non ci ha pensato due volte.
«Il percorso che ha fatto lui è stato molto simile al mio, ed era un tipo di carriera che mi aveva sempre affascinato: entrambi volevamo tornare a Trieste, non troppo vecchi ma quando avevamo ancora più di qualcosa da dare. Ne sono felice» dice con emozione Michele Ruzzier.
Il suo ritorno a casa è corrisposto temporalmente alla promozione a capo allenatore del trentenne Marco Legovich. Il cognome del tecnico non mente: Trieste ce l’ha nel sangue, sulla carta d’identità, nell’albero genealogico. «Marco è stato uno dei motivi per cui sono tornato, perché mi ha voluto fortemente insieme a Mario Ghiacci all'epoca», ricorda il playmaker giuliano del suo quasi coetaneo.
«Avrei avuto il desiderio di iniziare un percorso con lui, accompagnandolo nella sua carriera da capo allenatore». Avrei, dice. Perché l’entusiasmo iniziale si è spento come il Faro della Vittoria in una notte di blackout, o una Barcolana senza un filo di vento - sostanzialmente improbabile.
Dopo una stagione sull’altalena, condizionata da un rendimento sottotono in campo e investimenti fuori dal campo - ci arriviamo -, all’ultima giornata Trieste sarebbe con una vittoria contro Brindisi, dando un’occhiata ai risultati delle altre. Ma avviene tutto il contrario di tutto, compreso un eterno David Logan a trascinare Scafati contro Brescia. È retrocessione, ancora. È un dramma sportivo.
«Iniziare con una retrocessione appena rientrato a Trieste è stato terribile. Ma visto quello che abbiamo creato l’anno scorso, rimettendo le basi e raggiungendo subito la promozione, non rimpiango la retrocessione dell’anno prima», racconta Ruzzier, spostando le lancette dell’orologio. «Tutto succede per una ragione, e adesso stiamo raccogliendo i frutti da quell’esperienza dolorosa».
TIMORE FONDATO, DUBBI GIUSTIFICATI
A causa di una penalizzazione di 16 punti - poi ridotta a 11 -, tra le squadre invischiate nella lotta per non retrocedere al termine della stagione 2022/23 c’è anche l’Openjobmetis Varese di Luis Scola, che circa un anno e mezzo prima aveva affidato la gestione sportiva biancorossa a Mike Arcieri.
Il dirigente newyorkese, figlio di un italo-americano e di una bolognese, vantava un’esperienza variegata con diverse franchigie NBA (New Jersey Nets, Dallas Mavericks, New York Knicks e Orlando Magic), e nella sua prima parentesi italiana aveva già raggiunto l’obiettivo salvezza.
Il progetto di Varese sembrava viaggiare a vele spiegate, con l’aiuto di veterani dalle esperienze variegate negli Stati Uniti. Un progetto ambizioso, con il coinvolgimento di un allenatore americano come Matt Brase e la proclamazione a MVP del campionato del playmaker Colbey Ross, individuato come punto di riferimento al termine di uno scouting attento, legato ai numeri.
Inevitabilmente, una traiettoria che avrebbe potuto spingere altri all’omologazione, se accompagnata da investimenti di un certo tipo. Detto, fatto: a inizio 2023 viene annunciata l’acquisizione del 90% delle quote della Pallacanestro Trieste da parte di Cotogna Sports Group.

In uno di quei giri immensi che poi ritornano, è il legame degli Stati Uniti con Trieste, città formalmente controllata da americani e inglesi fino al 26 ottobre 1954, che si materializza ancora una volta tramite la pallacanestro, già strumento di identificazione che aveva creato un ponte con i Paesi dell’area slava passando proprio dall’avamposto giuliano.
La cordata americana, composta da investitori con l’ambizione di sbarcare nel mercato sportivo-finanziario europeo, coinvolge anche un ex outside linebacker con diverse stagioni di esperienza in NFL e oggi head of football development and strategy per i Philadelphia Eagles: Connor Barwin.
Tutti invidiano il network di reti e conoscenze dei dirigenti americani. E in quello dell’ex giocatore di football professionistico c’era proprio una conoscenza diretta di Michael Arcieri, grazie al suo passato in NBA. «Io avevo un contratto in scadenza a giugno 2023. L’unica cosa di cui avevo bisogno nella mia vita era stabilità e ho chiesto un pluriennale a Varese. Hanno deciso di non accettare», ricorda Mike Arcieri che ci tiene a parlare in italiano. Usa l’inglese solo quando i tasti sono più profondi.
«Non avevo mai pensato di andare via da Varese, finché non è arrivato il momento in cui ho capito che io e la mia famiglia non ci saremmo stabilizzati. A maggio mi hanno chiamato per capire se fossi interessato: Trieste mi ha offerto la stabilità di cui avevo bisogno, e ho preso questa decisione». La decisione è unirsi a un’altra società biancorossa, questa volta lontano dai laghi e vicina al mare.
D’altronde, le motivazioni non mancavano. Se il palmares è di gran lunga inferiore a quello di Varese, la storia e l’affezione del popolo triestino alla pallacanestro è pari ad altri avamposti del basket italiano. C’è una radicata tradizione che si innesta in un contesto multiculturale con pochi pari.
La prossimità geografica dell’area ex jugoslava e al contempo la possibilità di implementare un modello economico stabile e duraturo erano ragioni sufficienti per spingere Michael Arcieri a spostare i suoi orizzonti verso est, allargando però lo sguardo a 360°.
Si saliva in ascensore dal -1, però. «Loro hanno vissuto un incubo, ovviamente. Comprare una squadra di Serie A il 18 gennaio e retrocedere, ovviamente non era parte del piano a lungo termine. Era ovvio che un piano a lungo termine ci fosse, e che con l’A2 sarebbe forse diventato più lungo», dice Arcieri.
«Non sai mai se puoi fare una promozione in un anno o cinque anni. Io non avevo mai vissuto l’A2; ho vissuto la A1 solamente per 18 mesi. Tutti quelli con cui ho parlato, centinaia di persone, mi hanno chiesto: "Michael, sei sicuro?"». E se i dubbi del dirigente italo-americano si basavano su intuizioni fondate, lo stesso valeva per la tifoseria triestina, ormai abituata a costanti cambi di proprietà.
«C’erano pochi soldi. Ogni tanto rischiavi di fare i playoff, qualche altro anno lottavi per la salvezza. Contavamo non dico i centesimi, ma poco più. Arriva la proprietà americana, retrocediamo ma vengono promessi grandi investimenti», ricorda capitan Deangeli. «Ma il discorso iniziale è stato che non ci si fidava. Mi metto dentro a questa mentalità. In qualsiasi altro posto ci sarebbe stato un entusiasmo pazzesco, ma qui abbiamo iniziato con scetticismo».
Una diffidenza diffusa, e anche in questo caso poggiata su presupposti reali, concreti. L’eventualità di ripartire con una guida tecnica come il triestino Marco Legovich, che aveva vissuto il dramma della retrocessione sulla propria pelle, viene accantonata in favore di una scelta totalmente controcorrente. Poche settimane prima dell’annuncio dell’ingresso di Cotogna Sports Group in società, Michael Arcieri era stato ospite del podcast Last Call, il cui conduttore è Jamion Christian, un allenatore americano con esperienza decennale al college, tra Mount St. Mary's, Siena e soprattutto George Washington.

Lasciata l’NCAA a marzo 2022, aveva deciso di prendersi un anno sabbatico, dando vita a un podcast in cui potesse intavolare conversazioni costruttive attorno alla pallacanestro. È così che ha iniziato ad allargare il suo orizzonte, già vasto per interesse e propensione personale. Jamion Christian ricorda bene quei due episodi: «Michael Arcieri è una delle persone migliori che ho incontrato nella mia vita. Quando abbiamo finito di registrare, ho detto a mia moglie: “Perché non posso lavorare per una persona del genere?”. Non avevo mai interagito con un dirigente simile. Ci siamo presi subito, e anche dopo la registrazione abbiamo chiacchierato per 30-45 minuti».
Non sta esagerando. «Ho conosciuto Jamion quando era allenatore a George Washington University. Era stato licenziato alla fine della stagione 2021-22, e ha trascorso la stagione successiva come anno sabbatico. Ha realizzato un podcast e mi ha invitato mentre ero a Varese. Abbiamo fatto due episodi e parlato un sacco off-camera. Da lui ho percepito subito belle sensazioni, non solo come uomo di pallacanestro. Mi è sembrato subito molto aperto, intelligente e curioso», conferma Arcieri.
«Quando sono venuto qui a Trieste, ho intervistato tante persone, tra allenatori italiani e americani. Mi è venuto in mente anche lui, e pensavo che tecnicamente fosse fortissimo, come comunicatore anche. Mi era successo anche con [Matt] Brase l’anno prima». Arcieri decide, insomma, di puntare su Christian, pronto a rimettersi in gioco: «Volevo allenare. Volevo un’opportunità per rientrare in gioco. Volevo l’opportunità di fare qualcosa di grande. Non sapevo nulla di Trieste nello specifico, ma mi fidavo di Michael. Aveva fatto un gran bel lavoro a Varese. Quattro o sei mesi dopo, non ricordo, mi chiama dicendo che vorrebbe parlarmi di un’opportunità lavorativa, in Italia».
All’indomani di una retrocessione non necessariamente inaspettata, ma sicuramente non pronosticata, ripartire con l’unico allenatore americano della Serie A2, nonché un assoluto debuttante nella pallacanestro europea, sembrava una scelta a dir poco audace, addirittura arrogante e presuntuosa. Lo sanno anche loro: lo stesso Christian, nel momento in cui ha avuto contezza della circostanza in cui si stava paracadutando, ha capito quanto la diffidenza dell’ambiente nei suoi confronti fosse realmente fondata: «Arrivavo in una situazione particolare. Questa città ha un orgoglio incredibile per le persone che nascono e crescono qui, specialmente quando riescono ad avere l’opportunità di essere interconnesse con la Pallacanestro Trieste. Marco Legovich ha avuto quest’opportunità e cos’ha ottenuto in cambio? La sfortuna più grande che ci potesse essere».
«Arrivi all’ultima giornata con il 97% di possibilità di non retrocedere, e succede quel 3% affinché tu retroceda. Sfortunatissimo. Lui, la squadra, la città, la situazione. Stavano avendo una stagione decente, arrivano dei problemi, la nuova proprietà cerca di agire più in fretta possibile», aggiunge.
«Capisco la frustrazione di tutti. Avevano uno di loro come allenatore, un ragazzo che faceva l’assistente anche con l’Italia U20. Tutti volevano che facesse bene. E poi le cose vanno a finire in maniera totalmente opposta. Arriva una nuova proprietà, un nuovo General Manager, e mi chiamano. Chiamano uno che non aveva nessuna esperienza professionale, che sta imparando il gioco pian piano, che non parla italiano», ammette il nativo di Quinton, Virginia.
Allo stesso tempo, però, la tentazione urlava a squarciagola. Catapultato dall’altra parte dell’Atlantico per potersi immergere in un bacino d’acqua ben più ristretto di un Oceano, dove potesse vivere un’esperienza non solo totalizzante, ma estremamente ricca di sfide, sapeva che poteva trattarsi di uno di quei treni che non ripassano. Specialmente a queste latitudini.
«Ero in un periodo negativo della mia carriera, perché avevo avuto delle opportunità di ritornare ad allenare al college, ma non ne ero totalmente entusiasta. Ero combattuto e dire di no è stato tosto. Ma venire a Trieste non è stato difficile. Mi fidavo della proprietà e di Michael», sottolinea.
«Sono un allenatore di pallacanestro: questo è quello che faccio e che amo fare. Non avrei allenato negli Stati Uniti nel breve termine, e si trattava di prendere una decisione che coinvolgesse la mia famiglia, facendo qualcosa di diverso. Si chiudono una serie di porte, ma a volte attraversi quella giusta; in quel periodo della mia vita, penso di aver aperto la porta giusta nel momento giusto».
UN AMORE IN EVOLUZIONE
Oltre alle conferme di triestini come Stefano Bossi e Lodovico Deangeli, e di un triestino adottivo come Luca Campogrande, il roster si rinforza con Francesco Candussi, Eli Brooks e tre giocatori abituati alla Serie A: Ariel Filloy, Giancarlo Ferrero e, soprattutto, Justin Reyes.

Anche Michele Ruzzier decide di rimanere, sposando ancora di più la causa della sua città, della sua gente, andando al di là del livello del campionato in essere. «La mia idea da quando ero tornato era stare a casa nel pieno della carriera. L’estate scorsa mi ci è voluto veramente tanto tempo per dire "Okay, ci sono. Ripartiamo". Ci ho messo un po’ per stabilirmi mentalmente», ricorda.
Gli investimenti sono significativi, e parlano di una volontà chiara e palese: Trieste appartiene alla Serie A, e la nuova proprietà non si può permettere di pazientare troppo in purgatorio. Inoltre, Jamion Christian si affida all’assistenza di Francesco Nanni, abituato alla Serie A2 (e anche a vincerla, come fatto con Scafati), attratto da una sfida oggettivamente senza precedenti.
«Pensare di essere parte di un po’ di mondo americano in A2, un campionato che avevo già fatto per tanti anni e che conoscevo, era molto stimolante. Quello che mi hanno chiesto Michael e Jamion era di riuscire ad essere un tramite per loro, senza mettere un freno alle loro idee», dice Nanni.
«Senza dire di no a priori, ogni tanto è capitato anche a me di essere stranito da alcune proposte. Lavorare con Jamion mi permette di sviluppare una mentalità più aperta rispetto a idee nuove e innovative; dall’altra parte mi sono sempre speso nel momento in cui avesse avuto bisogno di aiuto, se ci fosse l’effettivo bisogno di mediare alcune idee o di adattarsi a determinati aspetti».
Un approccio non solo basato sull’apparenza e su evidenti background che collidono, ma anche su un’effettiva identità di gioco soppesata dai numeri e dall’efficienza offensiva. Che non parte dal coaching staff, ma da una commistione di proposte partorite dallo stesso Arcieri.
«Ci sono General Manager che danno la squadra a un allenatore e la fanno funzionare in un certo modo, e General Manager che scelgono la filosofia. Io faccio parte dei secondi, che capisco sia il modus operandi meno popolare, meno usato. Voglio che nessuno dei miei giocatori tiri un non-paint two. Tutti lo sanno».
«Quando lo fa in allenamento, [Francesco] Candussi si gira, mi guarda, ride e mi dice: “Michael, lo so. 0.70 punti per scelta, contestato. Mi dispiace”. Ma non stiamo inventando nulla: lo fanno anche altre squadre, lo fa Treviso, lo ha fatto Varese, lo fa Trento. Lo fanno in EuroLega. Vogliamo solo essere sempre propensi all’attacco».
Un approccio che per molti, specialmente in principio, può peccare come eccesso di eterodossia. «Si crea confusione, perché le persone dicono che vogliamo sempre e solo tirare da tre punti. Ma per me la partita perfetta è quella in cui la mia squadra fa 0/0 da tre, perché sarebbe una situazione nella quale siamo arrivati al ferro tutta la sera, o in lunetta», dice con estrema sincerità.
«Se costruisco una squadra lo faccio dal principio con una certa idea di allenatore e giocatori; il tipo di gioco. Non potrò mai lavorare con un coach che mi chiede di fare due allenamenti al giorno. Non è nella mia filosofia. Preferisco far lavorare la squadra la mattina presto, così che dall’ora di pranzo in poi i ragazzi abbiano un po’ di ore da spendere con la famiglia», aggiunge.
«Vogliamo attaccare il ferro sempre per cercare tiri liberi, attaccare il pitturato, avere tiri efficienti dall’angolo. Quando abbiamo comunicato questa scelta ad Ariel Filloy, la sua risposta è stata fantastica: “Davvero vogliamo tirare con 18 secondi sul cronometro?”. Lui è una persona stupenda, un giocatore e un lavoratore straordinario», sottolinea Michael Arcieri.
«Sì, Ariel», gli ho risposto. «Sei aperto? Hai i piedi a posto, le spalle a posto? Cosa stiamo aspettando allora? Chi vuoi aspettare, Ariel, dimmi?». «Ci sono filosofie diverse, ovviamente. Noi ne scegliamo una e, con gentilezza, cerchiamo di trasmetterla in maniera adeguata. Speriamo di trovare giocatori che apprezzino e si sposino con quel tipo di filosofia. Ma ho capito che non è sempre facile».
«È facile dire “vogliamo giocare così”, ma non è facile trasmetterlo a otto italiani che non hanno mai giocato così prima d’ora. Io non sapevo se avremmo ottenuto la promozione al primo colpo, ma sapevo che Jamion fosse l’allenatore giusto per crescere insieme», ricorda.
L’ex dirigente dei New York Knicks lascia agli altri «decidere se quello che facciamo sia una cosa americana o meno». Ma è qui che si è venuto a creare il più grande e significativo ostacolo, in un rapporto nato da presupposti incrinati e che ha rischiato di spezzarsi senza rimedio. Dopo un ottimo inizio di stagione, imbattuti dal 29 ottobre al 23 dicembre, i giuliani arrivano al derby contro Udine con un record da 13-4. Oltre alla dolorosa sconfitta, arriva un’altra tegola, ancor più grave: Justin Reyes, fino a quel momento assoluto dominatore del campionato, si lesiona il menisco destro, e necessita di un intervento chirurgico.
Trieste fatica a reagire, vince solo una delle successive sei partite, e iniziano i problemi. «Contro la Luiss, eravamo sopra di 28 e abbiamo perso. Man mano che si riduceva il vantaggio, la gente rumoreggiava. Da 28 sono diventati 21, poi 14. Si sente nel palazzetto. E si alza la pressione. È diventato tutto molto più duro, a un certo punto», racconta il General Manager triestino.
«I tifosi chiedevano a gran voce l’esonero dell’allenatore, ma non ho mai avuto dubbi; non c’è stato anche un singolo giorno in cui io abbia pensato di esonerare Jamion e un singolo giorno in cui lui abbia pensato che Michael Arcieri l’avrebbe esonerato. I giocatori non hanno mai dubitato che potessi rimpiazzarli con qualcuno. Ci siamo parlati, ci siamo detti che saremmo dovuti arrivare al 5 maggio pronti per giocare in salute, mettendo in campo una pallacanestro vincente».
Nel frattempo, però, l’esperienza eccitante e ricca di sfide per l’allenatore giunto in Italia senza esperienze professionali, tantomeno in Europa, inizia a trasformarsi in un brutto sogno con i presagi dell’incubo. «Ho avuto esperienze lavorative al college per cui quando ho iniziato con la nuova squadra mi veniva srotolato il tappeto rosso. Ho capito che qui non sarebbe stato lo stesso», dice Christian. «Mi sono reso conto che sarebbe stata una sfida enorme, date le circostanze. È molto da accettare per una tifoseria. E ho capito la loro frustrazione. Con la nuova proprietà ci siamo approcciati con l’idea di giocare in un certo modo, con un certo stile. E questo era frustrante per la gente perché, quando imponi questo tipo di cose, è come se volessi marcare una differenza, e come se volessi dire che sei più bravo a fare le cose. Non trasmessi un senso di cooperazione, giusto?».
«E la cosa interessante è che io non ho detto nulla. Se si ascoltano le mie parole quando sono arrivato, ho parlato di costruire un ambiente di supporto, collaborazione e competizione. Ciò che mi rendeva entusiasta era arrivare qui e unire le migliori idee che avevo appreso nel passato con le migliori idee che erano presenti qui. Ero felice dal primissimo giorno».
Se l’inizio della stagione sembrava delineare una traiettoria promettente, il complesso processo che era stato instaurato da Michael Arcieri con a capo Jamion Christian come guida tecnica aveva subito non una, ma diverse battute d’arresto. E la tifoseria di Trieste ha iniziato a rumoreggiare. «Capivo che i nostri tifosi non sentivano “collaborazione”. Sentivano qualcosa che suonava tipo “Hey, siamo qui, giochiamo in questo modo, faremo le cose a nostro piacimento”. Quello che devi fare in qualsiasi posizione di leadership è osservare le cose positive e negative. Devi prevedere le cose negative e anticipare cosa potrebbe accadere», sottolinea il coach americano.
«Quando le cose sono andate per il verso storto, non penso che si trattasse di qualcosa di personale. Le persone non mi conoscevano personalmente. Conoscevano Jamion Christian come l’allenatore di Trieste, tutto qui. Heavy wears the crown. E se sei in una posizione simile, in una città appassionata di pallacanestro, riceverai molte critiche - com’è normale che sia».
La sua disciplina e il suo approccio lavorativo, però, non è cambiato, né si è fatto influenzare dall’onda emotiva in cui la squadra si era incagliata. «Sono arrivato in palestra ogni giorno con la responsabilità di incoraggiare le persone che mi circondavano, perché anche loro avevano attraversato due anni pesanti», ricorda Christian dei due mesi di crisi nella stagione 2023-24. «Volevo far sì che ogni giorno che passavo con la mia squadra avessi un sorriso sulla mia faccia e fossi di buon umore. Volevo trasmettergli cosa significhi essere resiliente ed avere fermezza. Grandi squadre hanno grande resilienza, grandi leader hanno grande resilienza. E tutto questo deve partire da me. Quello era il modo in cui ci saremmo risollevati, il modo in cui saremmo giunti al nostro obiettivo. Non ho allenato emotivamente, ma con logica e comprensione».
Se l’essenza americana della Pallacanestro Trieste subiva la ferocia delle critiche, specialmente dagli spalti di un PalaTrieste deluso e intimorito dalla prospettiva di un altro anno in Serie A2, l’anima triestina del club, incarnata nella figura di un Daniele Cavaliero non più giocatore e capitano ma membro della dirigenza, cercava di mediare tra i due fuochi: «Io capivo i dubbi della città, perché la gente non è dentro al palazzetto giornalmente per capire quanto si provi a risolvere delle dinamiche, delle problematiche, a capirle e a comprenderle. È lecito, perché i nostri tifosi tengono a questa società tanto quanto noi; forse ancora di più. Ma ho sempre detto a tutti di avere pazienza. Di aiutarci, non di affossarci», ricorda.
«In quel momento di difficoltà, Michael e Jamion mi hanno dato insegnamenti di vita enormi. Do grandissimo valore al fatto che loro hanno avuto la forza di andare avanti e credere in una direzione, in una scelta, nelle persone. È il lavoro, la fiducia, il supporto, la comprensione profonda nei mezzi altrui. La forza, la tranquillità e la serenità che hanno trasmesso a tutti è stata un’epifania», dice Cavaliero.
Anche Lodovico Deangeli sottolinea quanto l’astio si sia progressivamente trasformato in amore. «Siamo tornati da qualche trasferta con la Digos perché minacciavano di andarci a prendere a casa. Non parlo di curva, parlo del triestino. Stizzito. E noi ci dicevamo: “Tre mesi fa retrocedevamo, non avevamo una lira. Questi arrivano dall’altra parte del mondo, investono e vogliono tornare su: ma di cosa ci arrabbiamo?”. E poi è nato un amore. Questo è un pubblico cestisticamente colto; che, se riesci a guadagnartelo, non è occasionale. Che capisce, resta con te».
E alla fine, l’amore si è trasformato in risultati concreti, tangibili. L’idea di non rimpiazzare Justin Reyes e credere nell’essenza del gruppo fino al momento del suo rientro, cercando di classificarsi nelle prime cinque del campionato, ha ripagato. La fiducia riposta da parte della dirigenza in un primo momento nell’allenatore e in secondo luogo nel roster è stata ripagata. Trieste arriva ai Playoff da quinta classificata nel Girone Rosso di Serie A2, e il finale di stagione è di livello assoluto. Arrivano due 3-0 consecutivi ai quarti di finale e in semifinale, prima del confronto con Cantù nella serie finale; quello che qualche decennio prima sarebbe stato uno scontro tra pesi massimi della pallacanestro italiana diventa un’opportunità per tornare in Paradiso.
Justin Reyes, atteso per tutti i mesi di calvario personale e collettivo, dimostra con i fatti quanto vitale fosse per i giuliani, trascinando i suoi in gara-2 con 32 punti e 8 rimbalzi. Michele Ruzzier e Ariel Filloy confermano di essere fuori categoria. I playoff si chiudono con una sola sconfitta per i biancorossi, con Cantù che la spunta 74-73 in gara-3. «Questa è la città dove perdi gara-3 della Finale con Cantù in casa, non è nemmeno finita e ci sono già 2000 persone alle 11 di sera, nella via sopra a Valmaura, all’ingresso principale, che fanno la fila per poter essere presente due giorni dopo, in gara-4. Fanno tre ore di fila fino alle due di mattina. Ti dà così tanto che quando ti toglie, ti resta nel cuore», dice Lodovico Deangeli.
«Giancarlo Ferrero, capitano storico di Varese, una persona straordinaria, è andato via piangendo. Trieste resta dentro a tutti. Se qualcuno la vivesse la potrebbe spiegare persino meglio di me, che sono di qui». E alla fine è promozione, di nuovo. Proiettandosi verso un futuro inesplorato, ma con al centro un elemento di fondamentale importanza per il progetto della Pallacanestro Trieste: la continuità.
«Sono molto fiero di Jamion, perché è stato tostissimo. Anche io non sono abituato al 100% all’Italia, ma è più facile per me: almeno posso parlare un po’ di italiano, assottiglio le distanze. Lui ha una moglie, tre figli: ha accettato una vita completamente diversa, e nel bel pieno della crisi aveva tifosi che gli gridavano addosso, per strada», racconta Michael Arcieri.
«Mi sono davvero sentito responsabile per lui, perché ero io ad averlo portato qui. L’aver fatto qualcosa di positivo, aver fatto sì che lui percepisse l’affetto, l’amore e la passione di questa città, che meritava, mi ha fatto stare meglio. Alla fine è andata bene, ma è stato veramente un film. Qualcuno avrebbe dovuto fare un film sulla scorsa stagione, così piena di emozioni, intensità».
UNA FINESTRA SUL MARE, INCONTAMINATO
Paul Matiasic ha sempre stampato in faccia uno di quei sorrisi a 36 denti, tipici dell’uomo di successo americano. Non sai mai se sono sintomo di una felicità leggera e genuina, di una serenità d’animo che pervade davvero questo tipo di persone; o se sono un prodotto, anche involontario, di tutto ciò che sta attorno a figure del genere, che raccolgono soddisfazioni professionali come pane quotidiano.
Se dovessimo considerare la voglia di raccontare e la capacità dialettica come delle doti necessarie per lavorare all’interno della Pallacanestro Trieste, lui rappresenterebbe la prova regina. Esattamente come Jamion Christian e Mike Arcieri, ama ascoltare ma anche dire la sua, in modo ricco e articolato.
Lo intervisto durante lo shootaround dei biancorossi alla Virtus Segafredo Arena di Bologna, in occasione di una delle trasferte più importanti dell’anno, quelle che ti segni sul calendario con la matita rossa. È elegante, come sempre, ed estremamente desideroso di dirti la sua. Prima di tutto, però, si nota la sua affezione per questo club, di cui è divenuto Presidente l’agosto scorso.
Lo si nota nel cognome, che non mente. Guardando all’albero genealogico della sua famiglia, Paul Matiasic ha le radici ben piantate in Istria, da cui suo nonno e suo padre sono partiti in direzione Stati Uniti durante l’esodo giuliano-dalmata. Viene da quest’angolo di pianeta, e ci è voluto tornare. «Questa regione è parte di me. Trieste e tutta quest’area di mondo è unica, perché si tratta di un melting pot eterogeneo di diverse culture, persone che hanno affrontato di tutto con il passare dei decenni: sconvolgimenti politici, diverse linee di demarcazione tracciate… Tutto ciò ha rappresentato un motivo davvero convincente per me nel voler restituire qualcosa alla comunità».
«Sono sempre stato consapevole che le opportunità che ho avuto la fortuna di trovare negli Stati Uniti fossero nate dai sacrifici dei miei antenati in questa regione. Ho dato nomi italiani ai miei figli, Alessio e Gisella, perché non avrei mai voluto che si dimenticassero da dove vengono. È veramente una meravigliosa chiusura del cerchio: dal piantare delle radici in quest’area, crescere e avere successo negli Stati Uniti, e tornare ad investire nel territorio da cui tutto è partito».
Al di là del suo legame personale con questa terra di confine, quello che si è sviluppato come uno degli avvocati processuali più affermati nel suo Paese è oggi un investitore che ha a cuore anche lo sport. Il controllo delle quote di Cotogna Sports Group è stato il passaggio chiave per chiudere il cerchio di cui parlava, e gettarsi a capofitto nel Golfo di Trieste. «Tra tutti i progetti che avevo sul tavolo, alla fine ho deciso di puntare su Trieste per una variegata serie di ragioni. La mia connessione a questa regione è stata centrale nella mia decisione: mia mamma è nata a circa un’ora e mezza di distanza da qui, mio padre a poco meno di un’ora. Ho una forte, profonda e costante connessione con la comunità», sottolinea ancora.
«Ho anche pensato che dal punto di vista economico Trieste potesse essere una realtà in crescita vitale, non solo fermandosi all’Italia ma anche spostando lo sguardo all’Europa. Fin dall’inizio l’ho valutato come un investimento affascinante. La cultura cestistica che c’è qui è davvero unica in Italia. Quindi si è trattato di una confluenza di eventi che mi hanno portato a questa decisione, e non mi sono più voltato indietro. È stato stupendo».
L’inizio della presidenza Matiasic rappresenta l’ennesimo punto di congiunzione nel ponte venutosi a creare tra Trieste e gli Stati Uniti, che aveva in un primo momento rappresentato un unicum già il 26 agosto 1985, quando Michael Jordan indossò la maglia dell’allora Stefanel per un’amichevole contro Caserta. Di quella storica giornata al PalaChiarbola si ricordano 41 punti di un alieno e un tabellone in frantumi da cui nacquero delle speciali Air Jordan in tinte nere ed arancioni.
La componente americana, parzialmente espressa già nella prima stagione completa con la nuova proprietà al comando, sfociata nella promozione al primo colpo, esplode come pollini in primavera dall’estate in poi. Gli investimenti aumentano, e a Trieste arriva non solo la conferma di Justin Reyes, ma anche gli innesti di americani come Colbey Ross e Markel Brown (entrambi già a Varese con Michael Arcieri), Jayce Johnson, Jarrod Uthoff e l’ex Chicago Bulls Denzel Valentine.
A bordo sale anche un altro americano, ma che da diversi anni milita in Serie A da tesserato italiano, avendo ottenuto la cittadinanza e un debutto proficuo con Italbasket: Jeff Brooks. Un giocatore su cui il General Manager newyorkese aveva messo gli occhi già svariati mesi prima, affascinato dalla sua versatilità come lungo multi-posizionale. E da un carisma sconfinato. «Quando sono arrivato a Varese», mi racconta Mike Arcieri, «nella nostra prima partita abbiamo battuto Venezia, e c’era Jeff Brooks. Questo ragazzo mi ha impressionato fin da subito, con la sua altezza e fisicità combinata ad una versatilità senza pari: sapeva fare tantissime cose. Era il giocatore perfetto per il nostro sistema: difensore su tutti i ruoli senza fatica, sa mettere palla a terra, tira da tre… è perfetto. Il fatto che giochi da italiano, beh, it’s the cherry on top of the cake».
«Ovviamente non sapevo se ci saremmo guadagnati subito la promozione, ma anche all’inizio della stagione 2023-24 stavo pensando alla costruzione di una squadra una volta tornati in Serie A. In tutti i miei pensieri - tutti - lui era presente. Perché Jeff può partire in quintetto, può uscire dalla panchina. È un quattro, ma può fare il cinque o il tre. C’era ancora molto che Jeff Brooks potesse dimostrare in Italia, nel mondo. There’s a lot more in the tank».
«Ho pensato che Trieste fosse il fit giusto per lui. Ho sempre voluto firmarlo, come marito è fantastico ed è un padre eccezionale. È veramente una persona squisita, e quello che non conoscevo ancora è la sua leadership, la sua voce nello spogliatoio. Ha superato ogni mia aspettativa, e le mie aspettative erano estremamente alte per lui. Mi sembra che si trovi benissimo a Trieste, e spero che rimanga qui ancora molto tempo, per 4-5 anni», mi dice con fermezza.
«Qui si sta godendo tutto, ha molta libertà di esprimersi. Il mio problema con Jeff è che non tira abbastanza da tre, eppure ha quasi il 40.0%. “Jeff, shoot that!” Passa il pallone e mi fa diventare matto, ma è un problema positivo: significa che è altruista, e vuole trovare la miglior soluzione possibile. Jeff Brooks è un giocatore che vorrei sempre nella mia squadra».
La stima è reciproca, visto che l’ala italoamericana conferma in toto l’interesse che gli è stato dimostrato, e che ora si sta trasformando in un amore privo di circostanze. Il loro primo incontro risale al settembre 2023, in occasione di un evento LBA in cui Michael Arcieri era stato premiato come Miglior dirigente dell’anno per la stagione precedente, quella giocata con Varese.
«In quel nostro primo incontro abbiamo parlato di noi stessi, ci siamo iniziati a conoscere. Non abbiamo parlato di pallacanestro. Mi aveva visto giocare e aveva sentito parlare di me per quanto tempo avevo trascorso in Italia. Ma voleva conoscere cosa si celasse dietro al giocatore: come fossi come persona, come uomo, come fosse la mia famiglia», dice Jeff Brooks.
«Dopo quello, ognuno ha vissuto il proprio anno, lui a Trieste e io a Venezia. Gli sono rimasto in mente e abbiamo parlato durante l’estate: tutto si è allineato come si sarebbe dovuto allineare. He spoke into existence ed è un qualcosa di cui mi ha parlato a lungo. Mi voleva nella sua squadra, ed eccomi qui. Non sono stato così felice nel basket per molto tempo. Essere qui finora è stato life-changing. Ho vissuto così tanto, così velocemente. Ci sono state un sacco di cose su cui mi sono soffermato, pensando “Wow, qui è diverso”», aggiunge il veterano 35enne.
Inoltre, per la prima volta nella sua lunga carriera oltreoceano - che in Italia l’ha visto passare anche da Jesi, Cantù, Caserta, Sassari, Milano e Venezia - avrebbe potuto avere un coach afroamericano. «È un fratello, un afroamericano come me. Sento che capisce da dove vengo, capisce quello che sta accadendo nella mia vita anche fuori dal campo, cose che possono sorgere perché veniamo dallo stesso posto. Avere qualcuno come me come allenatore è bellissimo», dice.

«Non avrei mai pensato che sarebbe potuto succedere in Europa, ed eccomi qui a Trieste», aggiunge. Ovviamente, è un tipo di sensazione che può riguardare anche diversi suoi compagni di squadra. «Può entrare in contatto con Markel, Denzel, Colbey, Jarrodd, Jayce… tutti quanti. Perché viene da quella parte del mondo. Finora è stato fantastico averlo come allenatore». Lo stesso allenatore biancorosso è conscio di questo tipo di privilegio, venutosi a creare grazie al background universitario che ha raccolto per diversi anni negli Stati Uniti.
«È sicuramente un grande vantaggio. Alcuni ragazzi vogliono giocare per un coach americano. Quanti allenatori afroamericani ci sono nel mondo, in Europa? Siamo in pochi. Per molti rappresento l’opportunità di lavorare con qualcuno che riconoscono come familiare, con cui possono comunicare in una maniera differente. Possiamo soffermarci su determinati aspetti sui quali non sono stati abituati a soffermarsi nel corso del tempo, nonostante siano qui da un po’ di tempo. Questo ci aiuta a insegnare e capire il gioco».
«Alleno un certo tipo di libertà in ogni caso. Anzi, non la chiamo libertà, la chiamo autonomia. Le persone ci vedono giocare e pensano che diamo molta libertà ai nostri giocatori, ma la libertà è l’abilità di fare quello che vuoi senza conseguenze. L’autonomia è l’abilità di prendere la decisione corretta ed essere ritenuti responsabili di quella decisione. Quando ci vedi giocare, si tratta di avere autonomia; si tratta di farmi valere in una specifica situazione, non solo fare qualsiasi cosa io voglia o desideri. Per me tutto riguarda avere il potere di prendere delle scelte ed essere responsabile delle scelte stesse», aggiunge Christian.
Così come al primo colpo era stata raggiunta la promozione in Serie A, scacciando via gli incubi e i fantasmi derivati dalla retrocessione a pochi mesi dall’arrivo della nuova società, al primo colpo ai piani alti della pallacanestro italiana è stato raggiunto un piazzamento ai playoff, in cui affronteranno Brescia al primo turno. Un risultato costruito con una precisa identità di gioco, ma anche con la perfetta congiunzione delle due anime alla base del progetto: quella americana e quella locale, triestina.
«Una cosa molto importante per me è non dimenticare mai dove ci troviamo il contesto in cui operiamo: non siamo una squadra americana che gioca a Trieste. Siamo una squadra italiana, magari con qualche radice statunitense, che è fiera dell’importanza e della storia della sua città, e soprattutto di avere giocatori triestini», sottolinea Michael Arcieri, l’uomo che ha plasmato quest’alchimia.
«Quando io firmo [Lodovico] Deangeli, [Stefano] Bossi - che a stagione in corso si è spostato ad Orzinuovi, ndr -, [Michele] Ruzzier, o Francesco [Candussi], che non è triestino ma di Palmanova, lo faccio perché giocano bene, ma specialmente perché hanno sofferto una retrocessione. Chi ha più desiderio di loro in prendersi una rivincita? Voglio un rapporto stretto tra giocatori e città. Dobbiamo vincere sul campo, naturalmente. Ma dobbiamo vincere nella vita e nel cuore dei nostri tifosi».

Un percorso che si sviluppa anche fuori dal campo. «Abbiamo creato un dipartimento puro per il coinvolgimento dei nostri tifosi con la comunità. È fondamentale. Dobbiamo rimanere veri con noi stessi; e questo lo si fa vincendo, certo, ma soprattutto costruendo una cultura invidiabile. I fondamentali, i pilastri alla base non sono americani, italiani o greci. Sono universali. Dobbiamo avere una cultura sportiva dove everybody respects themselves», aggiunge il General Manager.
Il ritmo a cui si sono sviluppate (e si stanno sviluppando) le ambizioni della Pallacanestro Trieste è cambiato in positivo. Per dinamismo, armonia decisionale, forte e profondo desiderio di puntare verso l’alto. Daniele Cavaliero, che ha vissuto diverse fasi nella storia recente e passata di questo club, lo sa meglio di tanti altri.
«La pallacanestro a Trieste e la Pallacanestro Trieste adesso girano a una velocità supersonica. Guardando al di là della strada costiera che ti porta a Trieste o che ti fa uscire da Trieste o dal Carso triestino, si nota una visione un po’ più grande, internazionale, audace nel provare a direzionarci in qualcosa di nuovo che non abbiamo mai fatto», sottolinea l’ex capitano biancorosso, oggi sempre al PalaTrieste ma con una giacca indosso.
«Io ho sempre visto che cosa potessi fare da giocatore per far sì che la mia gente di Trieste venisse a vederci, a vincere le partite, a essere degli esempi», dice. «In realtà loro ci fanno guardare un pochino più in là ed è molto bello. È il primo grande insegnamento. In questo momento, in generale la pallacanestro a Trieste e la Pallacanestro Trieste vanno a una velocità raddoppiata rispetto a quella che vivevo io, dove anche il basket era un pochettino più lento».
«Ma è giusto così, perché senza cambiamento non avremmo spazio per il nuovo, no?». Un nuovo che potrebbe significare Europa in futuro: «Vogliamo creare qualcosa di speciale. Sarebbe speciale arrivare a giocare delle coppe europee, un giorno. Chissà. Per ora non siamo arrivati ancora a niente, ma il fatto che i tifosi apprezzino la maniera in cui approcciamo le partite… è priceless», dice Arcieri.
«Denzel [Valentine] che passa la palla a [Luca] Campogrande, lui segna da tre e loro ridono insieme: quello è priceless. Se 6.000 persone condividono quel momento, si sentono bene. Un padre guarda suo figlio e pensa che vuole che il figlio veda questo gruppo di persone. Siamo solo all'inizio di tutto questo percorso», sottolinea il General Manager biancorosso.
Un percorso che, sognando ad occhi aperti un futuro europeo, ha finora raggiunto tappe significative. Come la cavalcata fino alla semifinale di Coppa Italia, i rinnovi pluriennali per Michele Ruzzier e Colbey Ross, le vittorie contro corazzate come Virtus Bologna e Milano, la riqualificazione del campetto di Valmaura e le svariate iniziative legate a “Cuore in Campo”, un progetto che va al di là della pallacanestro e avvicina la squadra ai più bisognosi.
Un percorso che si vede anche nella naturale separazione da figure chiave, come Christian, che al termine di questa stagione farà ritorno negli Stati Uniti, chiamato ad allenare a Bryant University. Ma portandosi dietro un amore ormai sconfinato per un posto che, nel momento della registrazione di Last Call con Michael Arcieri, non avrebbe saputo individuare sulla mappa. E che invece è diventata casa, dove fare riscaldamento insieme ai suoi giocatori prima della palla a due.
«Amo essere qui. Amo essere vicino all’acqua. Amo essere vicino alle persone che vivono di pallacanestro. Amo quello che stiamo cercando di stabilire qui con lo sport. Veniamo ogni giorno in palestra con un obiettivo reale; vivere un’esperienza in cui ti poni l’obiettivo di raggiungere qualcosa di grande in un posto che continua a crescere, amando la pallacanestro, è gratificante», dice Christian.
«Non direi nemmeno che si stia “crescendo”». È più un ridefinirsi, riportare a fasti antichi. Ed è bello essere parte di un certo tipo di processo. I triestini, la nostra gente, non ha sempre amato me, ma siamo arrivati in una posizione di grande rispetto e comprensione reciproca. Sono stato in Italia per due anni, ed è casa mia». Casa sua, casa di Mike Arcieri, di Daniele Cavaliero, di Jeff Brooks.
Casa di Paul Matiasic, di Denzel Valentine, di Francesco Nanni. Casa di Michele Ruzzier, di Colbey Ross, del primo abbonato, dei bimbi che battono il tamburo in Curva e del cameriere che ti serve un nero in Piazza Unità. Casa di triestini e di triestini adottivi. Soffia ancora la bora.