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Comprare il calcio
23 feb 2024
23 feb 2024
Storia di paesi che decidono all'improvviso di spendere per diventare potenze calcistiche.
(copertina)
Illustrazione di Andrea Chronopoulos
(copertina) Illustrazione di Andrea Chronopoulos
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Nell’agosto di quest’anno, sotto la grande tenda dedicata al Re Fahd che campeggia al centro dell’altopiano desertico del Neged, poco distante dalla grande città-oasi di Riyad (letteralmente “giardini” in arabo), si è tenuta una grande festa. Un importante ospite è giunto da occidente per offrire i suoi servigi al regno del principe ereditario Mohammed Bin Salman. È considerato un grande maestro e le sue gesta sono note in tutto il mondo. Il popolo è in festa e lo accoglie con canti e balli. Migliaia di torce rischiarano la notte del deserto.

Non è l’incipit di una delle Mille e una notte, ma la presentazione ufficiale di Neymar con la squadra saudita dell’Al-Hilal. Il calciatore brasiliano - uno dei più geniali, discussi e famosi dell’ultimo decennio - entra nel campo che dovrebbe vederlo protagonista per almeno due anni: quello del King Fahd Stadium, la cui architettura si ispira effettivamente alle tradizionali tende beduine di questa parte della penisola arabica.

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La presentazione è simile a quella che molti giocatori ricevono anche in Europa, ma assume tratti più sfarzosi, c’è una ricerca di magnificenza più esasperata. Nel cielo vengono proiettati giganteschi ologrammi che ci ricordando che il futuro è qui. Dai video che arrivano a noi in Italia se ne susseguono altri, tutti molto interessanti per motivi diversi. Quello che mi colpisce di più scrive: “Welcome to RSL [Roshn Saudi League, ndr]". L’attaccante brasiliano non viene, quindi, presentato solo come nuovo giocatore dell’Al-Hilal, ma anche come nuovo giocatore dell’intero campionato saudita. Una strategia comunicativa sconosciuta per quanto riguarda i campionati europei, dove anzi, l’acquisto è “contro” il resto del campionato.

La reazione della stragrande maggioranza degli appassionati europei per quest’operazione di mercato, come per molte altre, è stata di rabbia, sdegno, e, nel caso particolare di Neymar, anche rassegnazione. In Italia, dove non è particolarmente apprezzato per usare un eufemismo, è stato percepito da molti come la goccia che fa traboccare il vaso, il segno che qualcosa è cambiato definitivamente. Peggio ancora: come suggeriscono alcuni commenti sotto il tweet che riportava i dettagli economici dell’accordo scritto da Fabrizio Biasin – uno dei giornalisti sportivi più seguiti sui social in Italia– viene percepito come la conferma che “il calcio è morto/finito”.

I soldi messi in campo dal campionato saudita nell’ultima sessione di mercato sono davvero tanti: quasi un miliardo di euro è stato speso quest'estate dai club della Saudi Pro League; cifra astronomica che assume contorni ancora più fantascientifici se pensiamo che nella stagione 2022/23 le stesse società avevano speso poco meno di 44 milioni. Sicuramente questo pesante afflusso di denaro ha dei connotati “apocalittici”, anche solo perché viene da un regno autoritario che fa fiorire grattacieli e emergere isole nel deserto, ma non è la prima volta che viene annunciata la morte del calcio e tutte le volte è stata collegata al denaro.

Il legame fra denaro e calcio è quindi stretto e molto più antico dell’arrivo dei soldi sauditi, cementato da un professionismo precoce rispetto ad altri sport e da un rapidissimo radicamento nelle masse. Un legame che ha da subito suscitato l’interesse da parte della politica e del capitale, interessate all’attrazione popolare che da sempre ha caratterizzato il calcio. Gli esempi sono molti e risaputi. Dagli Agnelli che rendono la Juventus la Nazionale della Serie A a Silvio Berlusconi e alla proiezione delle sue manie di grandezza sul Milan - solo rimanendo in Italia.

Quando però questo legame si palesi in Paesi con regimi politici diversi dalle democrazie liberali, da parte della stampa e dell’opinione pubblica occidentale l’accusa che viene mossa è quella di sportwashing - cioè lo sfruttamento dello sport a fini propagandistici, per distrarre l’opinione pubblica dallo scarso rispetto dei diritti umani. In un articolo di circa un anno fa, l’accademico ed ex calciatore Jules Boykoff ha per la prima volta definito lo sportwashing: “un fenomeno per cui i leader politici usano lo sport per apparire importanti o legittimi sulla scena mondiale, alimentando al tempo stesso il nazionalismo e distogliendo l’attenzione dai problemi sociali cronici e dalle sofferenze dei diritti umani sul fronte interno”, rimarcando però come questo possa essere portato avanti sia da regimi autoritari che da quelli democratici.

La parola sportwashing è molto recente ma la pratica descritta è molto antica. Possiamo far risalire addirittura alle Olimpiadi antiche l’utilizzo dello sport a fini politici, o ai giochi gladiatori dell’Impero Romano con cui l’élite politica provava a distrarre la plebe dai problemi quotidiani.

Al di là delle radici storiche, comunque, il termine sportwashing risulta erroneo o quantomeno carente per un altro motivo: implica che i regimi che lo praticano vogliano indossare una maschera e presentarsi come diversi da quello che sono e più somiglianti allo standard culturale e politico dominante. Ma spesso non è così. Lo sport in realtà è un’importante vetrina attraverso cui i Paesi e le culture possono e vogliono mostrarsi per quello che effettivamente sono e magari presentarsi come delle valide alternative a quello che è lo standard dominante in quel momento.

L’ascesa di nuovi protagonisti sulla scena calcistica è sempre andata di pari passo con un’ambizione più grande da parte di soggetti o stati nell’arena geopolitica. Perché quindi con l’Arabia Saudita parliamo di “morte del calcio”? Ci sono state altre “morti” in passato? E perché questa sarebbe diversa? Ho ricapitolato tutte le volte che un Paese "alieno" ha provato a comprarsi il suo spazio all'interno del calcio internazionale, per provare a capire cosa aspettarci da questo ultimo tentativo saudita.

Il Kuwait

21 giugno 1982, Valladolid. Si gioca Francia-Kuwait valevole per la fase a gironi dei Mondiali e i “galletti”, in cerca di riscatto dopo la sconfitta con l’Inghilterra nella prima giornata, conducono senza patemi per 3 a 1. Sembrerebbe una delle classiche partite dimenticabili dei gironi ma sarà così solo fino al 79’ quando Platini, con un gran tocco di mezzo esterno destro, serve Giresse che può superare la difesa kuwaitiana con uno stop a seguire e segnare.

Qualcosa però non va. I giocatori del Kuwait reclamano qualcosa ed effettivamente rivedendo le immagini, ad un certo punto, sembrano fermarsi. Ed ecco il fattaccio. Sugli spalti il presidente della federazione locale, Fahad Al Sabah, fa segno ai suoi di lasciare il campo, dopodiché scende direttamente lui sul terreno di gioco, scortato dalla Guardia Civil spagnola, e va a colloquio prima con i suoi e poi con l’arbitro, il sovietico Miroslav Stupar. Vuole l’annullamento del gol: i difensori del Kuwait, dice, si sono fermati per aver sentito un fischio arrivato dagli spalti. Il gol è validissimo, ma l’arbitro viene messo alle strette e lo sceicco minaccia di ritirare la squadra dalla competizione. La rete di Giresse, alla fine, viene annullata.

Oggi il ricordo di questo evento è sbiadito. Per i moltissimi che assistettero allora, però, quello fu il primo contatto con il calcio della penisola arabica. Non tanto attraverso il difensore Mahboub Mubarak o il centravanti Faisal Al Dakhil, quanto nello sceicco Al Sabah, nella sua figura autoritaria in abiti tradizionali, nella sua kefiah bianca e rossa, nella tunica dishdasha coperta dal mantello marrone, nei suoi baffi folti. Un esotismo che a lungo è stato poi percepito come invadente ed estraneo al mondo del calcio. Come in un eterno ritorno nietzschiano all’inizio della morte del calcio c’è un altro emirato della penisola arabica.

Lo sviluppo del calcio in Kuwait è precoce rispetto al resto della regione e questa precocità si manifesta, nel corso degli anni Settanta, in un dominio del calcio regionale e della Coppa delle nazioni del Golfo. La rappresentativa del piccolo emirato vince le prime quattro edizioni avendo la meglio anche su Nazionali di Paesi ben più grandi e popolosi come Arabia Saudita ed Iraq. Nel 1976 il Kuwait arriva addirittura in finale di Coppa d’Asia contro l’Iran padrone di casa. Un risultato impressionante per una Nazione piccola e con solo un milione di abitanti: come è stato possibile?

Negli anni ‘70 il Kuwait è stato il Paese della regione più vicino alle democrazie liberali per politiche civili, culturali ed economiche: libertà di stampa e di espressione che attirano numerosi scrittori arabi, leggi civili più distanti dalla tradizione islamica e molto più libere nei confronti delle donne, una grande apertura alle forme d’arte più contemporanee e diversificazione rispetto alla sola economia del petrolio. Un grande patrimonio ha però difficoltà a trovare possibilità di investimento se non viene riconosciuto come un soggetto finanziario e politico affidabile. Il Kuwait ha bisogno di presentarsi al grande pubblico e trovare legittimità nel consesso delle Nazioni.

Il calcio per tutto questo sembra il palcoscenico ideale. Lo è in virtù del lavoro politico del presidente della FIFA, Joao Havelange, che, attraverso una serie di misure di aiuti ed aperture, viene incontro alle necessità di attenzione dei paesi emergenti di Asia ed Africa (e degli sponsor). Fa particolarmente gola, al Kuwait come ad altri paesi nella stessa condizione, il Mondiale del 1982, per la prima volta a 24 squadre. Per centrare l’obiettivo, la federazione calcistica dell’emirato decide di puntare sulla scuola brasiliana. Nel 1976 ingaggia come commissario tecnico della propria Nazionale il leggendario Màrio Zagallo, tre volte campione del mondo con il Brasile (due da giocatore ed una da commissario tecnico nel 1970). Il grande obiettivo viene, però, centrato dal suo successore: il connazionale, e inizialmente vice, Carlos Alberto Parreira. Questo allenatore giramondo, che nel 1994 guiderà il Brasile tetracampeão, fa fare il salto definitivo ai kuwaitiani: nel 1980 arriva la vittoria della prima ed unica Coppa d’Asia, giocata in casa, e, subito dopo, riesce nella qualificazioni ai Mondiali di Spagna come prima squadra asiatica.

L’esperienza kuwaitana alla fase finale della Coppa del Mondo del 1982 è fatta di alti e bassi, e forse con il senno di poi non è stata la vetrina che il Kuwait si aspettava. Dal punto di vista del campo, i ragazzi di Parreira non sfigurano e riescono anche a bloccare sul pareggio la Cecoslovacchia. La delegazione della Kuwait Football Association, però, non fa parlare di sé per il suo gioco. Oltre al citato annullamento del gol di Giresse, ancor prima dell’inizio del torneo, il presidente della federazione Al Sabah minaccia di non far giocare la squadra se gli organizzatori non avessero fatto entrare nel centro tecnico la mascotte ufficiale: un cammello.

Proprio in quel 1982 inizia inoltre il periodo più difficile della storia del Paese. Quell’estate, infatti, oltre alla credibilità del Kuwait crolla anche il Souk Al-Manakh, un mercato azionario non ufficiale. Nel frattempo si fa sempre più ingombrante l’azione politica del confinante Iraq, guidato dal 1979 da Saddam Hussein. Il Kuwait sostiene economicamente il vicino nella Guerra con l’Iran, ma ne fa le spese con una serie di attentati terroristici e dirottamenti aerei. Il rifiuto da parte del Kuwait di condonare i debiti contratti dall’Iraq durante la guerra, unito alla pretesa irachena di controllo sulle attività petrolifere dell’emirato, portano, nel 1990, Saddam a muovere guerra al piccolo vicino dando inizio alla Prima Guerra del Golfo.

Fra febbraio e marzo dello stesso anno Luiz Felipe Scolari – il terzo allenatore brasiliano campione del mondo ad allenare la Nazionale kuwaitiana – aveva condotto il Kuwait alla vittoria di un’altra Coppa delle Nazioni del Golfo, ma lascia l’incarico appena scatta l’invasione. Il Paese rimane devastato sul piano umanitario, sanitario, politico ed economico: centinaia di pozzi petroliferi vengono dati alle fiamme dall’esercito iracheno, ed il greggio accumulato nelle raffinerie viene riversato nelle acque del Golfo Persico. Eppure il calcio sembra resistere. La nazionale del Kuwait si impone anche nella Coppa del Golfo del 1996 e 1998 e, proprio nel 1998, riesce a raggiungere la ventiquattresima posizione del ranking FIFA, la più alta della loro storia.

Con l’avvento del nuovo millennio l’interesse della governance kuwaitiana per il calcio sembra venire meno ed i risultati vedono un inesorabile declino, messo in pausa solo dalla vittoria della Coppa del Golfo del 2010. Il punto più basso di questa costante discesa viene toccato nel 2015. Nell’ottobre del 2015, la FIFA sospende – dopo una precedente sospensione di due anni fra 2007 e 2009 – la Kuwait Football Association “per il mancato rispetto degli obblighi previsti dagli articoli 14 e 19 dello Statuto FIFA”, con conseguente sospensione delle sue Nazionali. La causa è, in sostanza, la legge sportiva dell’emirato che non avrebbe garantito autonomia alla federazione e al comitato olimpico.

Oggi il Kuwait non sembra più così interessato o forte abbastanza per investire sullo sport, circondato com’è da una competizione spietata. Il fondo sovrano del Kuwait (Kuwait Investment Authority), che sulla sua homepage si definisce “una forza del bene nei mercati globali”, è ancora uno dei fondi sovrani più importanti del mondo, ma negli ultimi anni si è mosso su terreni finanziari più tradizionali come il settore bancario, delle infrastrutture e industriale.

È invitante paragonare l’esperienza del Kuwait a quelle recenti di Qatar e Arabia Saudita. Ma in 50 anni il calcio è cambiato: trasferimenti internazionali, sponsor più redditizi, più competizioni e una audience davvero globale rendono oggi il calcio ancora più attraente. Ancora per quanto?

Gli Stati Uniti

Nel 1988, lo studioso di scienze politiche Andrei Markovits pubblica uno studio dal titolo The Other "American Exceptionalism" - Why Is There No Soccer in the United States? Alla fine degli anni ‘80 ancora si poteva affermare, senza paura di essere smentiti, che non c’era il calcio in America.

La stessa domanda se l’era fatta Clive Toye, scrittore e giornalista sportivo inglese che nel 1967, a trentacinque anni, decide di andare negli Stati Uniti a “portare il calcio”. Toye trova la fiducia di Steve Ross, fondatore e presidente della Warner Communications, colosso del settore dell’intrattenimento, che nel 1971 aveva anche fondato la squadra dei New York Cosmos insieme ad altri soci investitori, i quali, spinti dagli stadi vuoti e dall’assenza di copertura televisiva, si erano prontamente ritirati. Ross continua a credere nel progetto e crede a Toye, che gli promette la balena bianca: Pelé. Ross non sa neanche chi sia ma mette sul piatto tanti soldi: 4,5 milioni di dollari per tre anni di contratto, cifre totalmente fuori scala per l’epoca. L’interesse dell’uomo che poi creerà MTV è esclusivamente di business: ha visto uno spazio vuoto e vuole metterci le mani per primo. Nell’affare Pelé, però, finisce per rientrarci la politica.

In quell’affare, infatti, sarebbe intervenuto anche il Segretario di Stato Henry Kissinger, che avrebbe usato la sua influenza sul Ministro degli Esteri brasiliano affinché il governo consentisse a “O Rei”, dichiarato vari anni prima “Tesoro nazionale”, di trasferirsi a New York. Al suo astro poi vengono aggiunte altre stelle. I Cosmos ingaggiano Giorgio Chinaglia nel 1976, Beckenbauer e Carlos Alberto l’anno successivo, mentre in altre squadre della North American Soccer League (NASL) finiscono altre leggende sul viale del tramonto come Eusebio, Cruyff, Best e Bettega.

Ad un iniziale ottimismo, però, fa seguito un rapidissimo declino. Il calcio non trova le simpatie degli americani e gli interessi degli investitori. La storia della NASL, che per un attimo era sembrata essere la concretizzazione del sogno di Clive Toye, finisce nel 1985 quando la lega dichiara fallimento.

Il sogno, però, non muore, anzi, si ripresenta proprio quando le cose non sembrano poter migliorare. Fra il 1987 e i primi mesi del 1988 la federazione americana (USSF) presenta alla FIFA la candidatura per ospitare i Mondiali del 1994. Un tentativo era stato già fatto per ospitare l’edizione del 1986 dopo che la Colombia, precedentemente incaricata, aveva rinunciato nel 1982 per problemi finanziari. All’epoca, però, gli Stati Uniti avevano presentato un’offerta incompleta ed insoddisfacente, e così l’organismo mondiale del calcio aveva premiato il Messico. Questa volta è diverso. La candidatura è corposa, completa e dettagliata, fatta di elenchi di sedi e stadi ma non solo: sistemi di trasporto, biglietti, marketing, coperture televisive e garanzie governative sulla concessione dei visti necessari ai giocatori di Iraq e Iran. Un grande lavoro, necessario a superare altre due candidature forti, come quelle di Brasile e Marocco. Il progetto americano risulta il più convincente.

La conquista dei Mondiali si inserisce in una fase nuova della Guerra Fredda. Subito dopo la staffetta olimpica fra Mosca e Los Angeles tra il 1980 e il 1984 – con relativi e reciproci boicottaggi – le due superpotenze spostano proprio sul calcio le proprie attenzioni. L’Unione Sovietica si era candidata per l’edizione del 1990, ma il blocco sportivo occidentale aveva dato la vittoria all’Italia.

Quando si arriva all’estate del 1994, però, ormai l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche è dissolta e sta crollando anche il cosiddetto “blocco comunista”. I Mondiali americani, in questo senso, sembrano inserirsi alla perfezione nell’idea di una “fine della Storia”, immaginata dal politologo statunitense Francis Fukuyama in un omonimo saggio del 1992. Nella storia universale e unidirezionale, che marcia verso la globale affermazione del capitalismo – il più perfetto fra i sistemi economici – e del liberalismo democratico – il più perfetto fra i sistemi politici - il definitivo radicamento dello sport più popolare del mondo nell’unica superpotenza e unico Paese-guida del mondo sembra essere una tappa fondamentale, se non necessaria.

Non sembrano esserci opposizioni, quindi, eppure, subito dopo l’annuncio della scelta degli USA come paese ospitante, il presidente della federazione calcistica keniota, sostenitrice della candidatura marocchina, dichiara: «Sono molto deluso da questa decisione. Se c'è un calcio che ha bisogno di una spinta, è il calcio africano, non quello americano. Gli Stati Uniti non hanno alcuna tradizione in questo sport». È vero, si chiedono milioni di appassionati di tutto il mondo, come la mettiamo con la tradizione? D’altronde gli Stati Uniti non partecipavano ad un Mondiale dal 1950. C’è addirittura il sospetto che agli americani stessi non interessi più di tanto ospitare la Coppa del Mondo. In Italia la questione viene riassunta dal pezzo Nessuno allo Stadio di Elio e le Storie Tese: “Fondamentalmente agli americani non interessano i mondiali di calcio americani”. È vero? Un sondaggio dell’epoca mostra come solo il 20% dei cittadini statunitensi sa che si terranno i Mondiali di calcio nel proprio Paese.

Eppure negli stessi anni il calcio inizia ad essere praticato sempre di più nei college e gli Stati Uniti iniziano ad affermarsi come la migliore Nazionale femminile al mondo. La storia del calcio femminile americano ha inizio nel 1972, con l’approvazione del Title IX, legge che proibiva le discriminazioni di genere nei programmi educativi finanziate a livello federale. La possibilità per le donne di accedere a borse di studio universitarie per il merito sportivo portò alla nascita di squadre di calcio femminili nei college e, nel 1982, alla creazione di un torneo universitario inquadrato nella potente NCAA.

Il primo periodo d’oro della Nazionale femminile inizia quando la guida tecnica venne affidata ad Anson Dorrance, che mette la sua impronta sulla squadra convocando teenager come Julie Foudy, Kristine Lilly e Mia Hamm, che aveva appena quindici anni al momento della sua prima convocazione. Nel 1988, stesso anno dell’annuncio dell’assegnazione agli USA dei Mondiali maschili del '94, la FIFA annuncia la creazione del Mondiale femminile, con la prima edizione da tenersi in Cina nel 1991. Gli Stati Uniti la vincono battendo in finale la Norvegia per 2-1 in una partita tesissima.

La partita completa, per chi fosse interessato.

L’amore delle ragazze americane per il soccer sboccia definitivamente nel 1999, quando gli Stati Uniti vincono i Mondiali di casa in finale contro la Cina. Una vittoria di un impatto clamoroso sull’immaginario sportivo americano. La foto che ritrae Brandi Chastain con la maglietta da gioco in pugno, in ginocchio, dopo aver segnato il rigore decisivo finisce sulle pareti di migliaia di camerette in tutto il Paese, oltre che sulle copertine di Time, Newsweek e Sports Illustrated.

L’identificazione del calcio come sport “da femmine” negli Stati Uniti passa anche da una scarsissima considerazione per il calcio maschile, almeno fino a poco tempo fa. Se i Mondiali del 1994 sono un grande successo di pubblico ed economico, non è lo stesso per il campionato americano, la Major League Soccer (MLS). La creazione di una lega calcistica professionistica era una delle condizioni per i Mondiali del 1994 e viene annunciata nel dicembre del 1993. La prima edizione però si tiene solo nel 1996 e vede la partecipazione di appena dieci squadre. I numeri di pubblico non sono male ma crollano già dalla seconda edizione, secondo alcuni per via dei tentativi di “americanizzare” il gioco.

Solo nel 2007 arriva la svolta. Viene stabilita la Designated Player Rule, secondo la quale ogni squadra ha diritto ad un giocatore il cui stipendio può sforare il salary cap. La regola prende presto il nome del primo giocatore per cui è valsa: David Beckham, che proprio quell’anno si trasferisce ai Los Angeles Galaxy. Il trasferimento desta scalpore: Beckham ha solo 31 anni e si sta addirittura tagliando lo stipendio pur di andare negli Stati Uniti: guadagnava circa 20 milioni di dollari annui con le “merengues” e sarebbe passato a prenderne solo 6,5 con i Galaxy – in un campionato in cui la maggior parte dei giocatori era semiprofessionista e guadagnava solo 13 mila dollari l’anno dal calcio. In realtà, come recentemente svelato dal giornalista Joe Pompliano, Beckham ottiene anche una percentuale su tutte le entrate del club, dal merchandising agli hot dog, arrivando a guadagnare 255 milioni di dollari durante i suoi cinque anni con i Los Angeles Galaxy. Ma l’affare più grande della sua vita, non solo della sua carriera da calciatore, David Beckam lo sigla ottenendo la possibilità di acquisire, a partire dal momento del ritiro dal calcio giocato, una franchigia di MLS per soli 25 milioni di dollari. Nonostante un primo anno difficile, proprio a partire dall’arrivo di Beckham – e dalla creazione della Designeted Player Rule – la popolarità della MLS subisce un’impennata. La lega inizia finalmente ad espandersi e si instaura una sorta di versione calcistica dello “scambio colombiano”: i migliori talenti statunitensi (come Clint Dempsey e Jozy Altidore) fanno il grande salto in Europa, veterani di grande livello ed esperienza fanno il percorso inverso. Questo schema porta negli States giocatori come Ljungberg, Henry e più avanti Villa, Pirlo, Kakà e tantissimi altri.

Negli anni successivi la MLS continua ad espandersi e ad attrarre non solo grandi giocatori a fine carriera, ma anche attenzioni da parte di media e jet set. Nel frattempo Beckham si è ritirato e nel 2014 ha annunciato la creazione della sua franchigia, l’Inter Miami. Ricordate che l’inglese aveva un’opzione per acquistarne una a 25 milioni di dollari? Ad oggi il valore della sua franchigia – grossomodo l’equivalente del valore medio delle franchigie MLS – è di 585 milioni: circa il 2240% in più rispetto al valore d’acquisto.

Oggi la MLS è un’organizzazione molto forte a livello finanziario, con un ottimo seguito – in patria e all’estero – che garantisce entrate stabili e corpose. Siamo ben distanti dall’incertezza e dalla fragilità dei vecchi tentativi di portare il calcio in America. Ma a che punto siamo sportivamente? Il soccer è uno sport (anche) americano? Di certo possiamo dire che il calcio non è mai stato così popolare negli Stati Uniti. Forse non siamo ancora in una situazione di parità con il calcio messicano, ma la grande forza economica sta aiutando la lega a mettersi in una posizione molto favorevole rispetto alla maggior parte dei campionati sudamericani. Oltre ai grandi veterani dall’Europa, sono ormai numerosi i giovani talenti, anche di primissimo livello, di Argentina, Uruguay ma anche Brasile che accettano trasferimenti negli Stati Uniti come step intermedio prima di passare in Europa. Fra questi pensiamo in particolare ad Alan Velasco e Thiago Almada, campione del mondo in Qatar e stella assoluta dell’Atlanta United.

In questa situazione si è poi inserito nell’estate del 2023 l’approdo di Lionel Messi proprio nella squadra di Beckham, l’Inter Miami, portando il calcio statunitense ancora su un altro livello. Con anche un otto volte Pallone d’Oro dalla sua e la prossima Coppa del Mondo da disputarsi (prevalentemente) su suolo statunitense, l’MLS sembra essere pronta a porsi come campionato leader non solo dell’America del Nord, ma anche, in una trasposizione calcistica della Dottrina Monroe, di tutto il continente.

Forse non si può davvero parlare per gli Stati Uniti di una strategia governativa, rendendo fragile un paragone con l’Arabia Saudita, ma è interessante comunque che il calcio americano negli anni abbia assorbito contenuti politici propri. Un ambiente di tifo che si fa spesso carico di messaggi progressisti, unito alla grande forza con cui le calciatrici della Nazionale femminile pretende l’equal pay rispetto ai propri colleghi uomini e alla popolarità della figura di Megan Rapinoe– incredibilmente assurta ad una dei principali nemici di Donald Trump - ha creato un’associazione mentale fra calcio e orientamento politico progressista. Il calcio negli Stati Uniti non è più quindi solo uno sport “per femmine” e “per stranieri”, ma addirittura, come ha sbottato qualche commentatore conservatore, “un complotto liberale”.

La Russia

La Russia è un caso un po’ particolare: è l’unico ad avere una antica tradizione calcistica, anche agli occhi di una appassionato dell’Europa occidentale. Il Pallone d’oro Lev Yashin e il titolo europeo del 1960 parlano chiaro, ma questo non significa che in tempi più recenti la Russia non abbia provato a sua volta ad utilizzare il calcio per proiettare sul mondo un’immagine di forza.

Stiamo parlando soprattutto di ciò che ha fatto negli anni precedenti alla tentata invasione dell’Ucraina da Vladimir Putin. Il “nuovo zar” emerge in un periodo di profonda crisi economica – “la più grave crisi economica e finanziaria che nessun sistema economico ha mai sperimentato nell'età contemporanea”, come scrive la politologa Mara Morini (La Russia di Putin, 2020) – e si fa largo con una retorica che parla di rimettere la Russia al centro del sistema di relazioni internazionali, ma anche di “distruggere gli oligarchi come classe”. Il progetto economico putiniano viene sospinto anche dalla costante crescita, nel primo decennio del XXI secolo, del prezzo del petrolio. Gli oligarchi non scompaiono – ancora oggi la classe imprenditoriale russa è ristrettissima paragonata al resto d’Europa – ma si inquadrano al meglio in una gestione del potere “neo-patrimoniale”.

I confini fra pubblico e privato, quindi, si sfumano e si fanno porosi; questo, in unione al ruolo primario affidato ai combustibili fossili, non può che farci pensare – soprattutto volendo arrivare al calcio – a Gazprom. La società nasce negli ultimi anni dell’Unione Sovietica e si privatizza negli anni di Eltsin. Proprio nel corso della lotta contro gli oligarchi, Gazprom finisce per essere rivoltata al suo interno direttamente da Putin, iniziando a trasformarsi in una società tecnicamente quotata in borsa ma di fatto statale. Nel 2005 Gazprom entra nel calcio acquistando il 70% delle quote dello Zenit San Pietroburgo, squadra del cuore dell’amministratore delegato (dell’epoca e attuale) Aleksej Miller e, secondo più voci, dello stesso Putin.

L’acquisto da parte del colosso del gas segna una svolta epocale per lo Zenit. In epoca sovietica aveva vinto solamente un campionato nel 1984 mentre nel 1998 aveva vinto la coppa nazionale e, in generale, non aveva mai tenuto il livello delle squadre di Mosca (o di Kiev). A partire dal 2007, però, inizia ad imporsi come la squadra dominatrice del calcio russo, che in parte è ancora oggi è. Ma in quegli anni si sviluppa un sistematico intervento nel calcio da parte di grandi aziende e organizzazioni che sono parte integrante della gestione “neo-patrimoniale” del potere che abbiamo citato. Si crea un modello neo-sovietico di organizzazione dello spazio calcistico: così come nell’epoca del socialismo reale le varie squadre erano espressione dei dopolavori dei vari apparati statali (il CSKA dell’esercito, la Dinamo della polizia, lo Spartak del sindacato Komsomol, il Lokomotiv delle ferrovie, e così via), nella nuova Russia putiniana le squadre sono articolazioni delle più grandi società – pubbliche, private ma strategiche, ibride pubblico-private – del Paese.

Nel 2004 si instaura un fortissimo legame fra lo Spartak Mosca e Lukoil – compagnia petrolifera nonché più ricca società privata russa e seconda in assoluto dietro Gazprom – prima attraverso Leonid Fedun, co-fondatore e vicepresidente della compagnia petrolifera e poi, dall’agosto 2022, direttamente con l’acquisto diretto e per intero della società.

Dal 2009, invece, l’ex squadra della Polizia, la Dinamo Mosca, diventa a tutti gli effetti la squadra della VTB47, la principale banca russa. Vi sono poi squadre che, in una continuità estrema con il periodo sovietico, hanno un legame molto forte, se non di vera e propria proprietà, con società statali. È il caso del Lokomotiv Mosca, che ancora oggi è di proprietà della società delle ferrovie russe, la RZD. Il CSKA, invece, di cui il Ministero della Difesa mantenne una partecipazione fino ai primi anni Duemila, nel 2019 passa in mano alla VEB48, società pubblica statale di investimento “senza scopo di lucro” che sostanzialmente gestisce una parte dei beni dello Stato russo. Non solo grandi società statali o ibride, in generale la presenza pubblica nel calcio russo è molto forte e varie squadre della prima divisione sono oggi di proprietà delle autonomie locali: città, regioni, oblast.

I successi europei di CSKA e Zenit nel 2005 e nel 2008 sembrano però più i risultati di una inedita sfornata di grandi talenti russi – che infatti portarono la Russia ad una semifinale europea nel 2008 – e di un’ottima guida tecnica, come quella dell’olandese Dick Advocaat. Paradossalmente - perché la Russia la crisi economica globale del 2008 la soffre non poco - i grandi investimenti arrivano dopo. Nel quinquennio fra 2010 e 2015, la Premier Liga è il terzo campionato al mondo per saldo negativo e la sesta per spesa complessiva. A fare la voce più grossa in quegli anni è sempre lo Zenit che, oltre all’ingaggio di Luciano Spalletti, tocca il suo apice con gli acquisti, nella sessione di mercato del 2012, di Hulk e Witsel per 40 milioni di euro l’uno. Il mercato russo inizia a proporre cifre inedite che suscitano perplessità nella stessa Russia. Il centrocampista Denisov, della squadra di San Pietroburgo, dichiara stizzito: «Avessimo preso Messi o Iniesta avrei capito, perché sono giocatori che valgono qualsiasi prezzo. Ma abbiamo preso dei buoni calciatori che possono dare una mano ma che non sono così forti da guadagnare un ingaggio tre volte superiore a quello di altre stelle della squadra».

Fra 2011 e 2013 si dà alla pazza gioia anche un’altra squadra, che soprattutto i tifosi dell’Inter ricorderanno bene. È l’Anzhi Machačkala di Suleyman Kerimov. Fulgido e stereotipato esempio di “oligarca russo”, Kerimov è attivo principalmente nell’attività mineraria con la sua Polyus Gold, principale società russa di estrazione dell’oro, e dal 2008 è rappresentante del Daghestan al Consiglio federale russo. Viene quindi indicato a più riprese come uno dei “fedelissimi” di Putin. Kerimov aveva già dimostrato una certa “passione” per il calcio quando nel 2004 aveva fatto un tentativo per comprare le quote di maggioranza della Roma dalla famiglia Sensi, a quanto pare su consiglio del suo amico Roman Abramovich.

Vari anni dopo decide di acquistare la principale squadra della sua repubblica natale e di porsi grandissimi obiettivi. Innanzitutto, contrastare il dominio delle squadre delle due maggiori città russe; in secondo luogo, competere con le grandi dell’Europa occidentale. Fra i vari colpi messi assegno ricordiamo Roberto Carlos, ormai sul viale del tramonto, e l’anno successivo Samuel Eto’o, che diventa il calciatore più pagato al mondo con uno stipendio da 20 milioni di euro a stagione. La gestione tecnica è affidata al veterano Guus Hiddink. Nel 2012 c’è tempo per qualche altro acquistone, come quello di Willian dallo Shakhtar per 35 milioni di euro, e per un terzo posto in campionato, prima che un mandato di cattura internazionale spinga Kerimov a smobilitare completamente il suo giochino.

C’è da dire che la Russia in quegli anni ne regala di storie incredibili. Nel 2011 il leader della Cecenia ancora oggi al potere, Ramzan Kadyrov, scende in campo per portare il grande calcio nel suo Paese, letteralmente. A marzo capitana una sorta di selezione cecena contro una di vecchie glorie brasiliane delle Nazionali campioni del mondo nel 1994 e 2002: l’inquadratura scorre e inquadra Cafù, Romario, Bebeto, Dunga. Poi, di colpo, il tarchiato ras sembra quasi un deepfake o uno di quei video di FIFA che si trovano su Instagram in cui la squadra dell’Ordine della Fenice sfida quella dei Mangiamorte.

A maggio l’esperimento si ripete e si migliora. Stavolta vengono chiamati e profumatamente pagati, in una selezione di World Stars, nomi come Baresi, Dida, Vieri, Figo e, da capitano, Maradona. Con gli anni il progetto ceceno non si sviluppa molto sul piano sportivo e non riesce a raggiungere le vette del calcio russo, ma si fa sempre più carico di significato politico. Nel 2017, infatti, il Terek Grozny, squadra di cui il leader ceceno è presidente, cambia nome in Akhmat Grozny, in onore di Ahkmat Kadyrov: padre di Ramzan, Gran Muftì e leader dei separatisti nella prima guerra cecena per l’indipendenza. Riavvicinatosi poi alla Russia grazie a Putin e diventato presidente della Repubblica cecena, Akhmat viene ucciso nel 2004 in un attentato proprio nel vecchio stadio di Grozny.

Del rapporto tra Russia, Cecenia e Daghestan, e di come questo si rifletta nel mondo dello sport, abbiamo parlato anche in questo episodio di Trame, il nostro podcast di sport e geopolitica.

Ogni squadra nella galassia putiniana sembra essere una vetrina - oltre che un modo per diversificare gli investimenti – per la società o l’entità politica che la possiede o controlla o sponsorizza. Ma nel suo insieme il calcio – il campionato e la Nazionale – è sì uno strumento utilizzato per dare un’immagine della Russia all'esterno, ma anche, e forse di più, per tenere insieme la Federazione e ricostruire un'identità nazionale nuova ma tradizionale, ortodossa ma anche musulmana, unitaria ma diversificata al suo interno, imperiale ma anche sovietica.

Il tentativo di Putin di riabbracciare la storia dell’URSS, riscrivendola in toni patriottici sciovinisti, è palese anche nel calcio. La Nazionale per esempio dal 2006 torna a vestire di rosso, dopo che nel primo decennio e mezzo di storia della Federazione era stato relegato ai margini dei kit in favore del bianco e del blu. Questo richiamo stilistico ha raggiunto l'apice con il completo sfoggiato dalla squadra russa nell'evento culmine del connubio fra calcio e politica putiniana, i Mondiali del 2018. Per l'occasione, Adidas ha rispolverato, a trent'anni di distanza, la divisa dell'ultima Nazionale sovietica trionfatrice, quella delle Olimpiadi di Seul del 1988.

Il Mondiale maschile del 2018 è sembrato l’apice della parabola dell’utilizzo del calcio e dello sport in generale come arma di soft power da parte di Putin, che nel corso degli anni Dieci abbiamo visto riempire sempre più i nostri telegiornali e diventare sinonimo stesso della Russia. La volontà politica di Putin si è intrecciata con quella economica della FIFA di esplorare nuovi mercati e potenziali investitori nel 2010, quando il 2 dicembre l’organizzazione internazionale del calcio ha annunciato che i Mondiali del 2018 si sarebbero svolti in Russia e quelli del 2022 in Qatar.

La Russia, nel quinquennio 2013-18 mette in piedi una grande macchina organizzativa, dalle Olimpiadi invernali di Sochi del 2014 ai Mondiali di nuoto del 2015 e non solo. Tutto un preambolo al grande evento planetario. Lo scandalo del cosiddetto "doping di Stato", scoppiato alla vigilia delle Olimpiadi di Rio del 2016, crea “un parziale cortocircuito all’interno di questa strategia” (Brizzi, Sbetti, 2022) e riporta alla luce la politicizzazione dei Mondiali del 2018. L’annessione della Crimea, il sostegno ai separatisti del Donbass, la posizione nel contesto siriano, i sospetti di intervento nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti incrinano poi i rapporti con gli alleati occidentali.

L’invasione dell’Ucraina, come sappiamo, ha fatto precipitare definitivamente le cose, anche nello sport, che si è ritrovato ancora una volta ad essere uno dei principali terreni di scontro in termini di soft power. Il calcio, negli organismi di UEFA e FIFA, si è dimostrato insospettabilmente pronto ad accogliere gli appelli del blocco occidentale, espellendo la Russia da tutte le competizioni come quasi tutto il resto del mondo olimpico. Negli ultimi mesi i tentativi di riavvicinamento non sono mancati ma anche solo l’ipotesi – poi smentita – di una riammissione delle Nazionali giovanili russe alle competizioni continentali ha ridestato lo spettro del boicottaggio, che alcuni pensavano morto negli anni Ottanta.

L’India

Eccoci qui, nella gemma dell’Impero Britannico, nel cuore di quel grande spazio transnazionale in cui il calcio non riesce proprio ad attecchire. Questo è il territorio del cricket: il gioco degli inglesi per eccellenza per tutto l’Ottocento e oggi il gioco degli inglesi – che però solo nel 2019 hanno vinto la loro prima Coppa del Mondo – e di tutti quei popoli che a lungo hanno subito la loro dominazione, soprattutto nel subcontinente indiano.

Ma il calcio ha comunque una storia antica in India, fondata sull’imperialismo britannico e sulla visione razzista che lo reggeva. Il precoce professionismo e l’etichetta di peoples game non facevano del calcio lo svago ideale per quei militari e funzionari che in India riuscivano ad arrivare a titoli nobiliari a loro preclusi in patria. Ma il calcio trovò un proprio spazio di diffusione proprio fra la popolazione autoctona. Non si diffuse in maniera omogenea in tutta l’India, ma particolarmente nel Bengala, quindi a Calcutta. Il calcio divenne lo sport in cui i bengalesi – allora considerati dagli inglesi deboli e codardi, al contrario dei Sikh forti e coraggiosi – riuscirono a lungo ad esprimersi al meglio: di Calcutta era Nagendra Prasad, considerato il “padre del calcio indiano”, e formato da bengalesi (prevalentemente indù) era il Mohun Bagan, club che, giocando a piedi scalzi, vinse nel 1911 la IFA (Indian Football Association) Shield – una delle più antiche competizioni calcistiche del mondo – battendo in finale l’East Yorkshire Regiment, squadra di militari inglesi.

La squadra del Mohun Bagan che vinse l'IFA Shield nel 1911.

Nel corso del Novecento si è continuato a giocare a calcio in India, sempre soprattutto nel Bengala. La vastità del Paese e la sua carenza dei collegamenti hanno però sempre reso difficile organizzare competizioni nazionali. Il primo campionato su base nazionale, la National Football League, viene organizzato solo nel 1996 e si basa ancora su una pratica semi-professionistica.

Nel 2010 però la All Indian Football Federation decide che è il momento di rilanciare il calcio indiano e di farlo con un campionato nazionale, con grandi contratti televisivi e grandi nomi che possano giustificare questi accordi. L’AIFF stringe accordi con la Reliance Industries, il più grande gruppo industriale indiano, e con la società americana di distribuzione e gestione di contenuti sportivi IMG. La nuova grande competizione, che prende il nome di Indian Super League, incomincia solo nel 2014. Il sistema è a franchigia: vengono presentate le otto città che avrebbero preso parte alla prima edizione e i privati avrebbero poi deciso su quale investire. L’opportunità stuzzica imprenditori e figure dello star system indiano, come vari interpreti di Bollywood e gli ex campioni di cricket Sourav Ganguly e Sachin Tendulkar. Il primo acquista la franchigia di Calcutta insieme all’Atletico Madrid, fra gli altri. Quale nome migliore per la squadra, quindi, se non Atlético de Kolkata e quale maglia se non quella a strisce bianche e rosse? Il tipo di format però comporta alcuni problemi con la AFC (Asian Football Confederation) che per anni non riconoscerà questo campionato come quello utile alla qualificazione per le competizioni continentali, come la Champions League asiatica a vantaggio del vecchio campionato semi-professionistico della I-League.

Il format della competizione prevede che ogni squadra abbia un allenatore e una star straniera, grandi nomi del passato recente. Alla stagione d’esordio prendono parte, in questa veste, Luis Garcia, Elano, Pires, Ljumberg, Capdevila, il portiere inglese David James, David Trezeguet e Alessandro Del Piero. Quasi tutti nomi di primissimo piano nei primi anni Duemila, ma che nel 2014 pensavamo ritirati. Viene poi rispolverato il romanticissimo ruolo di giocatore-allenatore: incarico assunto, a tre anni dal suo ritiro ufficiale, da Marco Materazzi per il Chennaiyin FC. Altre chicche si trovano in panchina: Zico è alla guida del Goa mentre Franco Colomba a quella del Pune City. Cosa spinge questi giocatori a provare l’esperienza indiana? Beh, la paga è buona – Materazzi si accorda per un milione di dollari a stagione con il Chennaiyin – e la stagione dura solo tre mesi.

La prima stagione è un successo in termini di pubblico e di ricavi e per la seconda vengono raggiunte nuove ed importanti sponsorizzazioni. Nella seconda stagione nuovi grandi nomi arrivano a portare il proprio contributo nella missione di “portare il calcio in India”: Simão, Mutu, Lucio, Roberto Carlos, Helder Postiga, Riise, Malouda e altri. Le regole spingono l’ingaggio di giocatori stranieri fissando un minimo di otto ma anche un massimo di dieci.

Nel corso degli anni, però, la caratura di nomi stranieri nella competizione è decisamente calata. Questo per una perdita di interesse o per strategia? L’obiettivo della ISL è sempre stato quello di far sviluppare il calcio indiano più che di creare un campionato indiano che potesse competere con quelli esteri. Nel 2021 vengono quindi cambiate le regole per l’ingaggio di giocatori stranieri – ora minimo quattro e massimo sei (con almeno uno che deve provenire da un’altra nazione asiatica) - e aggiunta la regola per cui ci devono essere almeno sette giocatori indiani in campo. Inoltre la AIFF sta rispettando la road map presentata alla Asian Football Confederation per l’integrazione della ISL nel sistema calcistico indiano rendendolo la prima divisione di un scala nazionale con promozioni e retrocessioni, un po’ come successo con la Premier League inglese nei primi anni Novanta.

I compiti principali dell’ISL sembrano essere stati portati a termine. Il campionato, anche senza gli incentivi degli esordi, ha suscitato l’interesse di un colosso come il City Football Group, che nel 2019 ha acquistato la maggioranza delle quote del Mumbai City, portandola a vincere il campionato nel 2021 e nell’aprile del 2022 ad essere la prima squadra indiana a vincere una partita di AFC Champions League. Dei miglioramenti si possono poi notare anche nel percorso della Nazionale maschile, che è passata dalla posizione 171 del ranking mondiale FIFA nel 2014 all’attuale 99, miglior risultato di sempre.

La Cina

«Durante questa fase della mia carriera, ho guadagnato molti soldi. Ma sai cosa ho fatto? Ho detto al mio agente che volevo solo comprare 15 case e portare la mia famiglia fuori da Fuerte Apache. Tutto quello che ho fatto è stato garantire che la nuova generazione di Tevez avesse una vita migliore». Carlos Tevez ha pronunciato queste parole la scorsa estate, quando si è ritrovato a dover commentare l’improvviso esodo di decine di calciatori verso l’Arabia Saudita. "L’Apache" non ha critiche da muovere a quei giocatori, ma solo vera e propria comprensione. Comprende perché lo ha fatto anche lui. Non è andato mai in Arabia Saudita, ma nel 2017, per una sola stagione, ha lasciato il suo amato Boca Juniors per trasferirsi in Cina, l’Arabia Saudita di allora.

Il caso della Cina non a caso è quello che in quest’ultimo anno è stato paragonato di più all’irruzione della Saudi Pro League. In Cina, però, il calcio arriva più anticamente. Senza dover arrivare all’antico gioco cinese dello tsu-chu, si può iniziare dall’association football che gli inglesi portarono attraverso l’Hong Kong Football Club che portò poi alla nascita del South China Football Club, promosso da calciatori locali. Con gli anni Trenta segnati da uno stato di guerra perenne e la FIFA che nel dopoguerra riconosce Taiwan come la vera detentrice dell’anima cinese, la Cina, cioè la Repubblica Popolare Cinese, scompare dallo scenario calcistico internazionale fino alla fine degli anni Settanta.

È negli anni Ottanta che la Cina riscopre il calcio, dopo il decisivo incontro tra Nixon e Mao che riapre le porte del Paese al mondo. In questi anni il miglior risultato della Nazionale è la finale di Coppa d’Asia del 1984, persa contro l’Arabia Saudita. L’apertura della Cina al calcio non è casuale e va di pari passo con l’apertura della Cina al capitalismo. Il “socialismo con caratteristiche cinesi”, costruito da Deng Xiaoping, vede l’introduzione di elementi di libero mercato, che vengono accompagnati da una serie di mutamenti di costume e di mentalità.

Nel 1987 viene introdotto un sistema semi-professionistico, mentre per un primo campionato professionistico a tutti gli effetti bisogna aspettare la Jia-A League del 1994. Il mercato potenzialmente illimitato attrae anche qualche investitore straniero e le aziende statali cinesi continuano a pomparvi fondi sperando proprio di attrarne altri. L’effetto sorpresa, però, si esaurisce con la prima stagione e l’affetto dei tifosi cinesi va a dissolversi a causa di alcuni scandali di corruzione. La situazione di crisi e di allontanamento non si placa con il nuovo millennio e nel 2008 la CCTV, la televisione di stato, sospende la trasmissione del campionato.

L’allontanamento dal campionato nazionale non corrisponde ad un allontanamento dei cinesi dal calcio in generale, che, anzi, diventa oggetto di una sorta di mania. I grandi campioni, i grandi stadi e i grandi incontri – trasmessi in Cina dai primi anni Novanta – suscitano ancora emozioni nel pubblico cinese; in particolare la Premier League che già si muove decisamente meglio delle altre leghe europee per quanto riguarda i diritti televisivi. Col passare degli anni le grandi europee iniziano a fare tournée e amichevoli, facendo conoscere anche a noi – che guardiamo straniti tutto ciò – l’enorme passione del popolo cinese per le squadre di casa nostra.

L’idea da parte del governo di progettare un rilancio del calcio cinese sembra partire dalle Olimpiadi di Pechino del 2008. Il comitato olimpico cinese si aggiudica i Giochi nel 2001, dopo che aveva già provato ad ottenere quelli del 2000, verso la fine della presidenza di Jiang Zemin. Un periodo complesso ma sostanzialmente di rilancio per la Repubblica Popolare sulla scena internazionale: ulteriori aperture alla classe imprenditoriale e all’economia di mercato, che portano anche all’ingresso nella WTO (World Trade Organization) nel 2001, e il riottenimento del controllo su Hong Kong (1997) e Macao (1999). Nonostante le polemiche su gestione dei diritti umani e Tibet che li precedono, i Giochi cinesi sono un successo organizzativo e sportivo, ricordati soprattutto per gli otto ori di Michael Phelps e l’esplosione del fenomeno Usain Bolt. Sono un successo ancora più grande per la Cina che conclude in testa al medagliere per la prima volta nella sua storia con 51 ori.

Ma c’è ancora qualcosa che non va giù ai vertici del Partito. Nel 2009 Xi Jinping, allora Vice Presidente della Repubblica, dichiara: “Il livello del calcio cinese è relativamente basso, ma dopo aver vinto così tante medaglie d'oro in altri sport ai Giochi Olimpici, la Cina deve essere determinata a potenziare il calcio”. Sono parole che suonano profetiche o quantomeno di avvertimento quando, poche settimane dopo, il Ministero della Pubblica Sicurezza fa partire la più grande campagna anti-corruzione della storia dello sport cinese e, nel corso dei due anni successi, oltre cinquanta fra le figure di più alto livello del calcio nazionale – fra arbitri, giocatori, allenatori e dirigenti – vengono arrestati. È la pars destruens del grande progetto di rilancio del calcio cinese.

Negli anni successivi al 2008 Xi prende personalmente a cuore la questione portandola nelle discussioni ufficiali del Partito Comunista e addirittura al 18° Congresso Nazionale – dove tra le altre cose viene nominato Segretario – in cui ha posto il ringiovanimento del calcio in agenda come tappa importante per lo sviluppo dello sport e per la “costruzione di una potente Nazione sportiva”. Già un anno prima, nel 2011, Xi Jinping aveva pubblicamente espresso i suoi “tre desideri per il calcio cinese”: qualificarsi ad un Mondiale, ospitare un Mondiale, vincere un Mondiale. Il leader del PCC vede nel calcio una componente fondamentale nella diffusione globale del “sogno cinese”: un insieme di ambizioni e desideri individuali e collettivi che deve muovere i cinesi (e non solo), che richiama la retorica del “sogno americano”, ma che allo stesso tempo se ne distanzia e con cui vuole competere sul piano culturale.

Ma, quindi, cosa fare per realizzare il sogno? Come inizia il piano di rilancio del calcio cinese? Innanzitutto credendoci. I primi a farlo sono Hui Ka Yan e il suo Evergrande Group. La società dell’immobiliare di lusso acquista il Guangzhou Football Club, club della città conosciuta in occidente come Canton, militante in seconda divisione, e subito investe cifre mai viste prima nel calcio cinese. Con una squadra fuori categoria arriva poi il primo titolo nazionale. Il primo acquisto iconico, che segna l’inizio del vero “periodo cinese”, è quello di Dario Conca dal Fluminense. Cresciuto nel River Plate, si afferma tardi in Brasile, portando il Fluminense in finale di Libertadores nel 2008. Poi, di colpo, non si sa come, non si sa perché, diventa uno dei calciatori più pagati al mondo quando nel 2011 si accorda con il Guangzhou Evergrande per uno stipendio annuale di 10,6 milioni di euro all’anno.

Mentre anche lo Shangai Shenhua prova ad inserirsi con gli acquisti di Anelka nel 2011 e Drogba nel 2012, il Guangzhou Evergrande mette il primo mattone del suo solido dominio quasi decennale assumendo Marcello Lippi come allenatore. Il CT campione del mondo con l’Italia si presenta senza tentativi di falsa modestia: «Il mio arrivo può essere un grande affare e la cosa più importante per la Cina oggi», dichiara. Sotto la guida di Lippi e poi di Cannavaro e Scolari, la squadra di Canton metterà in bacheca sette campionati nei successivi otto anni e due AFC Champions League. Questa sorta di monopolio non allontana nuovi investitori, che anzi entrano in scena con ancora più foga, anche se sempre con l’approvazione del partito comunista cinese.

Il cambio di passo avviene nella stagione 2015/16 quando il campionato cinese segna un rosso di 302 milioni di euro nei trasferimenti. Cambia la caratura dei colpi di mercato. Non si cercano più le vecchie glorie capaci di attirare grandi attenzioni ma da cui non si può pretendere troppo a livello di campo. Ora si puntano i migliori talenti di Europa e Sudamerica. Per attrarli, però, c’è bisogno di cifre da capogiro.

L’anno successivo è lo Shangai SIPG – di proprietà dell’operatore portuale che detiene l’esclusiva sul commercio nel porto di Shangai - a ribaltare il tavolo da gioco: arriva Hulk dallo Zenit San Pietroburgo per 56 milioni di euro e, nel trasferimento più discusso dell’estate, Oscar dal Chelsea. Il centrocampista brasiliano, fra i calciatori più tecnici al mondo in quel periodo, è ormai messo ai margini del progetto dell’allenatore dei “blues”, Antonio Conte, ma le pretendenti in Europa non mancano. Si parla di Atletico Madrid e Juventus, squadre capaci di lottare per la Champions League, ma Oscar preferisce la possibilità di diventare, per breve tempo, il secondo calciatore più pagato al mondo – dietro Neymar – con uno stipendio di circa 25 milioni di euro annui. È il momento in cui in Cina arriva anche Tevez, a cui lo Shenua offre 38 milioni netti a stagione.

L’investimento nel calcio è considerato proficuo dal punto di vista economico e d’immagine, capace di garantire riconoscibilità al proprio marchio. Qualche società più spregiudicata decide di investire anche nel calcio europeo ma il tutto, come sappiamo, dura poco. Il calcio cinese ha mancato i suoi obiettivi di sviluppo, il campionato è tornato ad essere periferico in un lasso di tempo molto breve e ci si chiede se l’Arabia Saudita farà gli stessi errori. Ma quali sono stati questi errori cinesi? Dobbiamo ricordare che in Cina vige un economia di mercato ma pur sempre inserita in un contesto ideologico socialista, in cui gli interessi dello Stato vengono sempre e comunque prima di quelli delle imprese. La pianificazione è un elemento centrale dell’economia cinese.

Nonostante i grandi investimenti, la federazione cinese (CFA) lamenta: "La spesa dei club della CSL è circa dieci volte superiore a quelli della K-League della Corea del Sud e tre volte superiore a quelli della J-league giapponese. Ma la nostra Nazionale è molto indietro”. Insomma si sono persi di vista gli obiettivi dettati da Xi, che tanto aveva scommesso sul potere di ringiovanimento del calcio, e ci si è discostati troppo dalla Linea. Nonostante tutte le migliori squadre abbiano comunque creato le proprie academy e scuole calcio, il presidente della CFA, Chen Xuyuan, aggiunge: “Le bolle non influenzano solo il presente del calcio cinese, ma danneggiano anche il suo futuro”. La pioggia di soldi che ha investito il campionato cinese viene quindi ufficialmente etichettata come “bolla” e a fine 2020 viene introdotto un rigoroso salary cap per cui i giocatori stranieri non potranno prendere più di 3 milioni di euro lordi all’anno. Vengono inoltre vietati i riferimenti aziendali nei nomi delle squadre e il tutto perde, quindi, di attrattiva per le società private. Lo Jiangsu Suning vince il campionato nel 2020 ma nel corso di un inverno (il periodo di pausa nel calcio cinese) viene soppresso dalla sua proprietà.

La bolla del calcio cinese esplode in concomitanza con la più gonfia e devastante bolla dell’immobiliare, tremolante già alla fine degli anni dieci ed esplosa definitivamente dopo la pandemia. In questo contesto, il grande dominatore del calcio cinese, il Guangzhou Evergrande, crolla insieme alla sua proprietà. Dopo i disinvestimenti dal calcio, con il club di Canton che retrocede alla fine della stagione 2022, Evergrande, il più grande gruppo immobiliare cinese, questo autunno ha dichiarato bancarotta al tribunale fallimentare degli Stati Uniti. È l’immagine della fine del periodo cinese.

In molti hanno immaginato questa stessa fine anche per l’Arabia Saudita: è possibile? Entrambe le storie iniziano con un programma a lungo termine, ma si differenziano per un diverso equilibrio tra capitale pubblico e privato. Il programma di Xi Jinping muoveva verso un obiettivo politico, statale e quasi nazionalistico, ovvero la vittoria dei Mondiali da parte della Nazionale cinese reggendosi sul coinvolgimento di grandi realtà private, mosse da interessi di altro tipo. L’Arabia Saudita sembra mossa più da obiettivi economici che politici, anche se non è detto che questi possano rivelarsi più stabili nel lungo periodo. Chi vivrà vedrà.

Emirati e Qatar

L’irruzione dell’Arabia Saudita nel calcio mondiale è stata anche una reazione ai progetti simili, e in questo senso apri-pista, di Qatar ed Emirati Arabi Uniti.

Il Qatar rappresenta già la seconda fase dell’interessamento da parte dei paesi del Golfo per il calcio, con la prima che interessa, oltre al già citato Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti. Nel 1977 Abu Dhabi aveva ingaggiato, come commissario tecnico della propria Nazionale, Don Revie, che, con grande scandalo, lasciò la panchina dell’Inghilterra per accettare. Fu grazie a Mario Zagallo, però, che gli Emirati Arabi Uniti riuscirono a qualificarsi alla fase finale di un Mondiale, quello di Italia 1990. Anche il Qatar si era affidato alla stessa strategia, senza però raggiungere gli stessi risultati. Questi primi esperimenti, comunque, hanno gettato le basi, come si dice. In quegli stessi anni l’Arabia Saudita inizia a dominare il calcio asiatico – sia delle Nazionali che delle squadre di club – e a farsi un nome, come ha raccontato più nel dettaglio Nicola Sbetti in questo articolo. Dal 1995 al 2022 “i falchi” saltano solo due fasi finali dei Mondiali.

Le monarchie del Golfo si ripresentano nei nostri notiziari sportivi a partire dal 2008, quando Mansur bin Zayd Al Nahyan, della famiglia reggente l’emirato di Abu Dhabi, acquista il Manchester City, e ancora di più nel 2011, con Nasser Al-Khelaïfi, ex tennista e imprenditore qatariota, che diventa il nuovo presidente del Paris Saint-Germain. La storia di come queste due squadre - che da sgangherate, magari di culto, ma sicuramente non vincenti - hanno raggiunto le vette del calcio europeo la conosciamo tutti ma vale la pena evidenziare alcune sostanziali differenze.

Nel 2013, cinque anni dopo l’acquisizione del Manchester City, l’Abu Dhabi United Group acquista anche una franchigia della MLS, nominandola New York City FC. È l’atto di nascita del City Football Group, azienda-contenitore che nel corso degli anni diventa la prima grande multinazionale nel mondo del calcio. Sotto il suo ombrello finiscono dodici squadre, sparse per tutto il mondo e quasi tutte militanti nelle prime divisioni dei propri campionati nazionali, alcune delle quali contraddistinte dal nome “City” e dal colore sky blue tipico della “casa madre”. Il City Group è, però, nei fatti il frutto di un investimento privato, anche se supportato dallo stato emiratino attraverso la compagnia di bandiera Etihad. Il PSG è, invece, di proprietà del Qatar Investment Authority, fondo sovrano dell’emirato. Al-Khelaïfi è un manager che rappresenta ufficialmente il suo paese, non solo una società.

A questa differenza si accompagnano anche delle similitudini, e in fin dei conti Mansur è comunque il vice presidente degli Emirati Arabi Uniti. L’investimento dei due Paesi nel calcio – più diretto uno, mediato attraverso l’azione di un gruppo privato l’altro – è stato accompagnato da quello in altri sport: Formula 1, Moto GP, ciclismo, atletica leggera. Il Qatar è arrivato addirittura ad ottenere l’organizzazione del Mondiale del 2022. Un’impresa contestata ma impensabile una ventina d’anni fa.

È nel solco di questi due vicini, in particolar modo del Qatar, che l’Arabia Saudita si instrada, cogliendo le potenzialità diplomatiche del calcio proprio a partire da uno scontro con l’emirato vicino. Nel 2017, infatti, insieme ad Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto, l’Arabia Saudita rompe le relazioni diplomatiche con il Qatar a causa del suo rifiuto all’ultimatum di chiudere Al Jazeera e rompere il proprio rapporto diplomatico privilegiato con l’Iran. Un contrasto che ha rischiato di divenire armato e che è passato anche attraverso il calcio e la sua trasmissione. Successivamente alla rottura, infatti, l’Arabia Saudita ha oscurato il canale sportivo qatariota BeIN Sport e creato un proprio canale pirata “concorrente”. La rottura diplomatica viene ricomposta nel 2021 a favore del Qatar, senza nemmeno rispettare un punto dell’ultimatum che gli era stato presentato. Come scritto da Dario Saltari alla vigilia del grande evento, possiamo dire che proprio il Mondiale – e il suo intervento nel calcio in generale – è stato importante nel porre il Qatar su una posizione di forza al livello della diplomazia internazionale.

La monarchia dei Saud si immette nel tracciato ma con l’obiettivo di sorpassare i rivali. Se infatti Emirati Arabi e Qatar non hanno puntato sul fare del proprio campionato nazionale una competizione di vertice a livello mondiale, l’Arabia Saudita si è posta anche questo obiettivo.

Inizialmente la calata di Riyad nel mondo sportivo aveva seguito un modello più standard, quello dell’organizzazione dei grandi eventi. Per quanto riguarda il calcio, negli ultimi anni la Supercoppa spagnola e quella italiana hanno trovato non solo una nuova casa fra Jedda e Riyad, ma anche un nuovo formato a quattro squadre (entrato in vigore in quest’ultima edizione per quanto riguarda il torneo italiano). Con qualche hanno di ritardo rispetto a Qatar, Emirati Arabi Uniti e Barhein, anche l’Arabia Saudita, è poi entrata nel mondo della Formula 1 con il suo Gran Premio e la società saudita Aramco, la maggiore compagnia petrolifera del mondo, diventando uno dei main sponsor della competizione. Vi è poi la partnership per ora decennale fra WWE e Saudi General Sports Authority – il ministero dello Sport saudita – che si regge principalmente sull’evento a cadenza annuale Crown Jewel.

Lo sport in cui l’irruzione dell’Arabia Saudita è stata più evidente, almeno prima dell’ultima sessione di calciomercato, è stato però il golf. Alla fine del 2021, il fondo sovrano saudita ha inaugurato LIV, il proprio tour di golf professionistico, attirando alcuni fra i migliori giocatori del mondo con montepremi corposi, rompendo il monopolio di fatto dello storico PGA Tour. Ad oggi la situazione su questo fronte si è però ricomposta, all’insegna del comune interesse per il guadagno, con la fusione di LIV, PGA e dell’europea DP World nella nuova società NewCo.

Nel calcio, l’Arabia Saudita ha compiuto dei passaggi obbligati come l’acquisto di una squadra europea da portare al vertice, il Newcastle, e la candidatura ad ospitare la Coppa del Mondo maschile. Se inizialmente sembrava in cantiere una candidatura per l’edizione del 2030 congiuntamente ad Egitto e Grecia, è notizia recente che l’Arabia Saudita sarà con ogni probabilità il Paese ospitante dell’edizione del 2034.

L’obiettivo dell’Arabia Saudita, con questi investimenti, travalica il calcio ed è sintetizzato com’è noto nel programma Saudi Vision 2030, che mira a ridisegnare la società saudita entro quella data. A differenza della Cina, pero, non ha posto concreti obiettivi sportivi per le sue rappresentative e ha ideato un sistema più controllato per far sbocciare il proprio campionato nazionale.

Sostanzialmente il rafforzamento della Saudi Pro League è un progetto “di Stato”, gestito in maniera molto più verticistica di quello di tutti gli altri casi visti in questo articolo, persino di più di quello della Cina socialista (ironico). Quest’estate il Public Investment Fund ha infatti acquisito il controllo delle maggiori quattro squadre saudite - Al-Nassr, Al-Hilal, Al-Ahli e Al-Ittihad - e ha provato a spartire in maniera equilibrata gli acquisti fatti. Secondo alcuni l’obiettivo sarebbe mantenere un livello di competizione equilibrato e rendere queste società attrattive per gli investitori privati – anche stranieri; dopodiché passare al controllo di altre quattro e così via.

La pianificazione e lo sviluppo futuro della SPL passerà anche dalle mani del suo direttore sportivo – uno per tutta la lega – Michael Emenalo, già direttore tecnico del Chelsea dal 2011 al 2017. La figura di Emenalo sarà fondamentale per evitare di commettere gli errori commessi dalla Cina in passato, a partire dallo scarsissimo sviluppo di talenti locali. Il suo primo obiettivo è quello di recuperare terreno sul Qatar e sulla sua Aspire Academy, che lo ha portato a vincere la Coppa d’Asia nel 2019 e nel 2023.

Chissà se la storia dei grandi investimenti economici (e politici) nel calcio, a cui la monarchia saudita sta andando ad aggiungere un nuovo capitolo, si rivelerà circolare o lineare. Qualcuno pensa che questo del calcio sia solo un capriccio dell’appassionato principe ereditario – e presidente di PIF – Bin Salman e che nel caso venisse a mancare lui il castello di carte potrebbe crollare come quando è venuto meno il sostegno del Partito Comunista in Cina. Altri sono certi che l’Arabia Saudita ha i fondi e gli interessi per non finire come i predecessori dell’estremo oriente e sicuramente arriverà a competere con i migliori campionati europei.

Vedremo come andrà a finire. Quel che è certo è che il calcio non si gioca nel vuoto, e quindi è impossibile provare ad immaginarci il futuro ruolo dell’Arabia Saudita in questo sport senza prima immaginarci quello dell’Arabia Saudita nel mondo. E oggi, obiettivamente, è difficile immaginare il futuro del mondo senza Arabia Saudita: purtroppo o per fortuna decidetelo voi.

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