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Una vita di coincidenze
21 mar 2018
21 mar 2018
La vita e la carriera di Osvaldo Fattori, protagonista dei disastrosi Mondiali del 1950 scampato alla guerra e alla tragedia di Superga.
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«La Sises… Sì, era una barchetta. Non era una grande nave. Si ballava anche per quello, perché non aveva la stazza per tenere… Al ritorno io avevo paura se prendevo ancora questa qua». Divertito dai ricordi, Osvaldo Fattori tiene tra le mani una foto degli anni Cinquanta della Sises, una motonave pubblicizzata sui giornali dell’epoca per la sua rotta: da Napoli a Rio de Janeiro. Normalmente portava in Brasile gli emigranti; nel 1950 venne usata dalla Nazionale italiana di calcio per andare a giocare i Mondiali dai quali sarebbe stata eliminata ai gironi. Campionati vinti poi dall’Uruguay di Ghiggia e rimasti impressi per quell’episodio di lutto e delirio collettivo che chiamiamo Maracanazo.

Fattori, ex giocatore dell’Inter e degli "Azzurri", è stato tra i protagonisti di quell’avventura disastrosa. Il perché di quell’assurda spedizione mondiale via mare, invece, ha a che fare con il Grande Torino e l’incidente di Superga dell’anno prima, il 4 maggio 1949. La storia della vita di Osvaldo Fattori è stata caratterizzata dagli intrecci. E come costante, la morte scampata.

«Già la bandiera anela di gonfiarsi ai venti marini».

Alla guerra come alla guerra

Mediano destro, bravo nell’impostazione, Fattori ha passato sette stagioni all’Inter, vincendo due scudetti, seppur non da protagonista, tra il ’47 e il ’54. «A vincere un campionato» raccontava «si sentiva qualche cosa che non so esprimere. Io facevo parte dell’Inter ma non giocavo tutte le domeniche. E i gol io li ho qui, su una mano». È morto a 95 anni, il 27 dicembre scorso, e di mani per contare i suoi gol, comunque, gliene sarebbero servite quattro, avendone realizzati 20 in tutta la carriera, di cui sette con l’Inter.

Con il club nerazzurro è stato a contatto fino all’ultimo, vivendo nella sua villa di Appiano Gentile. È lì che l’ho conosciuto nel 2011, per un’intervista legata a un reportage – realizzato con Francesco Frisari e con il fotografo Matteo Angelini, poi diventato anche un docu-dramma radiofonico – finalizzato a recuperare, di quel viaggio in nave verso i Mondiali del Cinquanta, le testimonianze sue e dei suoi compagni Amadei, Boniperti, Casari e Pandolfini. Negli ultimi anni ha passato i suoi pomeriggi allenando i bambini tra i cinque e i sette anni (perché quelli più grandi lo indisponevano) della US Fulgor Appiano, che chiamava “piccolini”.

Era nato nel giugno del 1922 a San Michele Extra (oggi un quartiere di Verona), nella cui squadra, l’Unione Sportiva Audace, aveva esordito in Serie C nel 1939. Passato al Vicenza del marchese Antonio Roi nel 1941, con quella maglia ha disputato gli assurdi campionati di guerra fino al 1946, anno in cui venne ceduto alla neonata Sampdoria, primo giocatore ad essere pagato più di dieci milioni di lire. Il roboante acquisto non aveva cambiato Fattori, uomo tenero e mite, che avrà un ruolo importante nella vittoria della Samp al primo derby con il Genoa, conquistato il 3 novembre del ’46 per 3-0. «Il derby è stata una cosa bellissima per me. Io tremavo, ma ho tremato di più quando ho fatto la prima partita all’Inter, contro il Modena: piangevo. Mi sono detto: “Fattori, ti devi asciugare gli occhi se no non vedi”. A un certo momento ho fatto fatica a pulirmi gli occhi».

Le foto recenti che ritraggono Osvaldo Fattori in questo pezzo sono di Matteo Angelini.

Riserbo e mitezza non gli impedirono di mostrare anche un carattere fumantino, tipico dei buoni quando vengono eccessivamente provocati, che lo portò addirittura a boxare in campo. Accadde con l’Inter, il 23 ottobre del ’49, quando incontrò la sua ex squadra e si trovò ad affrontare Juan Carlos Lorenzo, argentino della Sampdoria.

«Lui giocava mezzo sinistro, io mediano destro e ci si incontrava. Continuava a punzecchiare, dare i colpettini. E sopporto. A un certo punto entra e mi dice “La puta que te parió”. Io ero stato a Genova e conoscevo le parole un pochino scabrose. Gli ho dato due pugni in faccia. Al lunedì sono andato a Genova e mio suocero mi ha detto: “Devi far la pace”. Ci siamo incontrati al bar e aveva due occhi che ho detto: “È impossibile che ho fatto un danno del genere”. Gli avevo dato i due pugni e me ne ero andato. L’arbitro non mi aveva mandato fuori. C’era Lorenzi, il “Veleno”, che mi teneva e diceva: “Osvaldo, stai fermo! Guarda che non ti han mandato fuori”. E invece io me ne sono andato senza essere stato espulso dall’arbitro».

Al “collegio galleggiante”

Con l’Inter, Fattori si fa notare dalla Commissione tecnica – guidata dal presidente del Torino Ferruccio Novo – che ha sostituito Vittorio Pozzo ed è incaricata di preparare la Nazionale per la partecipazione alla Coppa del Mondo in Brasile. L’edizione del 1950 è la prima dopo l’interruzione della Seconda guerra mondiale e l’Italia si presenta da campione in carica, difendendo il titolo conquistato nel 1938 proprio con Pozzo.

Sarebbe tra le favorite se non si presentasse con un gruppo completamente rinnovato. L’anno prima, il 4 maggio 1949, c’era stata Superga: «Il crollo di un’opera», aveva titolato il “Corriere dello Sport”. «Il Torino non era una squadra qualunque. Il Torino – spiega Egisto Pandolfini, toscano, 92 anni, ala di Fiorentina e Roma – era la Nazionale di allora. Chi l’incontrava, a non perdere o a perdere di un gol era un successo».

La squadra azzurra viene quindi rifondata in fretta e furia mescolando giovani e calciatori d’esperienza. Tra loro ci sono, insieme a Fattori e a Pandolfini: un giovanissimo Giampiero Boniperti; il navigato Amedeo Amadei, attaccante della Roma detto “il Fornaretto”; Benito Lorenzi dell’Inter, detto “Veleno” per le sue provocazioni continue in campo; i tre portieri (Lucidio Sentimenti IV, il lunatico Giuseppe Moro e il bergamasco Giuseppe Casari); la vecchia gloria Riccardo Carapellese e ancora tra gli altri Aldo Campatelli, Carlo Parola, Gino Cappello.

È un Mondiale strano, cui partecipano solo tredici squadre. Esclusa la Germania per via della guerra, all’ultimo non arriva nemmeno l’India, cui la Fifa ha negato l’autorizzazione a giocare a piedi nudi come nelle qualificazioni. La Francia sta a casa, temendo le lunghe trasferte interne in Brasile, mentre partecipa per la prima volta l’Inghilterra, sino ad allora autoesclusasi dalle competizioni internazionali per la spocchia di non poter giocare con le altre selezioni (per contrappasso, saranno eliminati dagli Stati Uniti).

Giugno 1950 arriva in fretta e c’è da organizzare il viaggio. Insieme a Ferruccio Novo ci sono il capo spedizione Berretti e Biancone, poi due sperimentati tecnici quali Ferrerò e Sperone, l’ex arbitro Giovanni Mauro, dirigente e custode della Coppa Rimet, Roberto Copernico, anche lui dallo staff del Torino, e il direttore tecnico Aldo Bardelli, uomo fidato di Novo, dirigente del Livorno, giornalista e redattore capo dello “Stadio” di Bologna. È lui il responsabile della scelta della nave al posto dell’aereo, anche perché è il primo ad aver paura del volo.

La cartolina degli azzurri da San Paolo, con la Sises trasformata nel “collegio galleggiante”.

I palloni ai delfini

Centoquarantaquattro metri di lunghezza per diciannove di larghezza (non proprio un campo da calcio), la motonave Sises, pensata per l’Atlantico, prende il nome da una cima piemontese, come molte delle imbarcazioni della flotta di Italnavi, società della Fiat. Sulla Sises c’è spazio per 56 passeggeri in cabine e 510 emigranti in “cameroni” (e le schede tecniche dell’epoca distinguevano davvero tra passeggeri ed emigranti). A vigilare che le due categorie non entrino in contatto tra loro, il folto gruppo di dirigenti della Federazione. «Sotto di noi, gli emigranti, povera gente… Non potevan venir su neanche a vederci», ricordava Casari, portiere dell’Atalanta e del Napoli. «Ché non li lasciavan salire. Dieci della Federazione, eran più loro che noi».

La traversata da Napoli a Santos dura quindici giorni, con una tappa alle Canarie per un’amichevole. Un giornalista, Gianni Reif, elude la rigida censura imposta da Berretti alla stampa a bordo e svela quanto la scelta della nave stia già cominciando a rivelarsi problematica. Il viaggio è pieno di scherzi e noia, stizza e mal di mare, pochi allenamenti e un clima da gita che induce i giornalisti a parlare di “collegio galleggiante”, come certifica una cartolina firmata da tutti i protagonisti.

«Dovevamo fare tanti giorni in nave» ammetteva Fattori «e a un certo momento gli allenamenti bisognava farli. Si faceva quello che si poteva, tante volte il pallone puf, saltava e se ne andava in acqua e via». Oltre alla palla medica per esercizi di rinforzo – «Ma va’ a mori’ ammazzati, erano tutte fregnacce», ha sempre sottolineato Amadei – a bordo ci sono infatti anche palloni da volley. Tutti destinati a una brutta fine, come spiegato da Pandolfini. «Ve lo immaginate un maschio quindici giorni in nave? C’era chi era ancora tranquillo, e chi perdeva… E allora arriva un pallone, pum! E via, in mare. Avevamo 100 palloni, siamo arrivati senza, tutti in mare, ai delfini, perché abbiamo trovato i delfini che ci seguivano».

«Un viaggio lungo è dire poco. A pensarci» è stato il commento di Boniperti anni dopo «sarebbe stato meglio restare a casa: diciotto giorni in nave vanno bene se devi giocare a canasta o a tressette, non se devi disputare i Campionati del mondo. Ci allenavamo sul ponte della nave, saltavamo la corda per fare fiato e per il resto non sapevamo come passare il tempo. Giocavamo a carte, contavamo le stelle, ma soprattutto ci annoiavamo».

Eliminati dalla Svezia

L’arrivo trionfale a Rio, con gli italiani che dalle barche accolgono la Sises nell’insenatura della città, non allevia la stanchezza e i chili presi in viaggio. All’approdo finale di Santos la squadra è bollita. Da lì ci si trasferisce, finalmente via terra, a San Paolo. I tecnici sovraccaricano i giocatori con un pesante allenamento e, complice la scelta di alloggiare in pieno centro a San Paolo, tra feste e movida, si finisce anche con il non dormire.

Cinque giorni non bastano a recuperare e il 25 giugno c’è l’esordio. L’Italia affronta la Svezia (corsi e ricorsi), una squadra composta da dilettanti, molti dei quali saranno comprati dai club italiani al termine della rassegna; perde 3-2 dopo essere andata in vantaggio di un gol. Oltre alla stanchezza, si paga anche una formazione raffazzonata, uscita da furiosi litigi tra Novo e Bardelli e influenzata, testimonianza di Amadei, da becere ragioni di mercato.

Il 29 giugno Svezia e Paraguay pareggiano 2-2 e l’Italia è già fuori. Inutile sarà la vittoria del 2 luglio per 2-0 contro i sudamericani, quando giocano insieme Amadei, Fattori e Pandolfini, che segna il secondo gol con un gran tiro al volo. Dopo l’eliminazione è un rompete le righe. I brasiliani andranno verso la finale al Maracanã, appena inaugurato, che perderanno contro l’Uruguay di Ghiggia. Gli azzurri vogliono partire e ognuno si organizza come può. Amadei va via per primo, in aereo. «Gli altri avevano tutti preferenza per la nave. Ma poi visto che m’ero salvato, ero arrivato a Roma… Ne è rimasto uno solo lì, Lorenzi, è arrivato dopo un mese con una sosta in Francia. L’unico che si è impuntato che non ha voluto prendere l’aereo. E ha finito per arrivare dopo, e la vacanza sua è diminuita».

Ne seguiranno polemiche lunghe e articolate, con sommovimenti federali tipici di ogni disfatta (altri ricorsi) e l’invocazione da più parti di un ritorno di Pozzo. Per non parlare delle considerazioni relative alla tutela dei calciatori dopo la sconfitta: «Son tornato anche io in aereo» dice è Pandolfini «come la maggior parte di tutti noi. E qui vedo l’errore, perché come mai siamo andati in nave? Per ragioni giuste, perché era successa una tragedia. Ma allora, come andiamo, torniamo. Perché dopo aver perso, non gli si interessava più?».

Ciliegie, marchesi e tragedie

Senza la tragedia di Superga, Fattori probabilmente non sarebbe mai stato protagonista di quel viaggio in Brasile. E senza quell’incidente forse il Grande Torino, in versione Nazionale, si sarebbe portato a casa la terza Coppa del Mondo consecutiva. Coincidenze, a volte fatali: ragionandone, nel dialogo tutto interiore che caratterizza le testimonianze di Fattori c’è un’impressionante agnizione sul suo ultimo incontro con i granata. «Se il Torino perdeva con l’Inter invece di fare 0 a 0 non andava a fare quella partita a Lisbona, perché c’era il campionato di mezzo. Se loro perdevano… Che c’era Bacigalupo in porta che ha fatto delle parate strepitose».

Il Torino, a Lisbona, andò per giocare contro il Benfica nella gara di addio di Francisco Pereira. Valentino Mazzola gli aveva garantito la sua presenza e quella del club in cui giocava quando lo aveva incrociato in una sfida tra Nazionali. Novo dà il placet, ma solo se non si perde tre giorni prima la partita decisiva del campionato contro l’Inter. Il Torino pareggia, festeggia e parte. Il resto racconta dello schianto al ritorno contro il muro di cinta intorno alla basilica di Superga: 33 morti, l’intera squadra e con loro l’allenatore ebreo Egri Erbstein, l’equipaggio e i giornalisti. Novo invece non partecipò al viaggio per un’influenza.

«Ero nei carruggi di Genova» ricordava Fattori «con mio suocero. E abbiam sentito: “Sono morti, sono morti tutti”. Sono andato ai funerali, ho visto tutti i ruderi di questo aereo. Tutto fracassato. Ma i morti non c’erano più, i ragazzi non c’erano più». Avrebbe potuto esserci anche lui tra i rottami di Superga perché, prima che scegliesse l’Inter, il Grande Torino lo aveva praticamente ingaggiato, facendo precedere la firma da un provino a Lucca, quasi un pro forma. Ma il provino andò in malora a causa di un’indigestione di ciliegie. «Venivano da Torino i dirigenti che guardavano. E giocavo. A un certo momento dei dolori intestinali incredibili. Mi aiutano ad andare ai bordi del campo e così non faccio il provino. Ma ero andato lì per il Torino, il Grande Torino. Poi non c’è più stata un’altra riprova. E lì ho detto: “Sarà sicuramente le ciliegie che mi han fatto male”. E con le ciliegie è finita tutta la storia anche del Torino».

Giocare a calcio gli sarebbe potuto costare la vita. Giocare a calcio gliel’aveva già salvata una volta. «Facevo il militare a Udine, Saggile. C’era la guerra e dovevo partire. Ci avevano dato i cappotti perché faceva freddo. Ci avviamo per andare e nel frattempo chiamo il presidente del Vicenza, questo marchese Antonio Roi, e lo avviso che mi stavano portando al confine. A un certo punto arriva un tenente e mi chiama: “Fattori! Ritornare in caserma! Lei deve andare a Treviso all’ospedale, che ci sarà una visita per dire che lei non può partire”. Nel frattempo ero stato convocato per andare a giocare con la Nazionale. Mi avvisano che devo fare finta di farmi male in una partita. Mi chiedevo “Come faccio a fare finta di farmi male?”. Vado a Firenze. È arrivato un pallone alto, sono saltato e ho fatto finta di cadere. In ospedale mi hanno ingessato e non sono partito per la Russia. Era una cosa non giusta. Io ci tenevo a fare le cose giuste. Ma il marchese mi ha salvato la vita, perché di quelli che sono partiti in quel reggimento non è tornato nessuno».

Rimpianti e soddisfazioni

Osvaldo Fattori è scampato due volte. Alla guerra e alla tragedia di Superga. Sopravvivere gli è valso gioia, soddisfazione, ma ha anche alimentato qualche rimpianto. Erano i due aspetti della sua vita che rievocava con più gusto. Il rimpianto è quello di non essere riuscito a giocare per il Grande Torino: «Quando mi hanno provato in Nazionale con loro, volevo giocare almeno cinque minuti nel Torino. Ma non potevo chiedere a Pozzo: “Mister mi faccia fare cinque minuti per dire che ho giocato con questa squadra”. Di parlare così con un uomo come lui non era mica facile».

A lezione di tecnica da Fattori: come dribblare un Puskás qualsiasi.

Sul fronte opposto, il ricordo più bello della sua carriera è di quando dribblò Puskás. «Il pallone mi è venuto di fronte. Lui grande giocatore, me lo trovo di fronte. Ho fatto una cosa che di solito non faccio mai, buttando la palla da un lato e girandolo di là. Ho sentito molti applausi. Al rientro in Italia, passando dalla Jugoslavia, nelle stazioni c’erano gli italiani che mi festeggiavano». Sembrerebbe un fatto minore, se non fosse che, quando lo raccontava, Fattori tradiva con un sorrisetto, a metà tra impertinenza e soddisfazione, il piacere tipico di chi ne sente ancora il sapore.

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