Al settantacinquesimo minuto di un Roma-Lecce, Totti stoppa un pallone sulla trequarti spalle alla porta. Si gira come ha già fatto un milione di altre volte e serve tra le linee Erik Lamela che dopo uno stop orientato di sinistro la passa a Gago, che è quasi al limite dell’area. I difensori del Lecce decidono di non uscire sull’argentino, coprirgli il tiro, ma lasciarlo libero di pensare. Lui alza la testa e vede Daniel Pablo Osvaldo che se ne sta dentro l’area alle spalle del terzino avversario. Con una specie di cucchiaio, che quelli come Gago potrebbero fare mille volte senza sbagliare mai, lo serve con il pallone che scavalca il difensore e raggiunge Osvaldo a mezz’area. Quello che succede dopo è un affare tra Osvaldo e la gravità, tra Osvaldo e i gol bellissimi.
Purtroppo quello che sarebbe stato uno dei migliori gol del 2011 – ma anche di parecchi altri anni – viene annullato dal guardalinee per un fuorigioco inesistente e ci rimane soltanto come metafora della carriera di Osvaldo. Una metafora in cui però lui non è sé stesso, ma il suo talento, così grande da fare gol del genere; mentre il guardialinee fa la parte di Osvaldo, così stronzo da riuscire ad annullare gol del genere.
Capire Osvaldo
In Un’ombra ben presto sarai, romanzo di Osvaldo Soriano, il protagonista torna in Argentina dopo un periodo passato in Italia (per sfuggire alla dittatura militare) e si trova a vagare per un paese che non conosce più. Per tutto il libro non sa mai dove si trova, né dove sta andando, ma soprattutto, mentre va, tutto intorno a lui dissolve, sembra scomparire.
E scomparire sembra anche Daniel Pablo Osvaldo ormai, tornato in Argentina sperando di trovare un posto che però non c’è più per lui. Qualche giorno fa sembrava possibile un suo arrivo al Rennes, ma secondo la stampa francese il tecnico Christian Gourcuff ne ha bloccato l’arrivo: “non rientra nei suoi piani”. Ora, a soli trent’anni, medita di ritirarsi dal calcio giocato. Un’eventualità che non ci sorprende né ci rattrista. La sua carriera fin qui è stato un continuo dissolversi: storie familiari spiacevoli, continue accuse di atteggiamenti sbagliati, risse coi compagni, provocazioni ai tifosi e offese agli avversari, tutti comportamenti che hanno ricoperto di ombre la sua carriera e che adesso arrivano a coprire lui, a farlo diventare ombra.
Osvaldo non è neanche più una storia di talento sprecato come tante, è la storia di un uomo che ha scelto di stare al mondo in un certo modo e che ora non può far altro che rimanere fedele a sé stesso.
Osvaldo dice a Sanchez «Che, tua moglie è stata a letto con Cavenaghi?», riprendendo un gossip, non ricevendo risposta insiste «Che, questa è la verità? È vero? È vero?» A questo punto Osvaldo ci sembra solo una persona meschina che non accetta di giocare con le regole degli altri.
La storia di Osvaldo inizia nella Gran Buenos Aires intesa come area urbana. La capitale argentina non è infatti solo il quartiere di Palermo, la Bombonera e Plaza de Mayo, è soprattutto la sua provincia: le ville piene di rifiuti e i dipartimenti dove gravita metà della popolazione argentina. Ed è proprio in uno di questi, Lanús, che parte la storia di Osvaldo, dove prima di lui era partita quella di Diego Armando Maradona. A Lanús Osvaldo impara a giocare a calcio, come si impara in Argentina, sempre un po’ più magicamente che altrove. Tutta la sua crescita gira intorno alla Grande Buenos Aires: prima il Lanús, poi il Banfield quattro chilometri più giù, infine l’Huracán, nel cuore della città, dove esordisce in prima squadra nel 2005, segna 11 gol in 33 presenze e impara a vivere la notte.
Prima di imitare Johnny Depp, Osvaldo voleva imitare Ronaldo.
Neanche il tempo di diventare un idolo da quelle parti che la vigilia di Natale dello stesso anno l’Atalanta acquista il suo cartellino e se lo porta in serie B. Osvaldo arriva a Bergamo poco prima dei vent’anni: «Mi sono ritrovato a Bergamo solo in una stanza d’albergo, nel mezzo del nulla, e con fuori la neve. Non conoscevo la lingua, non c’era la mia famiglia, né i miei amici, non sentivo le voci del mio quartiere. Ero disperato, ho iniziato a piangere e non ho smesso più». Come per tanti prima di lui, l’adattamento non è facile: una realtà nuova, una lingua diversa, passare da Buenos Aires a Bergamo, in più la sua fidanzata aspetta un figlio. La solitudine, la lontananza, un figlio troppo presto, sono tutti topos della letteratura dei calciatori e forse, più dei soldi, li rendono così diversi da noi.
Non è facile capire Osvaldo, il momento in cui è trasformato nel personaggio che nessuno sopporta. Forse è qualcosa di innato, forse è una corazza psicologica usata come difesa verso chi sa cosa, forse è stata Bergamo, forse non è neanche niente di tutto ciò. Fatto sta che da quelle lacrime in albergo ad oggi sono passati 11 anni, 11 squadre e un milione di polemiche.
Le giocate di Osvaldo sembrano parlare per Osvaldo stesso. Qui nella sua unica presenza rilevante con l’Atalanta, prima sbaglia un gol da stronzo, poi segna di testa.
Farsi un nome
Da Bergamo viene spedito a Lecce, dove sicuramente non trova la neve, ma Zdenek Zeman, che non è mai una brutta cosa per un attaccante giovane. In Puglia si fa crescere i capelli, gioca col 10, sbaglia un rigore facendo il cucchiaio, segna alla Juventus, finisce la stagione con 8 gol, quasi tutti segnati prima che il boemo venga esonerato; abbastanza da meritarsi la chiamata dell’under 21 italiana (suo nonno arrivò in Argentina dalle Marche) e della Fiorentina, voluto da Corvino.
A Firenze Osvaldo inizia a farsi un nome, parte dalla panchina avendo davanti attaccanti come Mutu, Pazzini e Vieri; ma già alla prima partita da titolare segna due gol molto belli (i gol belli saranno una costante della carriera dell’argentino) e riceve i complimenti di Prandelli che vede in lui un brillante futuro. Contestualmente arrivano anche i primi segnali ambigui: a novembre la Gazzetta si sente in dovere di dirci che il nuovo attaccante dell’under 21 si è regalato una Ferrari nera; dopo il gol vittoria a Torino contro la Juventus si toglie la maglia già ammonito facendosi espellere; a chi invece lo critica per l’esultanza alla Batistuta risponde così «Dicevano che mi ero montato la testa? Cazzate, sono stato e sarò sempre Daniel, ragazzo umile di Buenos Aires».
Sono tutti piccoli segnali, debolezze che a un ragazzo di vent’anni vengono concesse, soprattutto quando segna gol così: con la rovesciata con cui regala la Champions alla Fiorentina all’ultima giornata.
Questo gol sembra il trampolino di lancio per Osvaldo, una prima consacrazione nella dorata strada dei calciatori di successo. Se avessi scritto un profilo di Osvaldo quel giorno sarebbe stato entusiasta, in parte indulgente. Avrei scommesso su di lui al netto delle lunghe pause. Invece da quel momento in poi la sua carriera diventa una specie di montagna russa destinata ad andare verso il basso piuttosto presto.
Dalla rovesciata contro il Torino, Osvaldo passa più di un anno senza segnare. Nel mezzo si trasferisce al Bologna, si taglia i capelli e ritorna al gol proprio contro la sua ex squadra. È un piccolo fuoco di paglia, visto che in serie A non sfonda e se ne va all’Espanyol con una dote di 8 gol in 46 presenze sparse in tre stagioni.
In Spagna invece sembra trovare la sua dimensione: gioca in una squadra senza troppe pressioni, vive nella città più simile alla sua Buenos Aires, dove può permettersi di sfogare la sua indole “artistica” senza essere riconosciuto: «A Barcellona lo facevo, andavo in Plaza de Catalunya con un mio amico, lui faceva ritratti ai passanti, io suonavo la chitarra. Non mi riconoscevano. Era bello. È affascinante la semplicità». Ma soprattutto trova il generale Pochettino, che riesce a tenerlo a bada. Segna 20 gol in due anni, ma soprattutto gioca bene e come al solito segna gol bellissimi come questo al Barcellona.
In questo gol troviamo tutte le qualità di Osvaldo: velocità, forza fisica, abilità nel vedere la porta. Tutte caratteristiche che spingono la Roma a spendere 15 milioni per il giocatore, con Osvaldo che vola nella capitale senza il permesso del proprio club dimostrando una certa dose d’impazienza.
Fare 200 gol
È durante il suo periodo alla Roma che Osvaldo raggiunge il suo apice, di gioco ma contestualmente anche di meschinità. A Roma trova tutto l’amore possibile, l’amore di tifosi che sembrano fatti apposta per amare uno come lui. Uno che crede di essere Johnny Depp, che suona la chitarra, che legge Joaquin Sabina e Frederic Beigbeder e crede di pensare controcorrente. Il suo anticonformismo è anche la sua prima condanna, il finto essere maledetto che lo spinge a non venire mai a compromessi con nulla, un atteggiamento che però – in un mondo di compromessi – non ha nessun senso.
«Ma sì, ho un carattere di merda. Mi piace essere così, ma non sono il solo a sbagliare. E mi devo difendere dalle cattiverie: un sito romano ha scritto che mia madre era morta. Allora chiamo casa, sono le quattro di mattina in Argentina, risponde mamma, mi metto a piangere. Chiedo: si può pubblicare una notizia così drammatica senza fare verifiche? Poi dicono: Osvaldo è nervoso».
E pensare che inizialmente conquista tutti: se il progetto Luis Enrique non decolla, lui segna 5 gol nelle prime 10 partite giocate e la città trova in lui un giocatore atipico da amare. È il giocatore bello e impossibile, ma più umano, che ascolta i Pink Floyd e i Rolling Stones e va a sentire le cover band al pub. Nella sua umanità arrivano anche i primi scricchiolii: Osvaldo segna nel derby e mostra una maglia con scritto Vi ho purgato anch’io, in riferimento a quella ben più famosa di Francesco Totti. La Roma perderà quel derby con un gol di Klose al ’93 e quella maglia diventerà un incredibile boomerang per l’argentino. Più grave quello che accade dopo un Udinese-Roma 2 a 0: Osvaldo affronta a muso duro Lamela, reo di un mancato passaggio, Lamela non risponde, Osvaldo lo incalza, volendo affidarsi alle ricostruzioni giornalistiche gli dice «Sono più grande di te e questo non è il River, rispondimi quando ti parlo», con Lamela che gli risponde «Chiudi la bocca e falla finita, non sei Maradona». Per tutta risposta Osvaldo schiaffeggia Lamela e la notizia esce dallo spogliatoio. L’episodio non è estremamente grave, la Roma provvederà a multarlo e sospenderlo per una partita, e quello che rimane a stridere, l’ombra, è Osvaldo che mette le mani addosso ad un diciannovenne.
Tutta la luce di Osvaldo nella stagione 2011/12.
L’anno successivo arriva Zeman, che già l’aveva allenato a Lecce, e un nuovo progetto. Per Osvaldo sembra il momento della definitiva consacrazione: è entrato in pianta stabile nel giro della Nazionale e il gioco del nuovo allenatore sembra cucitogli addosso come un abito sartoriale. Eppure – nonostante una stagione da 17 gol, la migliore della carriera – le ombre oscurano quello che di buono ha fatto, ed è costretto a lasciare Roma. Gli atteggiamenti di Osvaldo non sono ancora estremamente gravi, ma escono sempre da quello che è il buon senso, o almeno il buon senso applicato al mondo del calcio, e lo portano alla rottura con i tifosi.
Il 7 Ottobre viene escluso dai titolari nella sfida con l’Atalanta, insieme a De Rossi, accusati da Zeman di scarso impegno. Per il boemo, Osvaldo è «un attaccante completo, è il giocatore con più talento dopo Totti in questa squadra. Devo riuscire a valorizzarlo e per ora non ci sono riuscito. Non capite l’esclusione? È un problema vostro, perché non siete tutti i giorni sul campo di allenamento, per questo siete sorpresi», un messaggio abbastanza chiaro. Ma la rottura tra Osvaldo e Roma passa per un episodio ben preciso.
Il primo febbraio, dopo una brutta sconfitta col Cagliari, Zeman viene esonerato e al suo posto la squadra è affidata al tattico Andreazzoli. Stiamo parlando forse del momento più basso della Roma degli ultimi vent’anni, con una nuova dirigenza che non sa come muoversi, un ennesimo progetto fallito e una stagione buttata. In questo clima, la giornata successiva, sotto 1 a 0 con la Sampdoria, Osvaldo si guadagna un rigore. Al dischetto si avvicina per destinazione Totti, che definire il rigorista di quella squadra è quasi riduttivo. Eppure in un momento così complicato, Osvaldo antepone le sue priorità a quelle della squadra e si prende la responsabilità del rigore, che sbaglia malamente. Nel video si sente un tifoso dire “lo tira Osvaldo, ******, guarda che bastardo” “Se te lo magni t’ammazzo Osvaldo, te lo giuro”.
L’episodio racconta bene la totale mancanza di empatia Osvaldo verso il resto del mondo. Una mancanza che gli consente di andare dal suo capitano e leader assoluto della squadra e chiedergli di tirare un rigore nel momento più difficile della stagione, e poi sbagliarlo (che per carità è umano, però è proprio il motivo per cui i giocatori come Totti sono tali). L’atto di lesa maestà, quasi più dello sbaglio in sé, rompe i ponti tra Osvaldo e Roma. Viene contestato a Trigoria, con un tifoso che gli colpisce la macchina, e con un cambiamento totale dell’atteggiamento nei suoi confronti.
A rincarare la dose, dopo il derby perso in finale di Coppa Italia, Osvaldo scrive un tweet quanto meno inopportuno, per rispondere all’allenatore Andreazzoli che aveva criticato i suoi atteggiamenti.
In questa abilità nel spostare l’attenzione su sé stesso, anche in uno dei peggiori momenti della propria squadra, si trovano molti dei problemi futuri di Osvaldo a cui nel 2013 l’ego ha oramai mangiato l’anima.
Per colpa di questo tweet (Prandelli dirà per non essere andato a ritirare la medaglia che spetta agli sconfitti) Osvaldo perde la Confederation Cup e il treno della Nazionale. La situazione coi tifosi degenera, principalmente per la sua insofferenza: durante il ritiro litiga con un tifoso che attraverso una rete gli dice «Daniel, io sono uno dei tifosi che ha contestato. Volevo dirti che tu non hai capito Roma, qui potevi essere un imperatore». Osvaldo in tono polemico risponde «Avete capito tutto voi invece, ho fatto 200 gol, ma che cazzo volete?».
Dopo questo episodio, la Roma lo cede al Southampton, ed è sintomatico di come Osvaldo stesso non abbia voluto fare un minimo passo verso società e tifosi, nonostante a Roma venisse dalle due migliori stagioni della carriera.
«La maggioranza dei tifosi della Roma mi ha sempre sostenuto e dimostrato affetto, lo ha fatto anche con i miei compagni quando le cose non andavano bene. C’è modo e modo di vivere il tifo, alcuni non lo fanno nel modo giusto, e per fortuna sono pochi. Ma io non potevo più stare a Roma e subire minacce, cattiverie, scritte e insulti sotto casa. Anche perché non ho fatto nulla per meritarmeli. Non è normale trovarsi scritte ingiuriose sotto casa, ma in Italia purtroppo facciamo ben poco per contrastare fenomeni del genere».