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Orgoglio galiziano
30 ott 2015
Il Celta Vigo si sta imponendo finalmente nella Liga come prima squadra galiziana. Giocando bene.
(articolo)
23 min
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Nel diciassettesimo secolo, in pieno “siglo de oro” per la Spagna, per chi voleva appartenere all’élite dell’impero la carica più ambita era far parte dell’Ordine di Santiago, un ordine militare e religioso nato secoli prima per proteggere i pellegrini del cammino di Santiago. Perfino Diego Velázquez, una volta fregiato di tale titolo, ci ha tenuto a farlo sapere ai posteri dipingendosi in pieno petto la croce rossa che lo simbolizza nella sua opera più conosciuta, "Las Meninas".

La cattedrale di Santiago si trova in Galizia, nell’estremo nord-ovest della penisola Iberica, e la croce di Santiago con il tempo è diventato uno dei simboli identitari della regione. Una regione dalla forte identità non castigliana e dove, esattamente come in Catalogna e nei Paesi Baschi, il calcio è il palcoscenico ideale per rivendicare le proprie differenze. Il Celta Vigo nasce nel 1923 come la più ambiziosa delle squadre galiziane: constatato che né il Real Vigo né il Real Fortuna riuscivano a uscire dall’anonimato, gli intellettuali della città hanno premuto per la fusione delle due squadre in un’unica entità.

Rapidamente si è messo in moto un processo di brandizzazione decisamente moderno per l'epoca, che voleva allargare il sostegno della nuova squadra a tutta la regione, non solo alla città di Vigo: per questo è stato scelto il nome Celta, dalla popolazione autoctona di epoca preromana da cui derivano i moderni galiziani e per questo i colori, dopo un esordio in rosso, diventano il celeste e il bianco come la bandiera della regione. Per questo viene scelto come simbolo la croce di Santiago (leggenda vuole che la possibilità di usare la croce di Santiago sia stata messa in palio in un’amichevole con i rivali della regione del Deportivo La Coruña e che il Celta Vigo, avendo vinto l’amichevole, abbia potuto fare della croce la base per lo stemma societario, ma non esistono documenti ufficiali a riguardo).

Storia povera

Purtroppo le cose non andranno esattamente come previsto e, come per una maledizione, la vittoria in amichevole con il Deportivo sarà l’unica occasione in cui il Celta poté ritenersi la prima squadra della regione e Vigo rimarrà una città famosa più che altro per avere la fabbrica della Citroën (che da decenni è lo sponsor della squadra). La storia del Celta è priva di successi importanti e piena di ambizioni frustrate: anche nel momento di massimo splendore, a cavallo del 2000, gli avversari regionali sono più forti e nel picco della propria storia con il Super Depor.

A cavallo dei due secoli, ottanta anni di ambizioni hanno portato al Celta più forte della propria storia (soprannominata con poca fantasia “la Máquina” o “EuroCelta”): con campioni riconosciuti a livello europeo, come il duo russo Mostovoi-Karpin, Revivo e Makélélé o il campione del mondo brasiliano Mazinho e l’argentino Berizzo.

La squadra ha uno spiccato gioco offensivo e veloce e il talento a disposizione per non aver paura di giocare in questo modo anche contro le grandi, una caratteristica che diventerà parte integrante del DNA della società. I campioni e il gioco spettacolare, però, non cambiano la storia: quando la squadra riesce ad arrivare addirittura in Champions League per la prima volta nella propria storia nel 2003 ovviamente il Deportivo gli finisce davanti in classifica. E quando l’anno successivo arrivano gli storici ottavi di finale della competizione, il Super Depor raggiunge la semifinale dopo aver eliminato il Milan in una delle partite più famose della storia della coppa.

L’Eurocelta ha portato a casa comunque un titolo europeo: l’Intertoto.

Giusto ieri: Luis Enrique

Con il calare del Super Depor anche il Celta si spegne rapidamente, diventando un club “yo-yo”: troppo grande per la seconda serie, ma incapace di stabilizzarsi del tutto nella Liga. Rimane, a contraddistinguerlo, il gusto per il calcio offensivo a cui negli ultimi anni si sono aggiunti un paio di fattori per riportare il Celta all'interno di un ciclo virtuoso, e questa volta senza la presenza ingombrante dei rivali regionali, in piena crisi d’identità.

Il punto fermo di voler giocare con uno stile riconoscibile è la svolta nella storia recente del Celta, che, cercando un allenatore che non abbia paura di osare, si affida a Luis Enrique dopo essersi salvata all’ultima giornata nel 2013. Come il Celta Vigo anche Luis Enrique è un tecnico ambizioso che crede di poter sviluppare un calcio offensivo contro chiunque e con l’aiuto del passato al Barcellona riunisce a Vigo una piccola colonia di giovani promesse della Masia in procinto di esplodere, come Rafinha Alcántara (il figlio di Mazinho dell’EuroCelta) o scartate dal grande calcio come Nolito e Fontàs. Il tecnico asturiano trova l’habitat ideale per il suo laboratorio di gioco offensivo impostando la squadra sui pretoriani di scuola Barça e sulle giovani promesse dal settore giovanile, sistemando la squadra con l’amato 4-3-3, proseguendo la normale evoluzione della propria carriera, interrotta dopo la parentesi romana.

Il Celta gioca palla a terra in velocità guardando sempre la porta e puntando sulle triangolazioni naturali sugli esterni sviluppate dal modulo preferito alla Masìa. Quando perde palla prova a recuperarla il prima possibile e ad affidarla all’esterno danese Krohn-Dehli, che da Luis Enrique viene riconvertito a mezzala, diventando di fatto il regista della squadra. È lui che detta i ritmi di gioco, gestendo le transizioni palla al piede e scegliendo quando servire gli esterni a piede invertito come da manuale blaugrana. Nolito, giocando sulla fascia sinistra, chiude la stagione con 14 gol, ritrovando il sorriso dopo il periodo interlocutorio al Benfica, Rafinha, messo un po’ ovunque sul fronte offensivo, dimostra di valere la prima squadra del Barcellona, concludendo la stagione come una delle migliori matricole.

La squadra è una furia, crea occasioni da gol con facilità impressionante. Riporta l’orgoglio nella tifoseria e il Celta sulle mappe del calcio spagnolo, terminando con un ottimo nono posto giocando senza compromessi. Quando poi Luis Enrique accetta di tornare al Barcellona riportandosi indietro il pupillo Rafinha, la società decide di andare all-in per il suo successore.

Luis Enrique ai tempi del Celta.

Oggi: Berizzo, il delfino di Bielsa

Una volta riportato alla ribalta lo spirito del miglior Celta della storia e volendo mantenere intatta l’ambizione che caratterizza la squadra, la dirigenza decide di costruire un progetto che vada proprio a fare da ponte tra le due versioni del Celta richiamando a Vigo uno dei giocatori più rappresentativi dell’EuroCelta: il “Toto” Berizzo, ex centrale difensivo della squadra arrivata gli ottavi di Champions League nel 2004.

Berizzo si è presentato così ai tifosi: «Il Celta è una squadra diversa dalle altre. Non solo perché ci ho giocato, lì sono riuscito a connettermi in modo molto profondo con la città e con il celtismo. Ho vissuto momenti estremi: siamo andati in Champions, siamo retrocessi e siamo risaliti… nei quattro o cinque anni che sono stato lì ho vissuto tutte le esperienze da calciatore». La scelta di Berizzo, però, non è quella di un capopopolo da dare in pasto all’adorazione dei tifosi, ma la voglia di dare una possibilità in Europa all’erede scelto dal "Loco" Bielsa in persona, sperando di replicare così i successi della rivoluzione dell’argentino con l’Athletic Club a Bilbao.

Bielsa ha ispirato tanti allenatori, ma solo uno può essere considerato il suo delfino: Berizzo cresce come giocatore agli ordini di Bielsa e una volta ritiratosi lo segue per tre anni come assistente durante l’avventura con la Nazionale cilena del rosarino. Berizzo non si ispira ai concetti di Bielsa come Pochettino, e non se ne innamora al livello dell’idolatria come Sampaoli, lui cresce respirando bielsismo: «Mi riconosco sì nell’idea tattica di Marcelo Bielsa, ma soprattutto nel suo comportamento etico, nella sua maniera di interpretare il lavoro dell’allenatore», dirà alla domanda sul maestro. Per Berizzo i concetti di Bielsa sono talmente digeriti da essere anche inutile parlarne come fonte di ispirazione: sono il pane quotidiano.

Usando le parole dello stesso Bielsa: «La nostra semplice idea è questa: vogliamo rubare il pallone il più presto possibile dagli avversari, il più in alto possibile. E con questo intendo che tutti sono coinvolti in questo sforzo, dagli attaccanti al resto dei giocatori. Una volta che abbiamo il pallone, proviamo a trovare un modo per arrivare davanti il più presto possibile, in verticale, per intenderci. Ma non sentiamoci frustrati se non ci riusciamo, miriamo a restare tranquilli con la palla se non riusciamo ad andare in verticale subito, teniamola».

Queste idee diventano la base di partenza per il lavoro al Celta dal giorno numero uno, stupendo i giocatori, già abituati allo sforzo richiesto da Luis Enrique per il recupero alto del pallone. «Se guardate i nostri allenamenti, vedrete che sono veramente dispendiosi e intensi. Lo scorso anno avevamo l’intensità per provare a rubare il pallone velocemente, ma credo che lo facciamo con maggiore aggressività sotto Berizzo», dirà il centrale titolare Cabral.

Berizzo rimane positivamente sorpreso dal livello della squadra e decide di ritoccare senza stravolgere il lavoro di Luis Enrique. Rispetto agli anni al Celta da giocatore in cui era la squadra a trascinare il club, secondo lui adesso tutta la struttura è migliorata e pronta a fare il salto di qualità: «Adesso, dal punto di vista dell’istituzione, il club è cresciuto, ha messo basi solide per crescere». Con sorpresa per tutta la Liga, però, l’approccio del nuovo allenatore non è ferreo quanto quello di Bielsa, intransigente con chiunque non creda al 100% nel suo modo di pensare e che non riesce a immaginarsi come qualcuno non possa seguirlo. Berizzo decide di apportare bielsismo al Celta di Luis Enrique e al contempo flessibilità al bielsista che è in lui.

Per spiegare il suo approccio dirà: «Non voglio essere un allenatore intransigente che ordina ed esige che i giocatori lo seguano anche se non credono nella sua idea». Un modo differente di applicare le proprie idee, soprattutto avendo alle spalle la forza di un ambiente che lo ama comunque incondizionatamente. Proseguendo sul solco di Luis Enrique, la squadra viene affidata a Nolito e Krohn-Dehli, aggiungendo però peso anche sull'altra fascia con Orellana, visto l’addio di Rafinha. Orellana è il perfetto giocatore bielsista: un’ala veloce e dai polmoni di ferro che riesce a creare sia superiorità numerica sugli esterni che a concludere accentrandosi.

Orellana finisce per risultare fondamentale per il sistema di Berizzo. Al momento è la stella della squadra.

Con ritmo dolce

L’inizio della coppia di ali è perfetto e la squadra vola, migliorando anche le prestazioni di Luis Enrique: il 4-3-3 del Celta utilizza la punta di culto a Cagliari Larrivey per iniziare il pressing, che rispetto a quello di Luis Enrique si fa più avvolgente.

Nella fase di pressing viene utilizzata (come da ricetta bielsista) la quasi totalità dei giocatori a disposizione, abbinando un recupero rapido alla capacità di effettuarlo in ogni parte del campo. Rispetto a Bielsa, l’utilizzo delle marcature a uomo è lasciato a casi specifici (su cui torneremo), ma il principio di ricerca immediata della pressione dalla metà campo in poi esiste.

Il ritmo della partita viene dato dalla fase di pressing, ma, rispetto alla squadra di Luis Enrique, il nuovo allenatore limita la verticalità esasperata puntando a una circolazione di palla dalla difesa per sfruttare tutta l’ampiezza del campo e raggiungere una delle due ali. Krohn-Dehli viene utilizzato per la sua capacità di assicurare il mantenimento sicuro del possesso. Il Celta è così bravo a gestire questa fase da contendere il possesso a qualsiasi squadra, persino al Barcellona di Luis Enrique. La squadra gioca a un ritmo indiavolato senza palla, per poi cambiare registro e consolidare il possesso una volta riconquistata, finché non raggiunge la trequarti, da dove si azionano le due frecce, Nolito e Orellana.

Addolcendo ancora la proposta verticale di Bielsa, il tecnico del Celta opta comunque per essere protagonista attivo della partita, ma, esattamente come da anni fa Paco Jémez al Rayo Vallecano, il Celta decide di giocarsela alla pari nel campo del possesso palla, ritenendolo la base per sviluppare una proposta offensiva che porti anche ad aiutare il controllo degli eventi e quindi della partita. La sicurezza e la poetica della calata argentina propria del suo maestro purtroppo non è rintracciabile nella traduzione: «Mi piace essere protagonista delle partite. Averne il controllo. Non mi piace essere dominato. Mi piace essere il protagonista e questo comincia con il tenere il pallone il maggior tempo possibile. Quando non ce l’ho, voglio rubarlo all’avversario per tornare ad averlo. E appena lo recupero, voglio dare freschezza al gioco, mobilità, dinamica, criterio nell’utilizzo della palla».

Tolta la terminologia calcistica propriamente bielsista, questa risposta potrebbe essere uscita tranquillamente dalla bocca di Paco Jémez come da quella di Pep Guardiola, non a caso ammiratore per niente segreto di Bielsa. E in comune i tre hanno l’essere stati giocatori abituati a leggere il gioco vicino o direttamente dalla difesa, come spiega Martí Perarnau nel libro Herr Pep. Stranamente da questa tipologia di giocatori nasce una sorta di terrore verso le occasioni della squadra avversaria, che si trasforma in necessità di avere il possesso sempre, così da avere la possibilità di essere la squadra che indirizza la partita.

Crisi e rinascita

La luna di miele tra Berizzo e il Celta genera una squadra che vola nella parte alta della classifica e che finisce per battere anche il Barcellona poi campione di tutto. La vittoria che segna il punto massimo dell’amore tra Berizzo e l’ambiente è anche l’ultima prima di una crisi prolungata di risultati che rischia di rompere il giocattolo. Il motivo è semplice quanto di difficile soluzione: la squadra non segna più. Non è cambiato nulla nel modo in cui gioca il Celta e nel numero alto di occasioni che crea. Non è cambiato nulla nell’apporto delle stelle e nella fiducia nel sistema. La palla però non entra e, se all’inizio si poteva parlare di fase sfortunata, con l’andare avanti delle partite, arrivando anche le sconfitte oltre che l’assenza di gol, la situazione precipita.

Sono otto le partite consecutive senza gol, prima del pareggio contro il Valencia di Nuno per 1-1, seguita poi da altre due sconfitte che portano Berizzo a dover ammettere che la situazione rischia di essere irrecuperabile: «Sappiamo come funziona. È logico che dopo una brutta serie di risultati (i dirigenti) pensino che sia il momento di prendere decisioni», dice Berizzo, ammettendo poi di essere il primo a pensare che l’esonero sia in arrivo. «Nessuno mi ha ancora parlato, ma capirei qualsiasi decisione. Dieci partite senza vittoria sono troppe».

Fedele però a questo spirito di squadra differente nel panorama europeo, orgogliosa fino all’apparente autolesionismo del proprio credo calcistico, la dirigenza decide di proseguire senza scomporsi, fiduciosa nel processo di crescita di Berizzo in un momento tanto delicato. Il primo tentativo, va detto, rasenta la disperazione, con un improbabile 3-5-2 e viene prontamente riposto in soffitta. Sfatato però il tabù del cambiamento di modulo, arriva il colpo di genio: invece di provare un approccio più conservativo bisogna essere fedeli al DNA offensivo del Celta e aumentare la proposta offensiva.

Dopo essere tornato brevemente al 4-3-3, Berizzo inizia una vera rivoluzione a centrocampo, dove il capitano Augusto Fernández viene portato da mezzala (dove già giocava da adattato rispetto agli esordi col Celta) a centrale di centrocampo accanto a Krohn-Dehli, per formare un doble pivote alla base di tre trequartisti: Nolito e il giovane talento Santi Mina sugli esterni e l’accentramento di Orellana dietro la punta Larrivey.

La risposta alla crisi di gol è la decisione di consegnarsi totalmente all’idea di un calcio di possesso, costruendo un centrocampo di ex ali o ali vere, tutte in grado di giocare il pallone e soprattutto aumentando così i giocatori in campo in grado di vedere la porta. La squadra esce brillantemente dalla crisi di risultati riprendendosi in campionato e finendo sopra anche al Celta dell’anno prima, chiudendo all’ottavo posto, il migliore dagli anni di Berizzo in campo.

Oggi e domani

La nuova stagione inizia confermando ancora una volta quanto l’idea della dirigenza del Celta sia quella di essere sempre e comunque ambiziosi anche in sede di costruzione della squadra: il fondamentale Krohn-Dehli non resiste alle sirene di Siviglia e passa gratis alla squadra di Unai Emery. La sua cessione genera un vuoto enorme nel centrocampo e soprattutto nel sistema. Invece di provare a mettere una pezza, però, il Celta dà fondo alle ricerche degli osservatori e opta per un profilo ancora più radicale rispetto a Krohn-Dehli, il connazionale Daniel Wass.

Passato sotto traccia, il nuovo arrivato stupisce tutti fin dalla prima partita per lo stile di gioco che avrebbe fatto impazzire il "Loco" Bielsa per la verticalità pura. In contrapposizione totale con Krohn-Dehli, utilizzato per assestare il possesso, Wass gioca sempre e solo davanti a sé, sia conducendo il pallone nel traffico, che verticalizzando per la punta.

Come se Berizzo non riuscisse più a smettere di rendere offensiva la propria proposta di gioco dopo l’enorme scottatura del periodo di crisi, il Celta inizia la stagione tornando al 4-3-3, con Augusto Fernández che passa davanti alla difesa come unico giocatore e con Wass che da mezzala ha la licenza di avanzare a piacimento, potendo costruire un 4-2-3-1 quando in possesso. Il danese gioca a un ritmo differente rispetto al predecessore e questo porta la manovra a essere un ibrido ancora più marcato tra l’ideale bielsista e un calcio di possesso di stampo iberico.

12 minuti del gioco del Celta contro il Siviglia nella partita vinta per 2-1 in casa di Unai Emery. Recupero rapido del pallone e poi gestione della sfera con tutto l’undici. Ogni tanto Wass prova a dare la sterzata alla manovra verticalizzando improvvisamente o tirando in porta se ha spazio.

Il centro del campo rimane privo di centrocampisti puri (se non quando entra in campo il ventenne serbo Radoja) con Augusto Fernández alla base e le due mezzali, Wass e il pretoriano Pablo Hernández (portato da Berizzo dal Cile e anche lui riconvertito più indietro), ma il vero pezzo forte del nuovo Celta è il nuovo tridente nato dalla cessione al Valencia del gioiellino Santi Mina e della non conferma del lavoratore, ma poco prolifico Larrivey: scommettendo su Berizzo la dirigenza decide di riportare a casa Iago Aspas per affiancarlo alle stelle Nolito e Orellana.

Il ritorno di Iago Aspas non è cosa da poco a Vigo: il giocatore è nato e cresciuto in Galizia e prima di tentare l’avventura in Inghilterra era la stella indiscussa della squadra. Talento molto particolare, Iago Aspas ha portato per anni sulle spalle l’attacco della squadra che dipendeva totalmente dalle giocate del galiziano per svoltare la partita.

Per quanto la pessima avventura inglese l’avesse fatto dimenticare, Iago è un giocatore tecnico, in grado di vedere la porta da qualsiasi posizione e dotato di una decisa creatività al momento dell’esecuzione. Dal carattere focoso e poco aiutato dall’idea di rappresentare in campo la tifoseria sugli spalti, era solito alternare prestazioni decisive a giornate deprimenti, senza soluzione di continuità e certezze.

La stagione sotto Unai Emery, unita alla voglia di rifarsi dopo due anni buttati, l’hanno portato a più miti consigli e il Celta è stato lesto a riportarlo a casa al momento giusto. Adesso Iago Aspas gioca da falso 9 con libertà di dialogare anche con il centrocampo in fase di possesso.

In fase di non possesso Berizzo è stato bravo a incanalare il misto di spirito di sacrificio e voglia di rivalsa per farne una vera zanzara in fase di pressing, risultato fondamentale ad esempio nella grande vittoria contro il Barcellona per 4-1. Lì Iago Aspas ha agito sia come terminale offensivo delle transizioni che come giocatore in marcatura a uomo su Gerard Piqué, così da rendere difficilissimo giocare il pallone al centrale dei catalani.

Esistono due correnti di pensiero per battere una squadra come il Barcellona: una stabilisce che bisogna ripiegare nella propria metà campo e bloccare totalmente il centro, concentrandosi a non lasciare mai lo specchio della porta visibile e a ripartire in velocità appena riconquistata palla. L’altro invece è ben più rischioso e prevede una pressione a tutto campo per impedire la ricezione da parte dei giocatori catalani. Berizzo va oltre l’idea di pressione e va in full Bielsa, sistemando una marcatura a uomo a tutto campo che parte da Iago Aspas e che impedisce ai giocatori del Barça di giocare il pallone in modo pulito dal primo minuto di gioco.

Piqué, non avendo sbocchi—visto che tutti i compagni sono sotto sorveglianza—si appoggia a Dani Alves, che però viene subito aggredito da Nolito. Il Celta riconquista così sempre il pallone e approfitta del momento di disorganizzazione dovuto alla perdita da parte del Barcellona per effettuare una transizione offensiva rapidissima e rendere la partita un vero inferno per la squadra di Luis Enrique, che nel primo tempo finisce per lanciare anche lungo pur di provare a sbloccare la situazione.

La gara con il Barcellona è un punto di flessione nella stagione del Celta, che passa da squadra intrigante a reale minaccia anche per le grandi, avendo un sistema in grado sia di dominare il possesso contro le piccole, che contenderlo alle grandi. Lo stesso Luis Enrique si è espresso così subito dopo la sconfitta: «Preferisco che mi batta una squadra come il Celta, che gioca bene, che non faccia trucchi. Ha una delle proposte più interessanti della Liga, ha potenziale e può essere tra le elette in questo campionato».

Berizzo da parte sua non ha limitato l’entusiasmo: «Ho la sensazione che i giocatori hanno sviluppato l’idea rimanendo fedeli allo stile che giocano e l’hanno fatto in modo perfetto. Vincere in questo modo è un riconoscimento per loro, perché si sono consegnati al collettivo, all’unità di una squadra e questo mi rende soddisfatto. C’è un modo di giocare a calcio che finisce per premiarti».

La miglior prestazione dell’era Berizzo spazza via il Barça campione di tutto.

L’idea che esista un modo di giocare in grado di premiare alla fine e che quindi conviene fidarsi del sistema è cardine nel lavoro che sta facendo Berizzo a Vigo. Le due stelle hanno alzato ulteriormente il loro livello di gioco proprio perché si sono lasciati completamente convincere dal sistema. Nolito è un’ala classica di scuola andalusa, amante del dribbling ridondante e della conclusione a rientrare. Nelle ultime due stagioni ha aumentato sempre di più la coscienza di far parte di un collettivo dove quel che sa fare in modo perfetto serve solo se eseguito al momento giusto e senza errori.

Aumentando la lettura di gioco e la capacità di gestire le proprie risorse ormai è una delle stelle della competizione. I 7 gol e 3 assist nelle 9 partite giocate mostrano solo in parte il salto di qualità di un giocatore a cui Berizzo non pone limiti in quel che sa fare meglio: può tentare sempre di saltare l’uomo sia verso fuori che verso l’interno e ha la facoltà di tirare in porta quando meglio crede. Il risultato sono quasi 3 dribbling riusciti a partita e 4 tiri a partita. Non si tratta di un giocatore fenomenale, semplicemente Berizzo è riuscito a renderlo decisivo sfruttandone le uniche doti eccellenti.

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Nolito che fa Nolito per segnare contro Keylor Navas in versione muro.

Come Nolito anche Orellana ormai è conquistato da Berizzo, che l’ha lentamente plasmato in un giocatore sempre più associativo. Il cileno ha libertà di accentrarsi a giocare il pallone e sembra un lontano ricordo il giocatore tutto corsa e tiro arrivato in Galizia. Per peso specifico è il miglior giocatore della squadra. Nolito è il più decisivo, ma Orellana ha sviluppato una simbiosi totale con il sistema di Berizzo che lo rende il giocatore che cambia il registro, decidendo se assecondare più la natura ultraverticale di Wass o provare una circolazione più paziente. Ha 29 anni come Nolito e condivide con l’andaluso l’essere nel picco della carriera, ma rispetto al compagno sembra poter migliorare ogni aspetto del suo gioco ogni anno.

La partita contro il Villarreal è stata forse quella che maggiormente ha esaltato l’importanza delle due stelle. Reduce da due pareggi, la squadra viene inizialmente tenuta a bada dagli avversari, che con un 4-4-2 fluido coprono perfettamente il campo, obbligando il Celta ad abbassare i ritmi.

Dopo un inizio stentato, la squadra assume il nuovo contesto e si adegua iniziando una manovra ragionata che coinvolge ogni singolo giocatore. Ai due terzini cresciuti in casa, Jonny a sinistra e Hugo Mallo a destra, Berizzo chiede di salire insieme così da dare manforte alle due ali in fase di possesso. Ad Augusto Fernández viene chiesto di cambiare il fronte offensivo così da evitare di concedere letture alla difesa del Villarreal. Orellana si assume responsabilità in fase di creazione toccando più palloni possibili ed è poi lui a sbloccare la partita a fine primo tempo. In una partita in cui le due stelle prendono anche due pali, con il Villarreal che in 10 riesce comunque a segnare il gol del pareggio, allo scadere Nolito si inventa il gol della vittoria.

Il sistema funziona e la squadra ha anche giocatori che fanno la differenza in campionato, ma una rosa costruita con il 14.esimo budget non può essere priva di difetti. Il problema principale è la retroguardia ed è uscito fuori prepotentemente nella prima sconfitta stagionale contro il Real Madrid, dove il blocco ereditato da Luis Enrique propone due terzini di categoria (tra cui Jonny, che gioca a piede invertito e non esalta per le letture) e nei centrali giocatori troppo lenti per reggere la transizione difensiva veloce della squadra: come centrale d’impostazione gioca Fontàs o Sergi Gómez, praticamente due doppioni cresciuti entrambi nella Masia sul template Piqué e accanto a uno dei due gioca l’esperto Cabral.

L’argentino, oltre a essere lento, difetta sia in marcatura che in anticipo. Si tratta di un centrale modesto, che dalla sua ha però il carisma con cui guida il reparto. La cosa non è ovviamente bastata contro il Real Madrid, che ha messo a nudo i problemi nella transizione difensiva della squadra giocando intelligentemente sugli esterni per costringere i due terzini a scegliere se fare la diagonale per coprire i compagni sempre posizionati in ritardo, o rimanere sul terzino avversario per impedirgli di giocare il pallone con libertà. Il risultato è stato che tutto il potenziale offensivo della squadra e il piano partita di Berizzo sono risultati vani davanti a un problema strutturale.

Il Celta perde palla e la transizione difensiva è disastrosa: Cabral affronta con i piedi piantati Ronaldo, che ha tutto il tempo di trovare il filtrante; Sergi Gómez che legge l’azione con secondi di ritardo e Mallo che ci mette troppo ad andare sul pallone. Ronaldo dopo il passaggio taglierà in area per ricevere il cross del compagno e segnare l’1-0.

Berizzo, dopo aver stupito per la crescita che ha sviluppato nei propri giocatori la scorsa stagione, non si è fermato e in questa sta mettendo in piedi un sistema in grado di potenziare le risorse a disposizione e che sta funzionando nonostante il problema di una difesa “normale”. La dirigenza pone la posta sempre più alta e il tecnico argentino ha risposto oltre ogni più rosea aspettativa.

Il suo stile unico di bielsista convinto, ma in grado di adeguare le proprie idee al contesto a disposizione sta rendendo il Celta una squadra bella da vedere, perché gioca con personalità e tecnica, ma anche difficilissima da affrontare e aiuta a proseguire l’idea della dirigenza di essere ambiziosi nonostante le ristrettezze di una realtà da piccola borghesia della Liga. Come dice Berizzo: «Bisogna vincere tutte le partite. Non c’è rivale, non c’è circostanza e non c’è settimana dove si può abbassare la guardia».

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