Il 25 febbraio 2018, Thomas Bach, presidente del CIO (il Comitato Olimpico Internazionale), dichiarava ufficialmente chiusi i Giochi Olimpici Invernali di Pyeongchang, mentre la fiamma del braciere si spegneva mettendo fine alle due settimane di gare nella provincia sudcoreana. A meno di cinque mesi da quel giorno, una spianata di terra era già tutto ciò che rimaneva dell’Olympic Stadium e della sua curiosa e unica forma pentagonale. E il tripode alto 25 metri, ispirato al “barattolo di luna”, vaso in porcellana della tradizione locale del XV secolo, rimaneva solitario a guardia dei ricordi e di un terreno che, forse, in futuro ospiterà un piccolo edificio adibito a “sala della memoria” storica dei Giochi.
115 milioni di dollari spesi per una struttura da 35mila posti, utilizzata 4 volte in due settimane, e demolita subito dopo il termine delle gare. Lo Stadio Olimpico di Pyeongchang è stato un esempio di impegno organizzativo che va oltre alla semplice volontà contingente di voler ospitare gli eventi olimpici. Una possibilità risposta alla domanda: cosa succede dopo le Olimpiadi?
È una questione sempre più di stretta attualità nel mondo contemporaneo, dove organizzare i Giochi Olimpici (estivi o invernali) è una decisione sportiva, politica e infrastrutturale di proporzioni enormi per la nazione coinvolta. Quanti impianti nuovi vanno costruiti e quali, già esistenti, riutilizzati? Come rinnovare le città, cogliendo l’occasione dei Giochi per investire su trasporti e spazi urbani? Che versione mostrare di sé al mondo? Lo sforzo economico e architettonico dei comitati organizzatori è direttamente proporzionale al livello di rischio di ritrovarsi, a evento concluso, con un vero e proprio cimitero di elefanti.
La recente assegnazione delle Olimpiadi invernali 2026 all’Italia, con la coppia Milano-Cortina, ha riacceso il tema della sostenibilità dei Giochi e della possibilità futura di restituire alla popolazione e agli atleti le strutture e gli impianti coinvolti nelle gare olimpiche. Una questione avvolta da contorni di estrema incertezza dopo l’esperienza in chiaroscuro di Torino 2006, e il ripetuto “no” di Roma a entrare in corsa per i Giochi estivi del 2020, così da evitare qualunque rischio a priori.
E in effetti la storia dei Giochi Olimpici, e della cosiddetta “eredità” che lasciano nelle città ospitanti, è segnata da esempi virtuosi ma anche da situazioni economicamente drammatiche. E più ci si avvicina ai giorni nostri, più è evidente che l’enorme macchina organizzativa dell’evento richiede una vocazione sportiva ben consolidata nella città organizzatrice, anche e soprattutto a livello di impianti.
Gli esempi opposti di Londra e Rio
Nel recente confronto fra Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016 troviamo l’esempio più evidente. Nelle Olimpiadi estive londinesi molti degli impianti utilizzati erano già esistenti (Wimbledon, la O2 Arena, il Lord’s Cricket Ground, Wembley), mentre alcuni vennero ricavati da aree cittadine abilmente modificate (Hyde Park, Horse Guards Parade). Altri ancora furono costruiti con una precisa idea di utilizzo post-olimpico a lungo termine: il Velodromo, l’Aquatics Centre e l’Olympic Stadium come strutture permanenti, da una parte, sulle quali reinvestire per lo sport nazionale, e dall’altra le arene per basket, hockey e pallanuoto da rimodulare o smantellare del tutto dopo i Giochi.
Lo stadio olimpico durante la cerimonia d'apertura di Londra 2012. Foto di Daniel Berehulak / Getty Images.
Ma l’obiettivo di Londra 2012, e dei quasi 9 miliardi di sterline investiti, era stato soprattutto «sbloccare i fondi governativi per trasformare l’East End cittadino», come ammise Ken Livingstone, sindaco della capitale all’epoca della candidatura. L’obiettivo era organizzare l’evento sportivo non per i Giochi in sé, ma per ottenere un risultato futuro per la città e la popolazione. E quel risultato è stato raggiunto quasi completamente, grazie soprattutto alla grande tradizione sportiva britannica e al continuo impegno delle federazioni a livello locale nella promozione delle diverse discipline.
Per contro, la riqualificazione del quartiere di Stratford, attorno alla quale ruotava tutto il progetto olimpico, ha restituito a Londra una parte importante di città in una versione ampiamente rinnovata ma, forse, troppo privata (nel senso sociale di chi oggi ci abita) e privatizzata (con la forte impronta delle società costruttrici e immobiliari impegnate ad attirare fasce di popolazione più ricche della media).
Riqualificare porzioni di città e restituirle alla popolazione era anche l’ambizione di Rio de Janeiro, in quello che sarebbe dovuto essere il secondo colpo di assestamento del Brasile, a livello internazionale, nell’ideale uno-due con il Mondiale di calcio di due anni prima. Ma, al contrario di Londra, il passaggio dei Giochi Olimpici dalla città brasiliana si è risolto quasi in un nulla di fatto.
Con 9 impianti di nuova costruzione (e sette temporanei), affiancati ai 18 esistenti, lo slancio di Rio era focalizzato sulla riqualificazione di aree cittadine e infrastrutture, e sulla realizzazione di un evento eco-sostenibile. A fronte di un investimento complessivo di quasi 14 miliardi di dollari (3,5 miliardi in più del previsto), le buone intenzioni si sono scontrate con la corruzione della politica locale e le difficoltà economiche di un paese che stava facendo uno sforzo oltre le proprie possibilità per organizzare qualcosa che, evidentemente, non era in grado di sostenere.
I progetti di potenziamento dei trasporti pubblici per collegare le favelas, e per migliorare il sistema cittadino di depurazione delle acque, furono realizzati solo in parte e con forti ritardi, e lo stesso piano di riutilizzo di alcuni impianti fu successivamente bloccato dalla mancanza di fondi. Il progetto iniziale riguardante la Future Arena, un palazzetto temporaneo per la pallamano, ad esempio, che era stato costruito con strutture modulari, pronte per essere smontate e sfruttate per la costruzione di quattro nuove scuole pubbliche, è stato prima rimandato poi abbandonato a fine 2017 per mancanza di soldi statali.
Vanderlei accende il braciere olimpico allo stadio Maracanã di Rio. Foto di Richard Heathcote / Getty Images.
A fine Olimpiadi, dopo due settimane vissute in una bolla parallela, Rio de Janeiro è tornata alla realtà politica e sociale di tutti i giorni, fatta di estreme difficoltà nel gestire una città che, con i Giochi, non aveva fatto nessun passo in avanti. Le strade e i quartieri, oggi, non sono tanto più sicuri che prima del 2016, metà degli impianti giacciono inutilizzati e in balìa del degrado, e la promozione dello sport a livello statale e pubblico è passata in secondo piano, a causa della necessità di indirizzare i pochi soldi a disposizione su altri ambiti, e i continui scandali politici a segnare continuamente la vita del paese e far fuggire i pochi sponsor rimasti.
Da questo confronto emerge evidente come Londra fosse già “sportivamente” consapevole e attrezzata per organizzare l’Olimpiade, mentre Rio aveva provato una sorta di all-in per regalarsi una speranza che non si è avverata.
Ma la sostenibilità di un evento di tale portata è un problema che ha segnato quasi tutte le edizioni dei Giochi. L'esempio più drammatico è probabilmente quello delle Olimpiadi di Montréal, in Canada, nel 1976. Ricordata ancora oggi come la più grande voragine economica della storia, sarebbe dovuta costare complessivamente 65 milioni di dollari: finì per costarne 1,6 miliardi.
Il buco nero di Montréal 1976
L’assurda e confusa gestione dei cantieri olimpici della città canadese era stata lasciata in mano ad André Desjardins, a capo della Commissione lavori pubblici del Quebec ma già fortemente intrecciato con la delinquenza locale, a tal punto da farne il vero e proprio boss dei costruttori intorno a Montréal. Desjardins aveva suoi fedelissimi in ogni sindacato (e contatti anche con la mafia americana), e aveva instaurato un regno del terrore nell’ambito degli appalti cittadini dell’epoca, tanto da meritarsi l’appellativo di “Le roi de la construction”.
Tutti i cantieri olimpici erano sotto il suo controllo, in modalità e tempistiche, e nemmeno il sindaco Jean Drapeau riusciva ad avere voce in capitolo. I ritardi continui, e un buco nero che continuava a ingoiare i fondi economici a disposizione, fecero salire il costo del solo Olympic Stadium di Montréal dai previsti 250 milioni di dollari iniziali agli 1,4 miliardi finali. L’impianto, progettato dall’architetto francese Roger Taillibert (lo stesso che pochi anni prima aveva disegnato il rivoluzionario Parc des Princes di Parigi con un budget, 18 milioni, molto vicino alla richiesta iniziale, 12), avrebbe dovuto avere una copertura che si poteva aprire e chiudere automaticamente grazie ai tiranti collegati alla torre inclinata adiacente. Entrambe le strutture erano ancora incomplete il giorno dell’inaugurazione dei Giochi e lo rimasero fino al 1987, con i materiali per il tetto parcheggiati in un hangar a Marsiglia fino a metà anni ‘80.
La città di Montréal si indebitò a tal punto che finì di ripagare lo stadio solo nel 2006, a trent’anni dall’Olimpiade, mentre il tetto dell’impianto (che rimane tutt’oggi senza una squadra di casa vera e propria e, quindi, senza una fonte diretta di guadagno) fu prima completato con una struttura in kevlar e poi, visti i continui danni subìti dalle intemperie, con un telaio fisso, per un ulteriore costo di 37 milioni.
Ma nell’incubo generale le Olimpiadi di Montréal restituirono anche qualcosa di futuribile alla città. Il Complex Sportif Claude Robillard diventò uno dei centri sportivi indoor più importanti sia a livello agonistico che amatoriale, e il Velodrome (anch’esso progettato dall’architetto Taillibert) fu saggiamente trasformato nel Biodome all’inizio degli anni ‘90, un museo di storia naturale al coperto, con in mostra le repliche di quasi 5mila specie diverse di animali e 1500 piante.
Lake Placid, l’ultimo spreco americano
Quattro anni dopo, e 180 chilometri più a sud, per i Giochi Olimpici Invernali di Lake Placid (località nei pressi di New York) venivano riutilizzati tutti e 5 gli impianti già usati nella storica edizione del 1932 (seppur con qualche adeguamento strutturale e l’installazione di tabelloni elettronici e servizi più moderni), mentre solo due strutture erano di nuova costruzione: le torri-trampolino per il salto con gli sci e lo stadio dell’hockey, successivamente rinominato Herb Brooks Arena dal nome del coach della squadra americana che in quell’Olimpiade riuscì a vincere la medaglia d’oro battendo l’Unione Sovietica (in quello che viene ricordato ancora oggi come “The Miracle on Ice”, il miracolo sul ghiaccio).
Ma anche Lake Placid, nonostante una visione dei Giochi quasi minimalista e fondata sulla propria solida tradizione di sport invernali, non aveva potuto evitare di veder salire i costi organizzativi a un totale di 132 milioni di dollari, rispetto agli 11 preventivati inizialmente. I pochi fondi governativi a disposizione, e la successiva gestione pubblico/privato di alcuni impianti, lasciarono ai contribuenti l’onere di ripagare i debiti di quell’edizione olimpica: la costruzione della Herb Brooks Arena, per esempio, era costata da sola 14 milioni di dollari, una cifra importante ma, anche considerando l’inflazione (che dal 1980 a oggi li fa diventare circa 43), di molto inferiore ai 300 milioni spesi per la costruzione del palazzo del ghiaccio Bolshoi per le Olimpiadi di Sochi 2014.
L’eredità di Lake Placid, dopo la voragine di Montréal, fu soprattutto una: i Giochi Invernali del 1980 furono gli ultimi organizzati negli Stati Uniti a far registrare un passivo nei costi. Los Angeles 1984, Atlanta 1996 e Salt Lake City 2002 fecero segnare solo profitti e bilanci in attivo, anche se a fronte di importanti investimenti. La lezione, insomma, era stata assimilata.
Proprio con questi esempi in mente, Lake Placid oggi è diventato il caso-studio per Boston 2024 su come evitare un fallimento economico, a cominciare dal problema dei collegamenti fra gli impianti e la necessità di avere una rete di trasporti pubblici pronta e capace di sostenere grandi flussi di persone nello spazio di pochi giorni. Proprio quella rete di trasporti che, tornando agli esempi fatti in precedenza, Londra era stata in grado di fornire e Rio de Janeiro non era riuscita a implementare.
Il problema di fondo è che ospitare un’Olimpiade, oggi, è una questione che va di gran lunga oltre lo sport. Le città coinvolte diventano il centro del mondo per sole due settimane, ma in quelle due settimane devono accogliere un numero di persone abnorme (1 milione di appassionati hanno assistito a Pyeongchang 2018, in una cittadina che normalmente ha meno di 50mila abitanti) e l’organizzazione delle gare è paradossalmente il dettaglio minore.
La cerimonia d'apertura di Pyeongchang 2018. Foto di Ryan Pierse / Getty Images.
Gli atleti, sempre più numerosi, vanno accolti in villaggi olimpici sempre più grandi (quello di Londra 2012 è diventato un vero e proprio complesso abitativo, a Stratford, ma non tutti hanno la stessa fortuna: quello di Berlino 1936 non è mai più stato utilizzato, tranne che come caserma sovietica durante la Guerra Fredda) senza contare le delegazioni, gli inviati media di TV e giornali, e i servizi tecnologici da garantire in misura sempre maggiore e sempre più efficiente. A Sochi gli impianti e gli alberghi messi in piedi per creare una scenografia temporanea sono oggi in completo disuso per oltre metà dell’anno, al di fuori delle stagioni estive e sciistiche nelle quali la città riesce a rivitalizzarsi.
Se si digitano le parole “olympics” e “legacy” su Google, basta aggiungere l’anno specifico di un’edizione olimpica e il motore di ricerca restituirà una serie infinita di analisi e report su come ogni Olimpiade abbia lasciato dietro di sé sprechi, buchi di bilancio e strutture che giacciono come monumenti alla memoria di se stessi.
Il futuro che si riesce a garantire agli impianti sportivi utilizzati è, infatti, il tasto più delicato. In assenza di un’impiantistica di valore già presente sul territorio, la macchina olimpica produce edifici in serie che difficilmente riusciranno a essere reinseriti nella vita sportiva e sociale di tutti i giorni. Certo, c'è una questione di immagine, di investimenti economici, di sponsorizzazioni e di auto-celebrazione che non va sottovalutata. Ma non bisogna dimenticare che il più delle volte è una scommessa che finanziariamente si rivela perdente, se non viene accompagnata da un piano a lungo termine prodotto in sintonia dalle istituzioni locali e sportive.
In definitiva, la promozione e la diffusione dello sport a livello locale, fra la popolazione, deve essere l’obiettivo finale dell’organizzazione di un’Olimpiade e della pianificazione costruttiva dei vari impianti. A questo si aggiunge la necessità di sfruttare l’evento olimpico per migliorare lo stato delle infrastrutture cittadine che vanno dimensionate sulla base dell’utilizzo sia durante che – soprattutto – dopo i Giochi, per garantirsi un ritorno di servizi sul territorio e migliorare sensibilmente la vita delle persone.
In rapporto all’enormità degli investimenti necessari a ospitare un’Olimpiade contemporanea, i Giochi vanno per forza visti per la ricaduta che avranno sulle città sul medio e lungo periodo prima ancora che come un semplice, seppur grande, evento singolo nell’arco di tempo che intercorre fra la cerimonia di apertura e quella di chiusura.