
Mentre il calcio per club si ritirava per la pausa Nazionali, buona parte dei suoi dirigenti si riuniva a Roma. Il motivo era l’assemblea generale di quella che fino a pochi giorni fa conoscevamo come ECA, cioè European Club Association, e che dopo questa assemblea abbiamo iniziato a chiamare EFC, cioè European Football Clubs. Il rebranding era uno dei motivi che hanno reso l'appuntamento così importante, almeno dal punto di vista dell’EFC, che per questo - almeno ufficialmente - ha deciso di fare le cose in grande. Decine di invitati, un’intervista dal vivo a Zlatan Ibrahimović, la presenza sia di Čeferin che di Gianni Infantino, una puntata live del podcast The Overlap, un concerto di Damiano David riservato ai membri nella sontuosa location delle terme di Caracalla. L’impressione è che ci fosse qualcosa di un po’ più grande in gioco di un semplice cambio di nome - impressione confermata dalla presenza del vecchio nemico Joan Laporta, dalle parole al miele del presidente Al-Khelaifi verso Dan Friedkin, dalla inusuale decisione di quest’ultimo di parlare alla stampa per la seconda volta da quando è diventato presidente della Roma.
Se questo era l’asse intorno a cui gravitava l’assemblea generale della EFC, tutto intorno ruotavano una quantità semplicemente indescrivibile di ex giocatori - a volte in qualità di dirigenti delle squadre coinvolte, altre volte semplicemente di se stessi. Tra questi c’era anche Oliver Bierhoff, oggi consulente per i New England Patriots nell’ambito dell’espansione delle attività della NFL in Europa, e quindi anche in Germania, e persona che sembra piuttosto a suo agio nella seconda vita dei calciatori, fatta di riunioni istituzionali e presentazioni power point. L'ho incontrato poco dopo una riunione tecnica dell’IFAB, che sfrutta queste assemblee per chiedere il parere degli ex giocatori sui possibili cambiamenti alle regole del gioco, e di primo acchito non è stato semplice far combaciare la sua immagine attuale con quella che ancora sopravviveva nella mia testa. Bierhoff artista del colpo di testa, con le maglie larghe dell’Udinese, alfiere del Milan di Zaccheroni e di un calcio italiano che è definitivamente scomparso.
Tu in Italia sei ricordato soprattutto per i colpi di testa. È una cosa che ti rende orgoglioso questa o pensi che sminuisca il tuo talento?
Penso che un po’ lo sminuisca: se ci pensi, quando ho vinto il titolo di capocannoniere facendo 27 gol [nella stagione 1997/98, con la maglia dell’Udinese, ndr], di questi solo 9 li ho fatti di testa. Penso che questo aspetto venga valutato superficialmente forse perché non ero un giocatore elegante, non avevo una tecnica brillante nei dribbling. Però ero tecnico nel tiro e sapevo vedere la porta. Insomma, per avere tutto questo successo sia con la Nazionale che con i club qualcosa devi avere. Però va bene, ormai ho fatto pace con queste valutazioni. Non ero un fuoriclasse come Ibrahimović o Figo o Zidane ma proprio per questo ho cercato di sfruttare al massimo la possibilità che ho avuto, e alla fine mi andava bene anche essere il più forte al mondo di testa. Almeno in un aspetto ero forte.
Ti chiedo allora perché la gente, in Italia almeno, si ricorda così tanto dei tuoi colpi di testa? Anche a me, che ero bambino quando tu giocavi in Italia, è rimasta molto impressa quella pubblicità che tu facesti per L’Oréal in cui colpivi di testa. Secondo te perché?
Forse ho fatto più gol di testa di altri attaccanti: io vivevo per questi cross che trasformavo in azioni pericolose. Ma lo stesso si può dire per la Germania, dove anche mi ricordano soprattutto per i colpi di testa. Dipendeva anche dai risultati che arrivavano con quei gol. Quando non segnavo spesso ero criticato, quando segnavo tutto andava bene. Non avevo altre caratteristiche che potevano rimanere impresse, tipo un dribbling eccezionale o velocissimo.
Anche se io mi sono rivisto quasi tutti i tuoi gol e ce ne sono tantissimi di molto belli anche non di testa che io ad esempio non ricordavo.
Sì, ogni tanto sono sorpreso anche io! Ho fatto - adesso non so la percentuale esatta - ma credo l’80, 85% dei gol dentro l’area. Non ero un giocatore che tirava tanto da fuori ma qualche gol bello di piede l’ho fatto.
Secondo te che cos'è che ti rendeva così forte di testa? Ti allenavi per fare quel colpo oppure c'era qualcosa di tuo?
Sia per il colpo di testa che per i tiri in porta mi sono allenato parecchio da giovane, anche da un punto di vista puramente tecnico. Io me lo chiedo spesso, come ho fatto ad avere certe occasioni. E la risposta che mi sono dato è che ero bravo a pensare più velocemente, vedere prima come si sarebbero evoluti gli schemi e le situazioni di gioco. Riuscivo a prevedere il gioco abbastanza bene e mi muovevo bene nello spazio. Nei primi due metri di scatto non ero neanche lento. E poi riuscivo a trovare bene il tempo, e su questo penso abbia influito il fatto che ho fatto parecchio lavoro con il pendolo, non so se lo conosci… Praticamente c’è una palla che è attaccata a un filo e la usi per esercitare sia il colpo di testa che il tiro. E ti aiuta sia a migliorare la tecnica che il tempo, quando salti.
E questa è una cosa che tu hai deciso di allenare nello specifico?
No, io ho iniziato ad usare questo strumento già a dieci anni e a quell’età non è che avessi l’intenzione di diventare un colpitore di testa. Poi mi ha aiutato l’altezza, crescendo, e ai miei tempi i giocatori in media credo fossero più bassi. All'epoca io, che ero uno e 91, ero considerato molto alto, adesso invece hai giocatori alti anche uno e 95 che sono pure agili. Inizialmente mi ha aiutato mio padre, che era portiere ed è stato il primo che ho visto allenarsi con questo pendolo. E il vantaggio che ha è che lo puoi usare anche da solo, non ti serve nessuno. Io l’ho usato tantissimo, anche per i piedi: tirando con il piatto, con il destro e con il sinistro… Il pendolo, se non lo becchi bene, sbalza e allora impari anche a trovare il momento giusto.
Quindi, allenandoti con tuo padre, hai iniziato già da molto piccolo.
Sì, poi anche dopo, con gli amici, giocando anche dentro casa, ci passavamo la palla di testa, perché non avevamo lo spazio per tirare con i piedi…
Nel calcio contemporaneo il colpo in testa è un po' sparito, almeno per gli attaccanti. È un gesto tecnico in estinzione. In questo senso, c’è un giocatore in cui ti rivedi, visto che è così raro?
Sinceramente no. Secondo me questo è un problema che abbiamo nel calcio, almeno in Germania. Ci siamo innamorati molto della tattica, di giocare all’interno di schemi e di sistemi, e abbiamo perso un po’ di qualità individuale… non solo nel colpo di testa, anche in altre cose. Per esempio nelle marcature, negli uno contro uno, vediamo spesso dei difensori che hanno dei problemi. E lo stesso vale anche per il colpo di testa. Abbiamo avuto, anche in Germania, questo calcio Tiki Taka, e abbiamo puntato tutto sulla tecnica, e quindi mettere la palla alta non era più moderno, non era più bello. Se devo dire un giocatore in cui mi rivedo dico Füllkrug. Lui è simile a me: forse non è il più agile, ma quando è in area è molto bravo a trovare il momento giusto. Da questo punto di vista, secondo me si è un po’ perso il talento nel sapere quando e in che modo liberarsi in area.
Domanda semplice: qual è il gol più bello segnato di testa nella tua carriera o quello che ricordi con più gioia?
Ci sono diversi gol belli, e belli in maniera diversa, perché alcuni magari li ho segnati più da lontano o altri con una bella tecnica. Io ero bravo a capire dov'era la porta e il portiere: a volte aveva più senso mettere la palla alta e lunga, a volte schiacciarla verso il basso. Forse quello che mi ricordo di più è l’1-0 contro l’Inter, quando giocavo all’Udinese [Udinese-Inter 1-0 del 21 dicembre 1997, ndr]. Stavamo, penso, a dieci minuti dalla fine, era prima di Natale e abbiamo vinto 1-0 contro l'Inter ed eravamo primi in classifica [in realtà terzi, ndr]. Era un momento particolare anche per l’Udinese, quindi: aspettare l'anno nuovo nella parte alta della classifica.
Voglio farti alcune domande sulla tua esperienza in Italia perché è molto particolare. Tu arrivi in Italia e quasi subito vai in Serie B, dove rimani tre stagioni, all’Ascoli. E lì passi una parte importante della tua carriera, dai 23 ai 27 anni. Ho trovato un’intervista dell’allora allenatore dell’Ascoli, Massimo Cacciatori, e diceva che tu rimanevi dopo gli allenamenti perché, essendo stato il tuo approccio alla Serie A molto traumatico, volevi migliorarti per tornarci. Cosa ti ricordi di quella esperienza all’Ascoli? Quanto è stata importante per te?
Io ho ricordi bellissimi, la mia carriera è stata diversa. Tutti i giocatori tedeschi in quel periodo sono arrivati da star in Italia. Io sono arrivato da sconosciuto e sono diventato un giocatore della Nazionale. L'Inter mi ha preso dal Salisburgo, però mi ha dato subito in prestito all’Ascoli e ho fatto un primo anno in Serie A non bene - sia io che l’Ascoli. A quel punto [andare in Serie B] era l'unica possibilità per rimanere. Rozzi [Costantino, presidente dell’Ascoli al tempo, ndr] aveva fiducia in me, e questo è stato importante perché hanno deciso di lavorare con me. Mi hanno fatto crescere da un punto di vista tecnico, ma anche dell’agilità e dell'intelligenza nel gioco. Io poi sono sempre stato molto proattivo, facevo sempre tanto. Guardando indietro sono stati tempi bellissimi, sono contento di aver avuto questa carriera. Sono diventato anche capocannoniere in Serie B, oltre che in Serie A ovviamente [ancora oggi rimane l’unico calciatore straniero ad esserci mai riuscito, ndr]. Io sono arrivato nel 1991 e l’Italia era un paradiso: tutti gli stadi erano sempre pieni, e il campionato era pieno di stelle. Poi con l’Ascoli, in Serie B, ho viaggiato per tutta l’Italia… purtroppo in pullman! Però in quel modo ho conosciuto il Paese. Erano ancora i tempi in cui in Serie A potevano esserci al massimo tre stranieri per squadra. Imparavo molto velocemente la mentalità italiana, il modo di vivere. Certo, non è stato sempre facile, soprattutto l'ultimo anno che sono stato lì, dopo che è morto Rozzi. Però è stata un’esperienza molto, molto importante.
Cosa ti ricordi dell'Italia di quegli anni? Ne parli con tanta nostalgia.
Erano tempi molto diversi da oggi. Io sono arrivato in Nazionale nel 1996 e, per dire, in Germania non avevano ancora l’aceto balsamico o la rucola. C’era ancora molta distanza, anche tra Paesi europei. Prendevi un caffè e sapevi che lo potevi prendere solo in Italia. Sono esempi, ma è per dire che il cibo, il modo di vivere e anche lo spogliatoio erano diversi: agli italiani piace stare insieme, ridere insieme, e ad Ascoli, siccome la città non offriva tanto, abbiamo fatto tantissimo fra noi giocatori. E questa è stata una grande differenza con la Germania, dove era tutto un po' più freddo. Questa allegria di stare insieme, di mangiare, di cantare insieme è stata bellissima. Penso che da questo punto di vista ho fatto un’esperienza più forte, più italiana diciamo, in provincia, rispetto a una grande società.
E quando poi sei tornato in Serie A ti sentivi effettivamente più pronto?
Avevo molto rispetto, sapevo che ero in prova. Il primo anno con l'Ascoli in Serie A, come detto, non avevo fatto bene; poi sono stato capocannoniere in Serie B il secondo anno, e la stagione successiva sono arrivato secondo [dietro a Massimo Agostini, 18 gol con l’Ancona, ndr]. Però non volevo diventare uno di quei giocatori per cui si dice: è un bel giocatore in Serie B ma in Serie A non ce la fa. Poi mi hanno venduto all’Udinese senza che io ne sapessi niente. A Udine per questo sono andato subito dall’allenatore, che era Zaccheroni - e la cosa bella era che lui era stato licenziato a Venezia per colpa di un mio gol [Venezia-Ascoli 0-1 del 7 febbraio del 1993; circa due settimane dopo, complice un’altra sconfitta con il Piacenza, il presidente Zamparini deciderà di esonerare Zaccheroni, ndr] - e gli ho chiesto: «Mister, ma tu sei contento [di avermi]?», e lui mi ha risposto: «Guarda, non sei la mia prima scelta però lavorerò con te». E alla fine lui è stato l’allenatore più importante della mia carriera. Zaccheroni ha capito il tipo gioco di cui avevo bisogno e il modo in cui faceva giocare la squadra mi andava benissimo. Nella prima partita, contro il Cagliari di Trapattoni, ho segnato subito il primo gol e da lì… [schiocca le dita]
Che cosa c'era nel gioco di Zaccheroni che ti esaltava così tanto? Perché alla fine le stagioni migliori, sia all'Udinese che al Milan, le hai fatte con Zaccheroni.
Sì, sono orgoglioso di quanto ho fatto al Milan, perché quando abbiamo vinto lo scudetto ho fatto 34 partite da 90 minuti. E questo mi dà l’orgoglio di non essere stato un giocatore qualsiasi in quell’anno, ma un pilastro. Zaccheroni non mi chiedeva cose che non sapevo fare. In Germania, per esempio, altri miei allenatori mi chiedevano di fare le vie lunghe, e io facevo fatica perché non ero veloce, non era il mio modo di uscire fuori dal centro. Io ero l'unico giocatore che sapeva gestire la palla con l’avversario sulle spalle. Il gioco, in questo senso, era semplice: trovare Oliver, lui appoggia in qualche modo e da lì si continua un altro gioco. Dopo che avevo appoggiato, io potevo andare in area e lì mi arrivavano i palloni. Questo penso che sia stata la cosa più importante: eravamo molto organizzati, il suo gioco era logico. E dentro questo gioco sono stato un giocatore intelligente, nel senso che sapevo quando muovermi e come muovermi. Ero disciplinato anche, almeno in certe cose. Sai, ci sono giocatori che si perdono a fare certi schemi… io invece ero tedesco, preciso [ride]. Con il suo gioco, quando appoggiavo, il pallone dopo andava in profondità, e dalla profondità ritornava in area, e questo mi andava bene.
Tu hai avuto questa carriera molto particolare, con questa lunga esperienza in Serie B per poi diventare uno dei più importanti centravanti in Serie A e della Nazionale. Secondo te nel calcio di oggi sarebbe replicabile questo tipo di esperienza?
Ai miei tempi queste carriere che sbocciavano tardi forse erano più possibili. Mi ricordo che allora alcuni giocatori alti non brillavano a 21 anni, avevano bisogno di un po’ più di tempo. Horst Hrubesch, per esempio [attaccante tedesco, miglior marcatore dell’Amburgo nelle coppe europee, ndr]. Adesso mi sembra che i giocatori siano pronti prima, ed è vero anche che arrivano prima dalle accademie. Secondo me oggi è più difficile scoprire un giocatore che a 26 anni non era stato notato da nessuno. Anche i sistemi di scouting penso che oggi vadano più in profondità.
Tu sei stato coinvolto per lungo tempo nella Nazionale tedesca, che adesso sta passando un periodo un po' strano, di decadenza, nonostante la Germania continui a produrre grandi talenti. Che sta succedendo al calcio tedesco?
Io sono stato 18 anni con la Nazionale [dal 2004 al 2022: prima come team manager, poi come responsabile del settore giovanile e infine come direttore sportivo, ndr], abbiamo vinto il Mondiale e, se vedo quella squadra, avevamo 15 campioni - giocatori che già a 21 anni vedevi che facevano la differenza. Io già nel 2017 lo dicevo: dobbiamo cambiare qualcosa. Nel 2010 quando chiedevo agli allenatori delle Nazionali giovanili tedesche: «Chi è il talento?», loro mi nominavano 8-9 giocatori. Nel 2017 erano diventati 2-3. E lo vediamo anche in Nazionale, adesso: abbiamo Musiala, abbiamo Wirtz, poi abbiamo Havertz e Kimmich, ma il resto è di una qualità non eccezionale. Secondo me è un problema di formazione. Abbiamo formato molti cloni che giocano tutti più o meno alla stessa maniera. Si sanno muovere bene nella catena a quattro, però le qualità individuali, come la fantasia di trovare anche le soluzioni da soli, purtroppo non ce l’hanno. Agli ultimi Europei abbiamo fatto molto bene per la grinta, per l'unità che abbiamo avuto e anche per l’entusiasmo, giocando in casa. La qualità di una Nazionale si vede da dove giocano i suoi giocatori. E i giocatori forti in questo momento giocano nel campionato più importante, che è la Premier. Quando noi abbiamo vinto i Mondiali, nel 1990, avevamo Klinsmann, Matthaüs, Kohler che giocavano tutti in Italia, perché era lì che c’era il campionato più forte. In questo momento questo tipo di giocatori non ce l’abbiamo in Germania. Possiamo fare bene ma non siamo una squadra ai livelli del Portogallo o della Spagna o della Francia, in parte.