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Ricordando l'Olanda del 1974
06 set 2019
06 set 2019
Abbiamo intervistato sette persone che nell'estate del 1974 erano davanti al televisore ad assistere alla rivoluzione.
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Oggi la nazionale olandese che è arrivata seconda al Mondiale del 1974 è universalmente considerata come la squadra che ha rivoluzionato il calcio segnando una frattura definitiva, determinando un prima e un dopo. Rinus Michels e Johann Cruyff hanno posto le basi di quello che oggi chiamiamo gioco di posizione, gli allenatori che hanno preso quella squadra come riferimento o almeno come punto di partenza per le loro idee non si contano ed è vero che la loro influenza va ben oltre la durata massima delle mode: in un certo senso quell’Olanda è una squadra ancora attuale.

Per questioni puramente anagrafiche, però, la maggior parte di noi l’Olanda del 1974 non l’ha vista con i propri occhi, e ne ha intuito l’importanza solo di riflesso, magari attraverso video YouTube o racconti d’epoca. Come possiamo capire davvero la portata di quella rivoluzione se non l’abbiamo vissuta?

Goethe diceva che «un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più» e noi quell’arcobaleno tutto arancione lo abbiamo visto per troppo poco tempo, poi ci siamo dovuti accontentare degli articoli, dei libri, dei frammenti delle partite. Un materiale così disponibile che, al tempo stesso, quell’Olanda non ci fa più restare a bocca aperta, come probabilmente lo saremmo stati se l’avessimo vista dal vivo, o comunque in contemporanea, anche se davanti al televisore.

È per questo motivo che ho deciso di andare a scavare nei ricordi di chi invece quell’estate c’era e ricorda, per cogliere delle sfumature che inevitabilmente non posso cogliere con i miei occhi e per capire come la percezione di quella squadra sia cambiata negli ultimi 40 anni. Ovviamente è un campione - sette persone, tutte di Napoli e dintorni - senza alcuna rilevanza statistica, sia per la sua limitatezza che per la sua composizione, ma questo non vuol dire che non abbia comunque qualcosa da dirci. Ho quindi deciso di intervistare delle persone che nel 1974 avevano almeno 15 anni.

1. Una squadra senza ruoli

Una delle prime cose che risaltano nelle interviste, e che d’altra parte tutti hanno studiato e raccontato dell’Olanda di Michels, era la capacità dei diversi calciatori di avere competenze diffuse in parti del campo differenti. Evidentemente era la cosa che saltava subito agli occhi, divenendo il motivo popolare più riconoscibile e usato nelle discussioni da bar. «Quando vedevi che il terzino correva in avanti e andava al posto del centravanti veramente non capivi più niente», mi ha detto ad esempio Giuseppe.

«Non eravamo abituati ad un calcio di quel tipo», spiega meglio Edoardo. «Noi pensavamo che i numeri delle maglie non solo determinassero un ruolo in particolare con grandi limitazioni e precisi compiti da svolgere, ma addirittura avevamo l'idea che anche fisicamente se non fisiognomicamente il numero ti marchiasse. Pensavamo che il 4 era sempre basso e tarchiato, pieno di cazzima come Furino. Il 9 era muscoloso, bello, sempre serio; l'11 piccolo e velocissimo; il 2 il più cattivo della squadra e così via. Quando vedemmo la prima partita dell'Olanda e ci accorgemmo che prima di tutto i calciatori erano praticamente tutti uguali e che poi non si distinguevano in campo in quanto il terzino sinistro te lo ritrovavi a fare il mediano, quello che doveva essere il numero 10 faceva partire l'azione da libero e così via, lo shock per noi fu davvero grande. Mi ricordo le persone che vedevano con me le partite dire che gli olandesi forse erano di più in campo perché non si poteva spiegare quello che facevano e come si muovevano».

«Io cercavo di farmi spiegare quello che vedevo dall'amico che vedeva la partita con me. Non avevamo mai visto cose così e non le capivamo», mi dice Generoso chiudendo il cerchio.


2. L’arancione

Il colore delle maglie, che oggi ci sembra solo un piccolo dettaglio estetico quasi scontato, è invece un altro elemento di grande importanza per gli intervistati. L'arancione degli olandesi, che compariva sui giornali perché in televisione le partite erano trasmesse in bianco e nero, sembrava già di per sé dire qualcosa di nuovo e rivoluzionario.

Michele è stato il primo a sottolinearmelo: «Le maglie arancioni che vedevamo sui giornali ci colpivano molto perché nessuna squadra italiana vestiva maglie di quel colore e per noi era molto strano. Essendo un ragazzo molto giovane pensavo che quel colore era stato scelto proprio per affermare la differenza con tutto il resto delle squadre, pensavo fosse un segno di riconoscimento».

«In tv ovviamente le immagini erano in bianco e nero però noi tutti sapevamo che l'Olanda era vestita in arancione e sapevamo anche che erano gli unici», mi dice invece Antonio. «Quando sulle riviste vedevi azioni da gioco quell'arancione era davvero catalizzante, già vedevi quei calciatori biondi, coi capelli sempre lunghi e le facce tutte belle poi indossavano anche quella maglia arancione e il loro status di semi-divinità sembrava confermarsi ancora di più».

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LaPresse Archivio storico.

Matteo, in maniera più semplice mi ha detto: «Non sapevo che l'Olanda avesse le maglie arancioni. Solo dopo il Mondiale me ne sono accorto guardando un giornale. E mi sono subito detto che maglie migliori di quelle non le potevano mettere».


3. Cruyff

La diversità dell’Olanda in campo prendeva una sostanza tangibile ovviamente nelle giocate di Johan Cruyff. Matteo, ad esempio, mi dice che: «Cruyff aveva i piedi storti, eppure faceva cose da pazzi».

«Cruyff non era un calciatore a cui eravamo abituati. Per noi il massimo del classico nel calcio era Gianni Rivera, quello per noi era il bello applicato al calcio. Cruyff portò nel calcio un bello totalmente nuovo», aggiunge Pietro.

La mobilità unita allo stile di Johan Cruyff non avevano termini di paragone. Rivera era statuario nelle sue classiche virtù tecniche, Pelè era statuario nella sua illuminante fisicità e nel suo naturale e geniale controllo, per quei pochi che avevano già visto Beckenbauer, il tedesco era statuario in quanto altero e compassato. Cruyff, invece, era una scultura fluida, sempre viva, sempre dinamica. A quanto pare il campione olandese ebbe un impatto immediato sull’immaginario collettivo. Giuseppe mi dice di non aver dimenticato la prima volta che lo ha visto.

«Mi ricordo che in un attimo i ragazzi con cui giocavo a pallone invece di dire "Nun fa 'o Pelè" iniziarono a dire "Nun fa 'o Cruyff" (con l'accento sulla y, ndr)», mi dice Generoso. Era nato un nuovo mito.

Michele dà un’interpretazione originale del fascino unico che provocava il gioco di Cruyff: «Aveva i piedi sformati, che facevano giacomo-giacomo. Tu lo vedevi e dicevi, ma questo dove vuole andare? E invece erano proprio quei piedi così strani a dargli qualcosa di diverso. Quante volte ha fatto un passaggio mentre guardava da un'altra parte o i colpi di tacco che faceva, sembrava che avesse non due ma manco quattro occhi. Aveva occhi avanti, indietro ma pure a destra e sinistra per poter fare quelle cose». Se tutti i calciatori di quella squadra erano una grande novità, Cruyff ne era l'apoteosi: «Io uno come Cruyff ancora non l'ho mai visto giocare».


4. Il portiere brutto

Un altro elemento di grande novità era il portiere, Jan Jongbloed. Prima di tutto perché indossava il numero 8, cosa che subito saltava agli occhi. «Quando abbiamo visto che il portiere aveva la maglia numero 8 io personalmente mi sono messo a ridere, mi sembrava troppo strano», mi dice Michele. «Si dice “numero 1” quando si vuole intendere che sei un portiere e quello invece aveva l’8».

Jongbloed (riporto il nome del portiere olandese nella sua corretta trascrizione italiana ma durante le interviste è stato chiamato nei modi più disparati: Gionbò, Ionngò, Joblod i più usati) era un freak nel Paese delle perfezioni. Avvicinabile a lui, per quel senso di imperfezione che rientrava nella logica dell’eccezione alla regola, c’era soltanto quello che tutti durante le interviste hanno chiamato “il difensore biondo”, ovvero Wim Rijsbergen. Ma Jongbloed era ancora più estremo nella sua unicità. Matteo mi dice che: «Era brutto, ma brutto assai. Sembrava il fratello scemo di tutti gli altri».

Ma al di là dell’estetica, risaltava anche per il suo modo di stare tra i pali. Giuseppe afferma che: «Parava con tutto. I portieri italiani se facevano una parata con i piedi la facevano vedere subito a 90° Minuto perché era una cosa strana. L’olandese invece parava più con i piedi, con la faccia, con la pancia che con le mani, anche lui come tutti gli altri compagni era un mondo a parte».


5. Gli avversari

In confronto al modo innovativo in cui giocava l’Olanda, gli avversari sembravano quasi dei dilettanti. «Gli altri calciatori sembravano più vecchi», mi dice ad esempio Pietro. La differenza che riuscì a creare quella squadra fu subito evidente, un salto temporale nella velocità del gioco e nella sua concezione che saltò agli occhi di tutti gli intervistati.

Tutti hanno ribadito che gli avversari sembravano di un altro tempo. «Io mi ricordo l’Uruguay, menavano calci al vento, andavano sempre a vuoto e non perché gli olandesi correvano più di loro ma perché la palla la tenevano pochissimo tempo, gli uruguaiani non avevano manco il tempo di prenderli a calci», mi dice Generoso.

«La partita con l’Argentina fu un massacro», mi conferma Edoardo, «Contro di noi gli argentini erano sembrati sempre gli stessi calciatori, focosi, aggressivi, fisicamente forti, contro l’Olanda sembrava la squadra Primavera, erano innocui, quasi gentili anche se le facce rimanevano cattive, non potevano usare violenza contro gli olandesi, erano troppo più in là, nel futuro».

E infine, Antonio: «Mi ricordo uno della Bulgaria che voleva acchiappare Cruyff. Ci è riuscito solo quando la palla l’aveva già passata. Gli avversari dell’Olanda facevano ridere».


6. La finale del Mondiale

Eppure fu una rivoluzione a metà, almeno nella pratica dei risultati. La grande Olanda che giocava nel futuro perse la finale contro la Germania Ovest, che invece aveva gente con i piedi ben piantati nel presente. Giuseppe: «Ci rimasi male. Mi chiamavano “Champagne” da ragazzo perché ero un tipo brillante, ero estroso e mi innamorai subito dell’Olanda e lo dicevo a tutti. Quando perse per me è stata una vera ingiustizia, come fa a perdere una squadra così più forte delle altre?».

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Foto di Allsport UK /Allsport.

Matteo, più prosaicamente, citando forse inconsapevolmente Gary Lineker: «La Germania non si fa fare tanto facilmente, anche se tu sei la squadra più forte del mondo, la Germania ti fotte sempre, non so come fa ma, tranne che con noi, la Germania alla fine vince sempre».

«Fu una mezza delusione, quasi uguale a quella che avevamo vissuto con l’eliminazione dell’Italia», mi dice Pietro. «Ma quell’Italia era vecchia e l’allenatore non li teneva più insieme. L’Olanda invece sembrava una squadra imbattibile, aveva superato senza problemi anche il Brasile, la Germania giocava in casa ma per loro non c’erano problemi a giocare fuori casa. Eppure perse, ancora non ho capito come successe ma ha perso».

Edoardo, infine: «Ancora oggi sono convinto che l’arbitro inglese indirizzò la gara, l’Olanda non si poteva battere nel 1974». A sentirli sembrerebbe capovolgersi la celebre frase di Tertulliano: «Non ci credo perché è assurdo».


Insomma, è solo nostalgia?

Dalle interviste è evidente che i ricordi abbiano contribuito alla mitizzazione di quella squadra. Gli intervistati molte volte hanno esagerato nell’attribuire all’Olanda di Cruyff vittorie e gol durante il cammino del Mondiale. Le caratteristiche di ogni calciatore sono state spesso esaltate fino ai limiti umani durante le interviste. Matteo, ad esempio, mi ha detto che Cruyff riusciva a girare il collo praticamente di 360 gradi. E forse questa è un’esaltazione dovuta alla nostalgia della gioventù vissuta nel 1974, un condizionamento generato dalla celebrazione di quella squadra che è anche il simbolo dei “loro" anni (e che anni).

In ogni caso è innegabile la sensazione di novità che ha generato l’Olanda di Cruyff negli intervistati, quella di una nuova idea di calcio che si approcciava per la prima volta a loro. Non è un caso che quando ho chiesto di descrivermi quella squadra con un unico aggettivo molti hanno utilizzato parole che avevano in qualche modo a che fare con il futuro: “nuova”, “futuristica”, “mai vista prima”.

L’Olanda del 1974 era percepita in primo luogo come una squadra composta da undici capelloni con la maglia arancione addosso, che già era una cosa nuova di per sé. Ma soprattutto come una squadra di giocatori che correvano per il campo senza un ordine apparente, sembrando davvero venire da un posto in cui i principi di base del calcio erano del tutto differenti. Quei calciatori non potevano che essere uomini che vivevano una realtà diversa e migliore della nostra, alieni che venivano a portarci il verbo, insegnandoci che si poteva essere generosi e felici anche senza vittoria, anzi forse a maggior ragione alla luce della finale contro la Germania, perché la sconfitta aveva solo umanizzato chi sembrava troppo lontano.

L’Olanda del ’74 ormai è una favola mitica che ci racconteremo ancora e a cui magari in futuro sempre meno persone crederanno. Ma è fuori dal dubbio che ci ha cambiato nel modo in cui guardiamo il calcio e in cui lo concepiamo, dando un senso nuovo allo stare insieme per raggiungere un obiettivo comune.


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