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Foto di Layne Murdoch / Getty Images
NBA Dario Ronzulli 23 novembre 2017 7'

La prova di forza di OKC

I Thunder hanno cominciato la stagione sotto le attese: la gara con Golden State era l’occasione perfetta per ritrovare fiducia.

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“Dobbiamo ancora imparare a conoscerci meglio”. In questa frase ripetuta come una litania da coach Billy Donovan c’è gran parte della spiegazione su cosa non sta funzionando in questo inizio di stagione degli Oklahoma City Thunder. Alla vigilia della gara contro i Golden State Warriors i Thunder si sono presentati con un record di 7 vittorie e 9 sconfitte, al di sotto non solo del 50% ma anche delle aspettative di pre-season. È ovvio che se all’MVP della stagione precedente si aggiungono due pezzi da novanta come Paul George e Carmelo Anthony senza di fatto sacrificare nulla di significativo – per il tuo sistema, non in senso assoluto -, le attese si impennano. Altrettanto ovvio che ci sia bisogno di un periodo di adattamento e di conoscenza reciproca, in primis per Westbrook che dopo una stagione da Capo Assoluto e Deus Ex Machina di qualunque cosa accadesse sul parquet ora deve gestire se stesso e altri due pesi massimi.

 

C’è un dato che fa capire come il percorso di mutua comprensione sia ancora lontano dall’essere completo. Delle nove sconfitte patite fin qui dai Thunder, otto sono arrivate in the clutch – ultimi 5 minuti di partita, punteggio entro 5 punti – nel quale lo sfavillante 99.2 di defensive rating (il terzo della Lega, dietro solo ai Celtics e ai Blazers) si trasforma in un orribile 147.7. Dato peraltro completamente opposto rispetto alle previsioni della vigilia. “Abbiamo un problema nel chiudere le partite, è vero. Credo che dipenda dal fatto che io, Russ e Melo siamo abituati a farlo in solitudine mentre qui abbiamo accanto chi ci può aiutare, ma non sempre ce ne ricordiamo” ha detto di recente Paul George, descrivendo a parole un’altra statistica eloquente.

 

L’ex Pacers ma soprattutto Westbrook e Anthony contribuiscono in maniera sostanziale al fatto che OKC sia la squadra che usi di più gli isolamenti in NBA (13,1% di frequenza) ma con appena 0,87 punti per possesso e 41.2% di realizzazione. Anche questi sono dati fortemente condizionati dai finali punto a punto, nei quali i Thunder premono con forza il “Panic Button”, smettono di cercare un minimo di coordinazione offensiva e come mosche sbattono ripetutamente contro una finestra chiusa. Fondamentale dunque, almeno in questa prima parte di stagione, non arrivare con l’acqua alla gola nel finale.

 

C’è anche un altro risvolto da evidenziare: cinque delle otto battute d’arresto di cui sopra sono state precedute da ampi se non dilaganti vantaggi OKC, quasi sempre costruiti nel primo quarto. Divari che poi sono stati mangiati fin troppo facilmente dagli avversari. State pensando all’impatto della second unit? Il quintetto base dei Thunder sa essere una macchina devastante nei primi 12 minuti: la capacità di proteggere il ferro di Steven Adams e il fisico di Paul George che può arrivare ovunque coprono anche le magagne – a dir la verità meno evidenti di quello che si può pensare – di Anthony e Westbrook, con Andre Roberson a dare un enorme contributo. È un quintetto che può cambiare agilmente su tutti i blocchi e che può mettere pressione per poi andare in campo aperto. Dall’altra parte non sempre l’attacco è fluido, ma riesce comunque a trovare soluzioni ad alta percentuale con buona se non ottima continuità. Poi però i titolari devono sedersi e riposarsi e qui cominciano le difficoltà, perché difensivamente la squadra ha un crollo verticale: prendete a titolo d’esempio Felton, in evidente empasse nell’accettare i cambi sul pick and roll.

 

FOTO1

 

Notare la differenza di minutaggio e di rendimento tra lo starting five e i due quintetti della second unit più utilizzati.

 

Quando i titolari rientrano, si trovano spesso di fronte una squadra motivata dalla rimonta e più coinvolta mentalmente nella partita, ed ecco che gli ancora fragili equilibri tremano come una bandierina in un tornado. Infine va sottolineato come le sconfitte siano arrivate con squadre che difendono duro ma anche con chi difende all’acqua di rose, con chi predilige il gioco interno e con chi invece allarga il campo. La soluzione del mistero è dunque principalmente interna.

 

Le motivazioni extra date da Golden State

Tanti grattacapi e tanti rebus da risolvere. Ma se per chiunque altro nella Lega affrontare in un momento di difficoltà Golden State può rappresentare un’ulteriore preoccupazione da non dormirci la notte, dalle parti dell’Oklahoma è una spinta pazzesca a dare il massimo e anche di più. Specie se si gioca alla Chesapeake Energy Arena.

 

Per il primo ritorno a Oklahoma City di Kevin Durant non ci fu propriamente un’accoglienza da figliol prodigo.

 

Il fattore motivazione non si può mettere in disparte nell’analizzare la partita di stanotte: per i Thunder era fondamentale dimostrare innanzitutto a loro stessi che le armi a disposizione potessero effettivamente essere utilizzate per combattere contro gli Warriors in una serie playoff. Per questo, e per le caratteristiche peculiari di OKC, la partenza a razzo non era neanche quotata. Aggredire i campioni in carica per non fargli prendere ritmo in attacco e andare in contropiede tutte le volte possibili: il piano di Donovan è stato evidente fin dalla palla a due ed è stato eseguito alla perfezione dai suoi, soprattutto dopo il giro di boa del primo quarto.

 

 

Pressione di Roberson su Curry, le mani tentacolari di George intercettano il pallone e OKC può volare in contropiede. Nonostante la serie di pasticci in attacco, alla fine lo stesso George segna il canestro del 13-11. Da questo momento in poi Golden State non sarà più avanti nel punteggio.

 

Gli Warriors hanno sofferto in maniera disumana i cambi sistematici e i punti subiti in contropiede e/o da palla persa, tanto che i Thunder hanno segnato 33 punti in transizione e altrettanti dopo che gli avversari avevano perso il possesso – in entrambi i casi un’enormità. Una volta preso il controllo emotivo del match, OKC non ha mai alzato il piede dall’acceleratore continuando a martoriare un avversario visibilmente alle corde e arresosi con largo anticipo.

 

 

Fotografia del terzo quarto: Durant con uno dei passaggi più pigri della sua carriera. Figuriamoci se Westbrook non ne approfitta… Subito dopo RW ruberà il pallone anche a Curry, andrà in contropiede, segnerà e subirà fallo. Game, set and match.

 

L’aspetto interessante di questa partita è il modo in cui Donovan ha gestito le rotazioni. Pienamente conscio che far rientrare in partita Golden State sarebbe stato un rischio enorme, ha sfruttato al massimo i suoi titolari lasciandone in campo sempre almeno due anche dopo che Kerr aveva alzato bandiera bianca all’inizio del quarto periodo. In questo modo le lacune del singolo panchinaro venivano coperte di volta in volta dal Big presente sul parquet: a turno è diventata la squadra di George, la squadra di Anthony, la squadra di Adams – soprattutto in difesa. Senza che il vero padrone del team facesse mai mancare il proprio supporto.

 

Russ Against The World

Russell Westbrook ha giocato come se il destino della sua famiglia dipendesse dal risultato sulla sirena: il boxscore dice tripla doppia sfiorata, con 34 punti 10 rimbalzi e 9 assist, e già basterebbe. Poi c’è la faccia cattiva ogni volta che si trovava di fronte Curry, preso a sberle con tutta la fisicità di cui il prodotto di UCLA è dotato. Poi c‘è il confronto verbale con Durant durato tutti i 37 minuti in cui è stato in campo. Non c’è stato un singolo momento in cui l’MVP uscente non è sembrato totalmente assorbito nella partita, ricordandosi costantemente delle parole filtrate dallo spogliatoio di Golden State che lo definivano “facile da marcare”. Se si giocasse sempre contro gli Warriors, i tifosi Thunder potrebbero stare tranquilli e godersi lo spettacolo.

 

 

Quintetto senza George e Anthony ergo tutti in campo per Russ. Doppio blocco per favorirne la penetrazione con la difesa Warriors in ritardo nella lettura. La schiacciata di prepotenza è l’unico finale possibile.

 

Tra i tanti motivi di interesse della pre-season c’è certamente come e in quanto tempo Westbrook avrebbe trovato un nuovo equilibrio in campo. L’anno scorso c’era la necessità di andare a mille all’ora sia per la struttura di squadra sia per dimostrare al mondo che quello là, quello che se n’era andato, aveva sbagliato. Quest’anno, invece, Russ ha l’obbligo di dosare le energie durante la partita e di saper aspettare e cogliere il proprio momento. Il tutto senza rinunciare ad essere Russell Westbrook.

 

russ2

 

Quello che era intuibile dall’osservazione empirica ce lo confermano le mappe di tiro di Chartside. Qui il Westbrook che DEVE prendersi tutte le responsabilità in qualunque contesto e in qualunque schema perché se non ci pensa lui siamo spacciati.

 

russ1

 

Qui invece il Westbrook che DEVE coinvolgere i nuovi arrivati lasciandogli le zone di tiro preferite senza però rinunciare ad attaccare il ferro per mettere pressione alle difese. Non è un passaggio assimilabile rapidamente.

 

Quella contro gli Warriors è una vittoria che dà morale prima ancora che classifica, per usare un’espressione europea. I Thunder sono ancora un palazzo in costruzione e i dubbi sull’affidabilità delle seconde e terze linee non sono stati eliminati, anzi se possibile sono stati rafforzati dal fatto che Donovan abbia scelto di limitare i loro minuti alla prima partita “seria”. La loro crescita e l’affinità dei Big Three sono le due rette che dovranno incontrarsi per far sì che la stagione di Oklahoma City volga al meglio.

 

 

Tags : golden state warriorsnbaoklahoma city thunder

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.

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