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Roberto Scarcella
Odiarsi a Belfast
24 dic 2021
24 dic 2021
Storia del più litigioso derby di sempre, quello tra Glentoran e Linfield.
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Roberto Scarcella
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C’è una storia di Natale che non finisce bene, anzi non è ancora finita, ed è già qualcosa in un posto in cui tutto finisce male. Di certo è iniziata malissimo. E non è proprio una storia di Natale, ma di Santo Stefano. C’è di mezzo una partita di calcio, sempre la stessa, e le tre squadre che negli anni l’hanno giocata.


 

È ambientata a Belfast, una città dalla bellezza nascosta, talmente nascosta che quando vai all’ufficio del turismo sembrano più loro a chiederti di segnalare qualcosa, nel caso riuscissi a trovarla. Belfast è anche poco fortunata: famosa per aver dato i natali a George Best, per aver costruito il Titanic e per la faida infinita tra cattolici e protestanti, è specializzata in storie che non finiscono bene. George Best è, non a caso, il figlio prediletto che, esattamente come la sua città, ha sprecato talento e opportunità dedicandosi - principalmente - a dichiarare e poi fare la guerra a se stesso. L’ala del mitico Manchester United degli anni Sessanta, campione d’Europa, Pallone d’Oro, bello e dannato, lo conosce anche chi di calcio non sa nulla.


 

Ma per chi arriva a Belfast e non sa chi sia Best, c’è un corso accelerato. L’aeroporto, per mettere subito le cose in chiaro, si chiama George Best. Sulla fiancata del bus che porta in centro c’è un’immagine di George Best e, a intervallare i murales politici di cattolici e protestanti, facile che appaia un uomo in maglietta e pantaloncini: sempre George Best. Ci sono i souvenir di George Best, il cocktail George Best, il panino George Best, il tour di George Best e tra un po’ ci sarà anche lo stadio George Best. Presto, in pieno centro a Donegall Square, ci sarà anche un George Best Hotel (la mini Sagrada Familia locale, che doveva essere pronto già quattro anni fa e non è pronto mai). Per pubblicizzarlo appare un gioco di parole che a Belfast - e non solo - molti conoscono a memoria “Maradona good, Pelé better, George Best”. Eppure proprio lì davanti appare un cartello che sembra un’offesa alla memoria. La scritta recita: “Alcohol Free Area: multa fino a 500 sterline”. Quasi un affronto o un omaggio (a seconda se volete romanticizzare o meno il suo alcolismo) della città al suo figlio più famoso, che una volta disse: “Nel 1969 ho dato un taglio a donne e alcol. Sono stati i venti minuti peggiori della mia vita”.


 

Belfast è una città che si fa volere bene: per i pub - stupendi, tra i più belli del Regno Unito - dove puoi mangiare benissimo (carne, carne e altre cose mischiate alla carne) e bere ancora meglio con una manciata di sterline. Fa ancora più calore quella ruvida gentilezza di chi non sa bene come fare con i turisti, ma almeno ci prova, l'accento improbabile e una quantità senza precedenti di fortissime pacche sulle spalle. Belfast ha un centro cosmopolita, moderno, che al marziano di turno non farebbe mai sospettare il casino che c’è dietro.


 

Gli unionisti di Shankill (una delle strade che compongono il centro di Belfast) vogliono uscire dall’Europa, eppure la sera, una volta chiusi i cancelli dei Muri della Pace che li dividono dai cattolici, faticano a uscire dal loro stesso quartiere. I nazionalisti di Falls Road vorrebbero tornare a far parte dell’Irlanda. Anzi, ci sarebbero già, ma senza esserci davvero.


 

Belfast è un luogo complicato, insomma, a cominciare da quella definizione che è sia un controsenso che una presa in giro: Muri della Pace (Peace walls o Peace lines, in inglese), che suona come una forzatura qui in Irlanda del Nord, un Paese ancora in guerra. Certo, gli scontri, gli attentati, le retate, gli oltre 3.400 morti di cinquant’anni di Troubles sono fortunatamente lontani dopo gli accordi del Venerdì Santo 1998.


 

Le incomprensioni però restano, così come il rancore e - in alcuni casi - l’odio. Restano i muri, le spesse inferriate che proteggono dal lancio di molotov e bombe incendiarie le case al confine dei quartieri a rischio. Resta la consuetudine di chiudere, al tramonto, le decine di cancelli che si intervallano ai tanti muri alzati un po’ in tutta la capitale dell’Ulster. Noi di qua, voi di là. Ognuno con le sue paure, le sue vendette, le sue fobie. Per dire, a West Belfast «non troverai mai un lealista, un protestante a passeggiare per i Falls. E mai un cattolico per le strade di Shankill». A parlare è Ned, uno dei tanti tassisti di Belfast che si offrono per 30 sterline a farti da guida nei due quartieri simbolo dei Troubles, proprio dove 50 anni fa, dopo la battaglia del Bogside a Derry e i successivi scontri a Belfast, fu eretto il primo muro.


 

I taxi neri di Belfast sono come la scatola di cioccolatini di Forrest Gump: non sai mai quello che ti capita. E il tour può prendere pieghe inaspettate. Alla guida può esserci un fanatico protestante o cattolico, un moderato, perfino un ex galeotto o un familiare di una delle vittime. Ti raccontano tutti la stessa terribile storia, che però è sempre un’altra storia a seconda del taxi che arriva.


 

Ned è cattolico, non nasconde le sue idee e avverte: «Meglio non far capire che si è italiani a Shankill. L’equazione italiano-cattolico la fanno in fretta. Un pub? Lì? Io non ci andrei». La storia dei Troubles vista da Ned è quella filtrata dalle sofferenze dei cattolici, stranieri nella loro stessa patria. Shankill lo liquida in poche parole, mostrando i cupi murales protestanti, tutti pistole, fucili, paramilitari e Union Jack. «Poi magari vi lascio in un punto in cui potete farvela a piedi». Quando oltrepassiamo i cancelli aperti tra i due quartieri si affretta a mostrare i murales dall’altra parte della barricata. «Guardate! Obama, Mandela, gli arcobaleni, Bobby Sands, bambini tenuti per mano che guardano orizzonti lontani». Lontanissimi quando, alzando lo sguardo, si vedono metri di filo spinato, torrette di guardia, telecamere di sicurezza.


 

Tutto quel che divide Belfast dovrebbe cadere entro il 2023 secondo i piani del governo, ma nessuno ci crede. Per dire, oggi in tutta l’Irlanda del Nord sono 109 i muri, una ventina in più rispetto a quando si era ancora ufficialmente in guerra. Dal lunedì al venerdì tra le 18 e le 18.30 la maggior parte dei cancelli viene chiusa, e così restano anche nel weekend. Solamente alcuni, controllati 24 ore su 24, possono aprirsi anche durante il coprifuoco, ma solo per far passare ambulanze e pompieri.


 

«Tra qualche generazione tutto si calmerà, ma bisogna ammetterlo, tutto questo odio ce l’hanno iniettato dentro da piccoli, lo abbiamo nelle vene». Arrivati al più famoso Muro della Pace, quello di Cupar Way, Ned tira fuori un pennarello per permettere anche a noi - come a tutti gli ospiti del suo taxi - di firmare vicino ai cuori e alle frasi pacifiste scopiazzate da John Lennon, dal Dalai Lama o dagli U2. Ma poi, con un sorriso beffardo, prende il pennarello ed è lui ad aggiungere, ridacchiando, “+ Linfield” sotto alla scritta “Fuck hippies”.


 

Il Linfield è la squadra di calcio simbolo del potere unionista e in cui i cattolici non giocano (a parte rare eccezioni) per consuetudine. Insomma, la più odiata a Falls Road e nel resto d’Irlanda. «La squadra dei cattolici, il Belfast Celtic, è stata sciolta nel 1949 per motivi di sicurezza dopo che, nel giorno di Santo Stefano del 1948, i tifosi del Linfield invasero il campo e malmenarono i giocatori. Ma stiamo tornando, una squadra amatoriale (lo Sports&Leisure Swift FC) ha chiesto e ottenuto dalla Federazione di usare il nome Belfast Celtic».


 


Spiegare cos’era, cos’è il Belfast Celtic può essere complicato, soprattutto a chi è a digiuno di calcio e di Irlanda. Somiglia per certi versi a una storia che sembra non c’entrare nulla, quella dei Brooklyn Dodgers nel baseball: esistevano, erano un pezzo enorme di qualcosa, Brooklyn, nel loro caso. L’assenza dei primi, dissolti per motivi politici, e dei secondi, traslocati (a Los Angeles) per motivi economici, è diventata una presenza costante che definisce l’identità di chi li ha vissuti e persi.


 

Il Belfast Celtic, maglia bianca e verde a righe orizzontali, era la squadra che fino a quel folle 26 dicembre 1948 aveva giocato tutti i derby di Santo Stefano (il Boxing Day, se volete) con il Linfield. Era calcio, era religione, era politica, quindi era praticamente tutto. Quando il Linfield pareggiò quella partita, a pochi secondi dalla fine, i tifosi, euforici e ubriachi, invasero il campo e ruppero una gamba al bomber del Celtic Jimmy Jones (record di 74 reti in una sola stagione, tuttora imbattuto) e, non contenti, lo presero a calci fino a fargli perdere i sensi. Altri due giocatori vennero assaliti e poi tratti in salvo negli spogliatoi. Jones dovette farsi operare e rimase con una gamba più corta dell’altra.


 

Quella rissa era l’inizio della fine per il Celtic, che protestò contro la polizia, che rimase a guardare, e contro la Federazione che non prese provvedimenti. Terminarono il campionato e decisero che era arrivato il momenti di sciogliersi dopo una trionfale tournée americana in mezzo agli emigrati irlandesi. Si riunirono per qualche altra partita, compresa una vittoria 2-0 sulla Scozia (anche lì, comunque, finì con una scazzottata).


 

A celebrare loro e il loro passato, oggi resta solo un angolo di un centro commerciale, il Park Centre, costruito sul loro glorioso stadio, il Celtic Park. C’è una targa e un piccolo museo. Il resto sono storie, memorie e leggende tramandate di padre in figlio. Tra questi, oggi, ci sono diversi tifosi del Glentoran, una squadra protestante come il Linfield, ma non dogmatica, che ha sempre avuto calciatori e tifosi cattolici. Il Glentoran sfoggia sempre molto verde sulle maglie, colore che su quelle del Linfield (bianco, blu e rosso come la Union Jack) è di fatto vietato. È una squadra inclusiva ma anche strana: ha un galletto come simbolo e un motto francese (“Le jeu avant tout”, cioè "Il gioco prima di tutto"). George Best era un suo tifoso: un amore inizialmente non corrisposto, visto che fu scartato a un provino. Riuscì infine a giocare una partita con la maglia del Glentoran, nel 1982, contro il suo Manchester United, nella gara organizzata per il centenario del club. Le loro strade si erano in qualche modo incrociate durante la Coppa Campioni 1967-1968, quella vinta da Best con i "Red Devils" in finale contro il Benfica di Eusebio. I portoghesi rischiarono di essere eliminati al primo turno proprio dal Glentoran, prima squadra nella storia della competizione a non far segnare il Benfica in casa: finì 0-0, peccato che l’andata, in Irlanda del Nord, terminò 1-1, e ancora più peccato che la regola dei gol in trasferta fosse appena stata introdotta. Il Glentoran fu la prima squadra europea eliminata in quel modo.


 

Riepilogando. Grande tradizione (nati nel 1882), anima operaia, mai retrocessa (come solo Linfield e Cliftonville), grande pubblico trasversale, la squadra perfetta per ricreare una rivalità con l’aristocratico Linfield e portare avanti il rituale del derby di Santo Stefano. E così fu. Sono ancora lì entrambe, ma le zuffe, negli anni, non sono mancate, talvolta qualcosa di più: per dire, una volta fuori da Windsor Park - stadio del Linfield e della nazionale nordirlandese - sono arrivati i carri armati.


 

Nel filmato che mostra gli scontri durante la finale di Irish Cup del 1983 tra Linfield e Glentoran si vede l’accanimento di un gruppo ultrà verso un tifoso buttato a terra e preso a calci da quattro, cinque persone, una delle quali ha un bastone. All’improvviso al vertice sinistro di una delle due aree compare il corpo di un altro uomo in tuta nera che pare esanime, portato via a braccia, con fatica, da altri due. Chi commenta in studio ha quel distacco che solo i britannici possono avere in queste situazioni. Dicevano che bisognava placare gli animi. Ma sembrava non fregargliene nulla.


 

Due anni dopo, a dimostrare che nessuno li ascoltava, per un’altra finale di coppa, il Glentoran pensò bene di portare un galletto vero a bordo campo, accompagnato da un maiale a cui era stata disegnata addosso una maglia blu, il colore del Linfield. Non c’erano tori, ma quella partita diventò una corrida vinta 2-1 dal Linfield. Altri scontri ci furono nel 1993 e nel 2008. Ma il punto più basso fu toccato nel 1998, in un giorno che verrà chiamato “Irish League Day of Shame”. Il motivo è presto detto: in quel giorno scoppiarono contemporaneamente due enormi risse in campo nei derby Glentoran-Linfield e Crusaders-Cliftonville, con un record di Kirk Hunter, il giocatore ritenuto il più scorretto della storia della Lega, espulso dopo un minuto dall’ingresso in campo per una raffica di pugni a un avversario: in quei 60 secondi Hunter, sostituto dei Crusaders, non toccò mai la palla.


 

Nel 1995, invece, la gara di Santo Stefano fu giocata sotto la neve e rigorosamente con il pallone arancione. Quando però il pallone si rivelò inutilizzabile, si giocò lo stesso con l’unico altro pallone disponibile, di colore bianco, invisibile agli spettatori e anche a qualche calciatore.


 


La storia più incredibile di questo derby infinito è anche relativamente recente, e come tutti i giorni speciali ha un nome tutto suo, ovvero “Morgan Day”, dal nome del calciatore che segnò il gol decisivo, la partita e anche l’intero campionato 2004-2005. Chris Morgan era stato silurato l’estate precedente dal Linfield e si era accasato con i rivali del Glentoran, voluto dall’allenatore Roy Coyle. Nomi che qui vogliono dire poco, ma in realtà Coyle è stato uno degli allenatori più vincenti della storia del calcio nordirlandese, nonché manager del Linfield per 15 anni (il primo a far firmare per il club protestante un calciatore cattolico, Tony Coly), mentre Morgan era stato il centravanti del Linfield per sei anni, dal 1998 al 2004. Con Coyle in panchina, Morgan segna nel recupero il gol del 3-2 che permette al Glentoran di superare i rivali e infine vincere il campionato con due punti di vantaggio, proprio quelli guadagnati nel “Morgan Day”. Lui, a distanza di tempo, ricorda con gioia quei momenti, ma anche la paura di ordinare un semplice panino per strada: se veniva riconosciuto dai tifosi del Linfield partivano insulti di ogni tipo.


 

Insomma, è cambiata una delle due squadre in campo, ma il “Big Two Derby” (detto anche “Big Two” e basta o “Bel Classico”, contrazione di Belfast più che di bello, anche perché di bello c’è sempre stato poco) resiste, sebbene schiacciato dalla Premier League, a tal punto che pur di racimolare qualche tifoso, la Lega locale aspetta ogni settimana il calendario inglese e poi infila le sue gare in quelle poche ore che restano tra un Manchester, un Burnley e un Liverpool. L’unica partita che conta ancora è il Big Two, soprattutto quello del 26 dicembre, sempre record d’incassi e presenze stagionale.


 

Il mio Linfield-Glentoran è stato giocato a Windsor Park il 28 gennaio 2019, un giorno così gelido da far soffrire anche la gente di Belfast. Il Linfield, per come si presenta e gioca, sembra una squadra di terza serie inglese, con enormi limiti, ma tutto sommato vera; il Glentoran pare invece la squadra di un torneo amatoriale, dove tra gli undici percepisci subito che c’è qualcosa di stonato, qualcuno troppo alto, troppo basso, troppo grasso, troppo lento o semplicemente troppo scarso per convincerti di essere davvero un calciatore di professione. Dopo un inizio imbarazzante (rigore concesso più autorete), all’inizio del secondo tempo il Glentoran pareggia, non si sa bene come, in soli 4 minuti: 2-2. Sembra troppo, e lo è. A un quarto d’ora dalla fine il Linfield torna in vantaggio, un giocatore del Glentoran viene espulso stupidamente, il Linfield segna ancora e tutto va come dicevano - fin dal riscaldamento - gli occhi e l’istinto. Lo stadio invece è una cella frigorifera dove trovare riparo è impossibile, visto che il posto più caldo sono gli spalti. L’interno è un gruviera dove il vento passa dappertutto, alimentando se stesso fino a creare dei mini-tornado. Non bastano i guanti, la calzamaglia, il berretto di lana, non basta la birra né il whiskey.


 

Fa troppo freddo perfino per insultarsi, inoltre le tifoserie, in uno stadio semivuoto, sono davvero troppo lontane. Quest'anno quanto freddo farà a Windsor Park il 26 dicembre invece non lo saprò. Anche perché quest’anno si giocherà, per la seconda volta nella storia, il 27 dicembre (alle 16, non un caso, la Premier League che ha un 26 dicembre intasato, il 27 non prevede partite fino alle 21). Era accaduto solo nel 1993.


 

Qualcuno dirà che non vale la pena vederla. Ma, insomma, la curiosità di vedere almeno com’è andata a finire, non solo in campo, mi rimane.


 

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