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Cosa vuol dire fare una gara in barca a vela in giro per l'Europa
25 set 2025
Siamo stati alla tappa di Genova della Ocean Race Europe 2025, una delle gare di vela più interessanti al mondo.
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6 min
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Georgia Schofield
(copertina) Georgia Schofield
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L’IMOCA 60 è un monoscafo di quasi 20 metri, equipaggiato con foil retrattili che gli permettono di alzarsi sull’acqua come se volasse. Immaginate delle ali che scendono verso il basso e grazie alla potenza del vento sollevano la barca riducendo al massimo l’attrito dello scafo con il mare. Vedere questi oggetti fermi nel porto di Genova fa un effetto straniante, sembrano astronavi su cui hanno montato delle vele e messo strani nomi umani per camuffarle. Si chiamano Canada Ocean Racing - Be Water Positive, Allagrande Mapei Racing (italiana ovviamente), Team Holcim PRB (svizzera), Team Malizia (a sorpresa tedesca), Team Paprec Arkéa (francese), Biotherm (francese) e Team AMAALA (svizzera-saudita).

The Ocean Race Europe 2025 è una regata storica che dal 10 agosto al 21 settembre vive la sua versione continentale, con la partenza da Kiel nel nord della Germania, e poi le tappe a Portsmouth, Matosinhos, Cartagena, Nizza, Genova e infine alle Bocche di Cattaro in Montenegro. Salire su queste barche a vela ti può dare una vaga idea di quella che può essere la vita a bordo. Intanto ogni mezzo è diverso e ha un design proprio, nei limiti delle misure standard della competizione. Quindi per semplificare: i tedeschi possono avere le cuccette più comode e il timone stretto, mentre gli italiani guidano in poltrona ma dormono in dei buchi. Io sono salito sull’imbarcazione canadese, che sembra piuttosto spartana ma anche molto organizzata. Strisciando sottocoperta si capisce molto chiaramente che questo è uno sport piratesco e marinaro, non da gita con le scarpe eleganti.

Le strumentazioni sono ovunque, con schermi e misuratori elettronici in continuo aggiornamento (che non è escluso mollino tutti di punto in bianco a causa dell’acqua). Poi in un antro ancora più profondo ci sono reti e amache per dormire, dove il team si alterna, chiudendo gli occhi a turno per poco meno di due ore. Ci sono Crocs, stoviglie, creme solari, buste di cibo con provviste per circa 8 giorni, cuffie microfonate per parlarsi da ovunque e con qualsiasi livello di frastuono, cacciaviti e aggeggi di tutti i tipi, stipati in borse e tasche ben fissate alle pareti o incastrate tra le strutture.

L’interno di questa IMOCA è nero ed essenziale e ha l’atmosfera claustrofobica di un disegno di H. R. Giger. Noto dei caschetti da montagna che servono per non sbattere la testa a destra e a sinistra quando il mare è mosso e poi nell’ombra vedo ancora lacci, ganci, cavi e qualsiasi cosa che serva per smontare e aggiustare, perché ogni barca se la deve cavare da sola quando è in mezzo ai flutti. E il bagno? È un secchio. Poi naturalmente c’è il timone e c’è il grinder, cioè dei grossi pedali da girare a braccia che danno potenza agli argani che regolano le vele. Là sotto fa caldissimo e non riesco a immaginare il livello di resistenza che abbiano sviluppato questi atleti a diversi tipi di condizioni ambientali, che possono cambiare vertiginosamente in sole 24 ore.

Ma è più importante la prestanza fisica o la tecnica per guidare un mezzo del genere? Faccio questa domanda direttamente a Pip Hare, velista britannica molto nota e di grande esperienza che partirà con il team canadese qualche ora dopo. «La nostra disciplina è particolare. Io ho 51 anni e gareggio con maschi di 30, per cui posso dire che la tecnica e la conoscenza di navigazione sono fondamentali. Per questa classe di barche e per questa regata in particolare tutto si livella su questa componente. Detto ciò se non sei fisicamente pronto per questi viaggi non puoi stare a bordo». A proposito di questo, nell’edizione 1989-90, la barca Maiden, guidata da Tracy Edwards, fu il primo team interamente femminile a partecipare al giro del mondo in regata. Nonostante lo scetticismo di tutti vinse due tappe e arrivò seconda nella classifica finale (la storia viene raccontata nel documentario del 2018 Maiden).

Un’altra mia curiosità verte sulla pericolosità di queste traversate, sono davvero avventurose o ormai è tutto calcolato? Hare, che ne ha viste di tutti i colori, mi racconta che: «La prima cosa da tenere d’occhio è il tempo atmosferico, perché una tempesta può tranquillamente rompere una barca. Noi infatti abbiamo un sistema satellitare molto preciso che ci tiene costantemente in allerta. L’anno scorso durante il Vendée Globe (altra storica regata che si fa con le stesse barche ma in solitaria e intorno al mondo, nda) a causa di un’onda troppo grande ho rotto l’albero e la vela. Ero a 800 miglia nautiche a sud dell’Australia (1400 Km circa, nda). A quel punto ho dovuto inventare una struttura d’emergenza e virare verso Melbourne. Devi saper fare un po’ di tutto per non mettere a rischio la tua vita e quella degli altri».

La particolarità della Ocean Race Europa 2025 è che parallelamente alla gara, ogni imbarcazione raccoglie dati relativi all’inquinamento degli oceani. Questi laboratori in miniatura sono installati all’interno di ogni mezzo e misurano temperatura, salinità, raccolgono microplastiche e campioni di DNA ambientale, contribuendo a monitorare la salute dell’ambiente marino. Tutti questi dati vengono poi condivisi liberamente con istituti scientifici di tutto il mondo.

Ho chiesto a Pip Hare se un velista può percepire la crisi ambientale quando è in viaggio. «La maggior parte di questi segni è invisibile per noi. Naturalmente non possiamo vedere le microplastiche e la grande maggioranza dell’inquinamento si accumula in luoghi dove non c’è vento e che quindi noi non tocchiamo. Ma sentiamo le temperature che si alzano, soprattutto qui nel Mediterraneo, che sta diventando sempre più caldo. Inoltre, quando si fa la circumnavigazione del globo in barca a vela si scende al Polo Sud per fare un tragitto minore. Esiste però un limite tracciato dalla federazione, in collaborazione con gli studiosi dei ghiacciai antartici, oltre il quale non si deve andare per evitare l’impatto con gli iceberg. Ma negli anni questo confine viene fatto salire sempre più a nord, perché sempre più ghiaccio si stacca e si allontana dal continente. Direi che per noi velisti questa è la prova tangibile più impressionante di quello che sta accadendo».

Per vedere la partenza ci allontaniamo dal porto. Barche e barchette di varie dimensioni si avvicinano al luogo designato e al cospetto degli IMOCA 60 sembrano arrivare da un’altra epoca. Dietro di noi la costa ligure è una fitta fila di case, chiese, ponti, spiaggette e montagne, tutte attaccate e protese sul mare, come se stessero sgomitando per guardare anche loro. La partenza non è esattamente quella della Formula 1, anche perché il vento è molto debole. Ma l’emozione di salpare ha un sapore specifico, esaltante e un po’ malinconico. Dopo un po’ le imbarcazioni sono puntini sulla linea dell’orizzonte. Immagino che durante gli 8 giorni di regata si potranno avvistare vicendevolmente a occhio nudo. Anche se, come si sa, nel mare tutto sembra più lontano e tutti diventiamo più piccoli.

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