«Se lui (Merckx) sta bene, attacca. Giusto. Se lui non sta bene, nessuno lo attacca. Sbagliato. Solo i codardi si rassegnano prima di provarci e riprovarci».
(Luis Ocaña)
Quando il sole cade di taglio sulla strada che porta verso i 1850 metri, quando intorno c’è soltanto il rumore del vento leggero che fa ondeggiare i rami degli alberi, quando quei tornanti si addolciscono per attraversare il villaggio e tornare all’improvviso a essere rampe curve in attesa di un traguardo invisibile, quando non ci sono gli appassionati sul ciglio del percorso, quasi non si sente il peso della storia.
A contribuire al mito del Tour de France sono le salite che scavano nel cuore dei tifosi: il paesaggio lunare del Mont Ventoux, il leggendario Galibier, i 21 tornanti che pennellano la sagoma dell’Alpe d’Huez, l’immancabile rito laico del Tourmalet, quasi mai ascesa conclusiva ma praticamente sempre presente nelle rotte disegnate da chi deve progettare il percorso della Grande Boucle. In questo strano Tour de France 2020 non ci saranno queste quattro ascese storiche, e non sono mancate le polemiche. Ma ce ne è una che è una coltellata in pieno petto per chi, all’inizio degli anni ’70, coltivava la passione per un corridore in grado di infiammare anche il più neutrale degli amanti delle due ruote.
Dell’anima tormentata di Luis Ocaña, nato il 9 giugno del 1945 e andatosene con un colpo alla tempia sinistra sparato all’ora di pranzo, nelle sue cantine, il 19 maggio del 1994, si è già scritto tutto. Che fu spagnolo in terra francese, per scelta dei genitori e minaccia franchista: che la famiglia superò i Pirenei quando Luis aveva dodici anni, e che in Francia scoprì quanto è facile capire gli insulti anche senza conoscere la lingua, perché il volto di chi ti ingiuria cambia conformazione, e dove non arrivavano le parole riuscivano sberle e sputi. Che Pierre Cescutti fu il primo a coglierne il talento: «Luis correva come un cane arrabbiato». E che a Mont de Marsan, terra d’adozione, corse al capezzale del padre poche ore dopo essersi aggiudicato il titolo spagnolo a cronometro, poggiando sul letto di dolore dell’uomo che mai lo avrebbe voluto vedere corridore quella maglia rossa e gialla. Una vita di contrasti e contraddizioni, tra una patria che lo ripudiava e un’altra che non l’aveva mai accettato del tutto. E un solo per modo per fuggire via, correndo come un cane arrabbiato.
Sulle strade che oggi vedranno sfrecciare i favoriti per la maglia gialla, sulle rampe che d’inverno promettono ai turisti della neve fantastiche discese in sci e snowboard, su quelle strade che in estate sono abbracciate da un verde che è così verde solo in montagna, forse perché il contrasto con il colore dei corsi d’acqua che scorrono gli fa prendere ulteriore brillantezza, il Tour è passato per la prima volta nel 1971. Era l’8 luglio, era l’undicesima tappa. Luis Ocaña, per una volta nella vita, era felice.
L’anno del “Puta”
Con il volto arcigno e la classe innata, Eddy Merckx nel 1971 è, se possibile, ancora più cannibale del solito. Porta la maglia neroarancio della Molteni, la squadra arcorese che se l’è aggiudicato a inizio anno, con inevitabile codazzo dalla Faemino-Faema. Ci sono tutti i gregari del fuoriclasse belga, c’è il d.s. Driessens. In soldoni, c’è una squadra che sa come farsi despota in strada. Eddy vince il GP di Camaiore, la Het Volk e la Milano-Sanremo, quest’ultima riagguantando e strapazzando Gimondi sul Poggio. Si aggiudica anche la Liegi-Bastogne-Liegi, il Giro del Delfinato e il Midi Libre, decidendo di non prendere parte a Vuelta e Giro d’Italia. La punta della Molteni sulle strade italiane, Herman Van Springel, chiude al secondo posto, a due minuti e una manciata di secondi dallo svedese Pettersson. Il belga è tra gli scudieri di Merckx al via del Tour 1971, e nessuno pensa che il “Cannibale” possa davvero mancare l’obiettivo della terza Grande Boucle consecutiva.
Soltanto i maghi azzardano pronostici contro Eddy: ne seguirà un altro, di un belga, che ne profetizzerà il ritiro sulla discesa del Col du Menté. Un triste presagio, ma per Ocaña.
Eddy è reduce da due Tour uccisi, più che dominati. Diciotto minuti di vantaggio su Pingeon nel 1969, tredici su Zoetemelk nel 1970. Le voci della vigilia raccontano di un Merckx più prudente e meno arrogante, portato alla gestione e non al dominio incontrastato. A insidiare il fuoriclasse belga è la nutrita schiera di rivali: Pettersson è un regolarista che non ha l’animo del guerriero, ma i fratelli De Vlaeminck, Zoetemelk e soprattutto Ocaña non vedono l’ora di mettere il gigante al tappeto. Lo spagnolo è fiero, perennemente incazzato con il mondo, nel 1970 si è aggiudicato la Vuelta. Sa tenere bene a cronometro, pur non essendo Merckx, e soprattutto è convinto di potergliele suonare in salita.
Una convinzione nata in una tappa del Delfinato vinto proprio dal belga, durante la Grenoble-Annecy: uno scossone prima di un temporale, la sensazione di un Eddy finalmente umano. Merckx, che per tutti era il “Cannibale”, per Ocaña era “el Puta”. Nell’elenco dei rivali stilato dal campione belga non appare mai lo spagnolo: «Potranno darmi qualche fastidio i fratelli De Vlaeminck, ma non fino in fondo. Mi risulta che sia molto migliorato Zoetemelk. Tutti conoscete Pettersson, che considero in definitiva come il mio più serio rivale: è intelligente e ben guidato. Non credo possa battermi, ma può almeno tentarlo».
La Molteni domina il prologo a squadre, a Mulhouse, e Merckx è subito in giallo. Ocaña e Motta sono i due big che accusano il maggiore ritardo dopo gli 11 chilometri di apertura: 20 secondi. Si prosegue senza scossoni per una settimana: il Tour affronta giornate logisticamente folli, con ben tre semitappe il 27 giugno. Ocaña ha cerchiato in rosso due frazioni: la prima è quella prevista il 5 luglio, l’ottava tappa: 221 chilometri da Nevers a Puy-de-Dôme. È la prima vera montagna del Tour, arrivo in quota a 1.413 metri.
Le speranze italiane sono tutte riposte in Gianni Motta alla vigilia dei quattro giorni sulle Alpi.
La pennellata di Luis
C’è tumulto in gruppo alla partenza di Nevers: il traguardo del giorno precedente si era tinto letteralmente di sangue per una maxi caduta che aveva visto nel mischione anche Roger De Vlaeminck. «Tutti hanno paura del Puy-de-Dôme, quindi ognuno aspetterà le mosse dell’altro», prevede Vittorio Adorni alla vigilia. Non ha fatto i conti con Ocaña, l’unico a non provare il minimo timore nei confronti di Merckx. Il belga sbaglia, cerca di contenere la corsa nella prima parte quando i fuggitivi non destano preoccupazione di classifica e finisce stravolto nella fase decisiva, scoprendo che una squadra, per quanto forte, fa fatica quando c’è da arginare la guerra dichiarata da una pattuglia di rivali pronti alla battaglia.
Ocaña fa sua la tappa con uno scatto da ciclismo moderno, allungando a soli cinque chilometri dalla vetta per andare a riprendere Tamames e Paolini. Merckx arranca, rischia di perdere il simbolo del comando con Zoetemelk che si avvicina pericolosamente: sono tutti contro Eddy, anche Agostinho è parte di questo inatteso cartello anti Merckx. «Corrono tutti per farmi perdere, ma non ci riusciranno. Nel finale mi sono ripreso, ho aumentato progressivamente il ritmo e ho recuperato quasi tutto il terreno perduto sugli avversari che mi interessavano di più». Restano 36 secondi di vantaggio su Zoetemelk, 37 su Ocaña, 1’16” su Pettersson, mentre Motta scivola più indietro.
La maglia gialla passa sulle spalle di Zoetemelk a Grenoble, decima tappa. È il giorno in cui Motta si ritira e Merckx impreca in ogni lingua conosciuta per una foratura che scatena l’attacco dei rivali. Il primo a suonare la carica è ovviamente Ocaña, che fa partire l’offensiva a una trentina di chilometri dall’arrivo, nella discesa del Col du Cucheron. Lo spagnolo si porta dietro Zoetemelk, Pettersson e Thevenet, dà spettacolo sul Porte e stravolge la generale. Thevenet vince la frazione, Zoetemelk è in giallo con un secondo su Ocaña, 40” su Pettersson e un minuto tondo su un Merckx mai così a disagio sulle strade di Francia. Per ora.
Manca solo una tappa al nuovo giorno di riposo, ma siamo arrivati dove Ocaña voleva arrivare. È qui, nei 134 chilometri che portano la carovana da Grenoble a Orcières-Merlette, che vuole far saltare il banco. Tratta a lungo con i vertici della Bic, che lo implorano di giocare d’attesa almeno fino all’ultima salita. Ma Luis, più degli altri, ha saputo leggere i disagi di Merckx. Alla fine scende a patti con il direttore sportivo De Meur: farà a modo suo. Il cartello dei dissidenti si mette in moto già sulla Cote de Laffrey, un’ascesa secca ma che non supera i mille metri. In teoria è presto, prestissimo. Ma la teoria deve arrendersi davanti al genio. La strada sale e il sole batte forte, e non c’è elemento atmosferico più gradito a Ocaña, che si esalta quando la temperatura schizza oltre i 30 gradi e l’asfalto si fa colloso al passaggio delle ruote. Parte per primo il portoghese Agostinho, quindi Luis, infine Van Impe e Zoetemelk. Merckx e la Molteni si sciolgono sotto il sole e sotto le bordate del drappello golpista, Eddy si rassegna a una giornata da ferite profonde.
I quattro procedono d’amore e d’accordo fino all’imbocco del Col du Noyer, oltre 60 chilometri all’arrivo. Lo spagnolo ringrazia e se ne va, quasi sospinto dalle notizie della difficoltà di Merckx. Veleggia da solo fino al traguardo, con la sua pedalata potente e rabbiosa. Si mangia i chilometri che lo separano dalla gloria, scavando un gap mostruoso non solo nei confronti del belga ma anche di tutti gli altri uomini di classifica. In cima al Col du Noyer ha già 4 minuti sui tre ex compagni di fuga, il distacco aumenta ancora sulla salita che porta a Orcières-Merlette: 5’52” su Van Impe, 8’42” su Merckx, Zoetemelk e Pettersson, ripresi dal belga ma comunque a distanza siderale da Ocaña.
«Non pensavo che avrei ottenuto così tanto, mi proponevo solo di infliggere il colpo di grazia a Merckx. Quando ho visto che le gambe rispondevano ancora bene ho deciso di completare l’opera e ho staccato anche gli altri. Penso di aver vinto il Tour oggi, non ho mai goduto di una condizione così eccezionale in carriera. Non mi fanno paura né le cronometro, né i Pirenei. Ma devo riconoscere che se Eddy fosse stato quello dello scorso anno, non lo avrei battuto così facilmente». I giornali raccontano della caduta del “Cannibale” e dell’esplosione del nuovo astro nascente: a 26 anni, Ocaña pare destinato a una carriera da sogno. L’organizzazione del Tour è seriamente preoccupata: l’impresa dello spagnolo ha portato 60 corridori fuori tempo massimo. In fretta arriva la scappatoia: modifica al regolamento per non mutilare il gruppo, alla fine ne vengono riammessi 57.
L’epilogo
Durante il giorno di riposo, la Molteni tesse alleanze preziose nel tentativo di controribaltare il Tour. Mentre L’Equipe definisce Merckx “L’imperatore fucilato”, il suo team si muove nel sottobosco per garantire al fuoriclasse una piccola chance di riaprire il discorso. Il “Cannibale” sceglie la prima tappa della ripresa, da Orcières-Merlette a Marsiglia, per il primo atto della rinascita: Rini Wagtmans, unico olandese della Molteni a trazione belga, si lancia all’attacco dal chilometro zero, viene seguito da nove corridori. Uno di questi è Merckx, convinto che per guadagnare minuti su Ocaña l’unico modo sia trasformare questa tappa apparentemente insulsa in una sorta di campionato del mondo di inseguimento. Logorare lo spagnolo con una tattica folle, a costo di ritrovarsi ad alzare bandiera bianca. Ma nella pattuglia dei fuggitivi c’è una “talpa”, Letort, che rompe i cambi e permette che l’azione non origini distacchi incolmabili. Merckx, prosciugato dalla fatica, sul traguardo è secondo alle spalle dell’italiano Armani, ma i minuti rosicchiati a Ocaña sono solamente 2’12”. Il belga risale al secondo posto della generale, la cortissima cronometro individuale di Albi (16,5 chilometri) non provoca sconquassi.
Fa caldo, a Revel, il 12 luglio. Buon per Ocaña, direbbero le stelle. Ma il Tour è per sua natura mutevole, insidioso, bastardo come forse nessun’altra grande corsa a tappe. Merckx cerca di fare ancora una volta il diavolo a quattro già dal Portet d’Aspet, Luis è bellissimo in ogni risposta, fa capire al belga che non ce n’è. È un gioco di presenza. Nessuno sport alimenta le guerre psicologiche come il ciclismo: è testa, è gambe, ma è anche la capacità di entrare sotto la pelle del rivale. Ocaña corre da padrone inibendo le velleità di Merckx anche sul Col de Menté, ma qualcuno di più grande ha deciso che questo non sarà il suo Tour.
Quindici minuti di pioggia, una bomba d’acqua si abbatte sulla corsa e sulla vita del fuoriclasse spagnolo. Merckx è avanti in discesa, sbanda, rischia di schiantarsi ma riesce a salvarsi. Ocaña, alle sue spalle, no. Cade, buca il tubolare anteriore. È acciaccato, ma si rimette in piedi, deve solo aspettare una bici di ricambio. Quanto possono durare due, cinque, dieci secondi? Quanto può dilatarsi in pochi istanti la paura di Luis mentre vede arrivarsi addosso l’olandese Zoetemelk che urla «Attention! Attention!», con le mani sui freni e gli occhi spalancati? Lo scontro è violentissimo, stavolta Ocaña è disperato. A terra si crea un miscuglio di mani, braccia e gambe. Si schiantano anche Agostinho e Martinez. Luis non si muove più, l’unico cenno di vita che riesce a fornire ai soccorritori è un rantolo faticoso. I medici temono il peggio, la rigidità delle gambe fa pensare al peggio, a una lesione vertebrale. Il trasporto all’ospedale di St. Gaudens è carico d’ansia, alla fine non c’è nulla di grave, nulla di rotto. Tranne l’equilibrio psichico di Luis, che vede sfuggire via un Tour de France praticamente già vinto.
Il “nemico” Merckx rifiuta di indossare la maglia gialla, valuta anche il ritiro: «Dopo quello che è successo, non ho il morale per continuare. Un Tour del genere non significa più niente, cosa me ne faccio di un trionfo che non vale nulla? Volevo battere Ocaña ma in un duello onesto e regolare, non così. Di questo Tour tutti ricorderanno soltanto una cosa: che Luis mi ha umiliato sulle Alpi». Il d.s. Driessens lo martella fino a rimetterlo in bici il giorno successivo, mentre Ocaña si strugge sul letto d’ospedale: «Ho sentito un gran male al corpo, avevo molto freddo. Credo di avere battuto contro un masso, non ricordo bene. Ricordo che mi ero rialzato ma non potevo rimettermi in bici, ho dovuto rinunciare subito. E di quello che è accaduto dopo non ricordo nulla». Le foto del volto straziato di Ocaña a terra subito dopo l’incidente fanno il giro del mondo, mentre Merckx procede verso la terza vittoria consecutiva al Tour.
Chi ha conosciuto bene quel ragazzo senza patria, al punto di essere ribattezzato “lo spagnolo di Mont de Marsan” per i francesi e “il francese di Priego” per gli spagnoli, ha sostenuto per anni che ad alimentare la sua voglia di andare in bicicletta da lì in avanti non fosse che il desiderio di battere Merckx, una balena bianca inseguita invano sulle strade di Francia. Nel Tour successivo sarebbe stato frenato da una caduta prima e una bronchite poi; nel 1973 avrebbe dominato come Merckx ma senza Eddy, impegnato in altri progetti (Giro e Vuelta). E allora Luis si chiese se fosse davvero una vittoria, non potendo primeggiare sul rivale prediletto.
Ad accompagnarlo, dopo il ritiro, una depressione pronta a esplodere nei momenti peggiori; un incidente stradale che lo privò dell’occhio sinistro; un amore tormentato, con una donna diversa da quella che aveva sposato e non aveva comunque mai lasciato. Fino a quel colpo alla tempia sinistra, lui che non era mancino, l’ennesima contraddizione di una vita fuori dagli schemi. Per alcuni, l’indizio che non fosse un suicidio, per quanto perfettamente coerente con il breve e tumultuoso corso della sua esistenza. Oggi, in un giorno di fine estate del 2020, così fuori copione per la storia della Grande Boucle, la carovana del Tour ha di nuovo l’arrivo a Orcières-Merlette. Chissà se qualcuno, lì dove la strada sale, magari baciata dal sole, con i rami degli alberi solleticati da un vento leggero, sentirà il peso della storia e si ricorderà che un giorno, 49 anni fa, su quelle rampe dolci, Luis Ocaña fu un uomo felice.