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Nulla fa più male della verità
24 mar 2015
24 mar 2015
Morti e resurrezioni di Paul Pierce, The Truth.
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«There is no coming to consciousness without pain» - Carl Jung

Nel manuale dell'Accademico Scrittore Di Biografie, la prima pagina recita che occorre partire dalla nascita di un personaggio, percorrendo senza soste il suo cammino di vita al fine di rendere un ritratto quanto meno apprezzabile dell'oggetto di studio.

Quello che mi ha sempre stuzzicato dell'idea di scrivere di Paul Pierce è di poter iniziare così: «Paul Pierce muore per la prima volta in una sera di settembre a 23 anni di età». È la frase più interessante per parlare di un giocatore che è cresciuto nel cuore della Los Angeles gialloviola sognando Magic Johnson ed è finito per diventare il capitano dei Celtics per 14 anni. Uno che ha vinto un anello e un MVP delle Finali battendo negli stessi playoff LeBron James e Kobe Bryant.

Uno che, in biancoverde, ha segnato più punti e giocato più partite di Bird, ma senza riuscire ad essere visto come il miglior giocatore dei Celtics di sempre. Forse nemmeno nei primi tre.

Uno di cui si ricorda sempre la seraficità nei movimenti, mentre nessuno ricorda che ha quasi vinto uno Slam Dunk Contest contro Vince Carter.

25 Settembre 2000, Buzz Club, Boston.

The Source stava per affacciarsi all'alba del nuovo millennio come il mensile di riferimento per la scena hip hop, vantando traduzioni in francese, un franchise latino e uno israeliano, oltre che numerose collaborazioni televisive. Tanto per stereotipare la cosa il più possibile, sappiate che durante i primi Source Awards (non trasmessi in televisione, fortunatamente) il pubblico poté assistere alle seguenti scene: 1) Tupac che elude la security e sale sul palco per fermare la performance dei A Tribe Called Quest e 2) gli Onyx che nel mezzo della canzone "Throw Ya Gunz" si sfilano le pistole dalle mutande e si mettono a sparare in aria davanti al pubblico. Nel 2000 gli Awards vennero interrotti dopo 5 premi consegnati a causa di una gigantesca rissa che interruppe lo show e rese il prodotto invendibile a qualunque emittente televisiva.

La rivista era nella parte crescente della parabola del successo quando uno dei protagonisti della nostra vicenda, il rapper Raymond Scott, conosciuto col nome d'arte di Benzino, ne divenne il coproprietario.

Benzino è un personaggio verghiano, ma nato e cresciuto nei sobborghi americani invece che nella Sicilia rurale. Ha forzato diversi giochi di potere per assumere una posizione di comando di The Source e, una volta lì, ha provato a sfruttare quella posizione per rilanciare la sua carriera. Un tempo ricevere una recensione da “5 microfoni” di Source era la massima riconoscenza che un artista hip hop potesse ottenere. Benzino nel '99 riuscì a far recensire con 4 microfoni e mezzo il catastrofico Classic Limited Edition dei Made Men, il suo gruppo di scarso successo. Da quell'articolo in poi, la fama del giornale iniziò a precipitare senza più riprendersi. Nel 2002, con il solo scopo di cercare attenzioni, cercò di entrare in un feud con Eminem, venendo però massacrato.

Benzino si trovava sulla scena del crimine quella sera del 25 settembre al Buzz Club di Boston, assieme ad alcuni suoi compagni dei Made Man. Quella sera, in quel locale, c’era anche Paul Pierce.

Da questo punto in poi le cronache della serata si fanno fortemente discordanti, rendendo difficilissimo raccontare con esattezza lo svolgersi dei fatti.

Ciò che sembra sia successo è che quella sera Pierce stesse ricevendo l'attenzione della maggior parte delle signorine del locale, comprese due legate in qualche modo al gruppo di Benzino. La versione, secondo Pierce è questa: «C'erano un paio di ragazze, mi sono fermato a salutarle e l’unica cosa che ricordo del seguito è che mi sono ritrovato in una rissa con qualcuno. È successo tutto talmente in fretta che non so nemmeno dire quanto è durato».

Pierce venne colpito dietro la testa con una bottiglia e poi accoltellato undici volte tra schiena, collo e volto. Segue il trasporto d’emergenza all'ospedale, con il presentimento che non si risveglierà più.

Due cose gli hanno salvato la vita: la prima è che il Club era a pochissimi minuti dal New England Medical Center, il che gli ha permesso di ricevere le cure necessarie prima di perdere un'enorme quantità di sangue. La seconda è la giacca di pelle che indossava: lo spessore della pelle infatti ha impedito alle lame di raggiungere gli organi vitali, nonostante la ferita più profonda sia stata di 18 centimetri. Ovviamente un'insana dose di fortuna ha contribuito al tutto.

«Non è una cosa che si dimentica. Sono fortunato ad essere qui. Mi sento molto più vecchio per il semplice fatto che ho avuto un incontro ravvicinato con la morte e ho visto la mia vita passarmi davanti agli occhi. Si cresce 10 volte più in fretta» - 2008, Sports Illustrated.

Paul Pierce morì (o quasi) a 35 giorni dall'inizio del campionato. Quella stagione giocò tutte le 82 partite della regular season NBA.

Not as Green as you may think

«Yeah, Inglewood, Inglewood always up to no good» - Tupac feat. Dr. Dre - California Love

C'è un detto che recita così: «A Inglewood puoi fare solo due cose: o spari o giochi a basket». Ci sono strade su cui puoi camminare a testa alta se sei un giocatore di basket, mentre se non lo sei non puoi camminarci e basta. È una questione di rispetto. Durante una partita di playoff contro Atlanta del 2008, Pierce venne multato con 25.000 $ dalla Lega per aver risposto ad un'esultanza dell'allora rookie Al Horford. Pierce si era avvicinato alla panchina degli Hawks disegnando un cerchio con la rotazione di pollice e indice della mano destra e indicandolo con tre dita della mano sinistra. È un segno di sangue ad Inglewood. Stava avvertendo il ragazzino che stava facendo incazzare la persona sbagliata.

Ad Inglewood si venerava una religione ed una soltanto: i Los Angeles Lakers e il loro profeta Earvin Magic Johnson. La città non solo aveva dato i natali all'attuale allenatore gialloviola Byron Scott e all'ex allenatore Reggie Theus, ma spesso i Lakers usavano la palestra della scuola per i loro allenamenti estivi. Non era inusuale vedere Magic guidare delle auto sportive attorno alle vie del centro. Pierce era arrivato ad Inglewood con la madre e due fratellastri alla fine delle elementari e fu subito indottrinato alla religione locale. Anche i fratellastri (Jamal e Steve Hosey) erano sportivi, con Steve che riuscì anche a crearsi una carriera nel baseball, venendo scelto al primo giro dai Cleveland Indians, con fortune alterne.

Ogni mattina alle 5:30 Pierce si alzava dal letto, passava eventualmente a svegliare un paio di amici a bordo della sua Datsun 210 marrone e si recava con loro al liceo di Inglewood. Una volta a scuola i ragazzini venivano accolti da Scott Pollard, poliziotto di professione e assistente allenatore del liceo for the love of the game.

Scott apriva la palestra e dirigeva l'allenamento, in genere con un gioco chiamato "Out", nel quale due giocatori si sfidano 1 vs 1 e chi subisce canestro viene immediatamente sostituito da un altro giocatore a bordo campo. Dopo un'oretta di allenamento Scott portava tutti al bar per offrire loro la Colazione del Poliziotto™: caffè nero e ciambelle. Pierce si recava quindi in classe sudato fradicio e con la bocca impolverata di zucchero a velo. Era diventata un'abitudine tale da meritarsi anche un nome: "The Morning Session".

Lo sport ha accompagnato Pierce per tutta la gioventù, con punte di eccellenza nella pallavolo, il bowling e ovviamente il basket. La mancanza di una figura paterna non era per nulla una novità in quella zona: dei 15 compagni di squadra al liceo, solo 2 avevano un padre che li aspettava a casa. È proprio per quello che Scott Pollard, oggi investigatore, si prese a cuore quei ragazzini e provato ad essere un esempio per loro.

Ma la verità, al tempo, era che "The Truth" era sotto la media come giocatore di basket. E nemmeno di poco. Il primo anno non arrivò nemmeno in prima squadra, ci riuscì solo nell'anno da sophomore. A malapena.

L'allenatore Patrick Roy era quello con più dubbi su Paul. Voleva cacciarlo dalla prima squadra durante la pausa estiva, ma in quel periodo vennero a mancare 5 giocatori tutti assieme e così si vide costretto a tenerlo nel gruppo ancora per un po'. Con parecchie ore di duro lavoro, Pierce migliorò moltissimo la sua tecnica, così da sopperire alle mancanze di un fisico sotto gli standard. Gli sforzi però non vennero riconosciuti dall'allenatore per diverso tempo.

Durante la prima partita del torneo estivo, Inglewood High si ritrova sotto di quasi venti punti nel secondo quarto. Verso la fine del terzo, a partita abbondantemente persa, Roy decide di far esordire Pierce con la consapevolezza che in ogni caso non avrebbe potuto compromettere nulla. Pierce segna 21 punti, con 9 rimbalzi e 6 assist in poco più di un quarto di gioco, facendo vincere la partita alla sua squadra. Non lasciò più il quintetto base. Qualche anno dopo, al termine di una partita dei Celtics a L.A., Roy si fece trovare fuori dallo spogliatoio assieme a famiglie e amici. Quando Pierce lo riconobbe richiamò l'attenzione di tutti i presenti urlando: «Signori, questo è il mio allenatore del liceo, l'uomo che mi ha fatto fuori dalla squadra». L'umorismo ampiamente discutibile è P-Squared™.

Nel suo anno da Senior Pierce cresce moltissimo, passando da un'altezza di 1.73 m a 1.98 m, con un fisico molto più definito. Porta Inglewood ai campionati statali guadagnandosi una borsa di studio per Kansas, dove avrebbe giocato alle dipendenze del leggendario coach Roy Williams.

La sua carriera sul parquet al college risulterà molto più semplice rispetto a quella del liceo. Williams lo vede da subito come il pezzo mancante per la sua squadra e costruisce i suoi giochi attorno a lui. Paul entra nel panorama collegiale dalla porta principale vincendo il trofeo di Freshman dell’Anno nel ’96, due trofei di MVP della Big 12 consecutivi e la nomina ad All-American dopo la stagione da Junior. «The bigger the game, the bigger he played».

Alla fine del suo anno da Junior era ormai giunto il momento di fare un balzo in avanti nella sua carriera.

Estate 1998, Boston.

«Michael, Mike, Raef, Antawn, Vince, Robert, Jason, Larry, Dirk».

Un nome per ogni tiro, poi un suicidio dall'altra parte del campo e poi di corsa a ripetere quei nomi tirando.

«Michael, Mike, Raef, Antawn, Vince, Robert, Jason, Larry, Dirk».

Quei 9 Nomi dell’Odio sono quelli di Olowokandi, Bibby, Carter, Nowitzki e gli altri cinque giocatori che furono scelti prima di lui al Draft di quell'anno. È una questione di rispetto, come direbbero a Inglewood. La routine mattutina era cambiata parecchio, di sicuro le ciambelle impolverate di zucchero erano fuori dal menù.

Pierce venne selezionato dai Boston Celtics, una squadra che non l'aveva provinato nemmeno una volta prima del Draft, ma che decise di scommettere comunque sul suo talento. «Quando toccò a noi scegliere» disse l'allora GM Chris Wallace, «non avevamo Pierce nel nostro piano A, né tantomeno nelle lettere seguenti».

Si ritrovò così a giocare quasi per caso per la squadra che aveva tanto detestato da ragazzino, a calcare lo stesso parquet di Larry Legend e Bill Russell, nel palazzetto dove si consumarono alcune delle più dolorose sconfitte gialloviola.

Dalla primissima partita Pierce provò a riempire le enormi scarpe di chi lo aveva preceduto. Segnò 19 o più punti in dieci delle prime undici partite da titolare. Finì però terzo nelle votazioni del rookie dell'anno, vinto da Vince Carter, il quinto dei nove Nomi dell’Odio.

Pierce, dopo l'iniziale stagione da 16.4 punti di media, ne fece registrare una da 19.2 l'anno seguente, stabilendosi già al secondo anno come uno dei migliori realizzatori della NBA. Il secondo ritiro di Jordan nel 1998 diede inizio a una decade dove il talento medio nella NBA calò moltissimo, ma le punte di eccellenza rimasero tali e le prestazioni di Pierce sono ancora oggi impressionanti.

Al terzo anno era giunto infine il momento di sbocciare definitivamente: Pierce promise a Beyond the Glory che sarebbe stato l'anno in cui avrebbe «scatenato il dragone». E poi arrivò la notte del 25 settembre, la lite con Benzino e la sua banda, la corsa al New England General Hospital e sopravvivere alla nottata era tutt’altro che scontato.

1 Novembre 2001, TD Garden, Boston.

«Starting at forward, 6 foot 7 from Kansas, number 34, Paul Pierce».

Pierce partì titolare alla prima partita dopo l'incidente, e fece lo stesso per le seguenti 81 quella stagione. Quella che sarà, sotto tutti i punti di vista, la migliore della sua carriera.

La sera della prima partita Pierce mette a segno 28 punti, conditi da 6 rimbalzi e 5 assist. In quella stagione finirà sopra i 30 punti per 23 volte, di cui 8 volte sopra i 40.

La partita che lo consegna alla storia fu una di marzo contro i Lakers, ovviamente. Quelli che erano i suoi Lakers. I Celtics persero 112-107, ma Pierce ne fece 42. Shaquille O'Neal, "The big Aristotele", dopo la partita prese un giornalista per il colletto, lo avvicinò al corpo indicandogli col ditone il suo taccuino e riferì la seguente frase: «Mettilo nero su bianco. Il mio nome è Shaquille O'Neal e Paul Pierce è la fottuta Verità. Firmalo a mio nome e non tralasciare nulla. Sapevo che era forte, ma non avevo idea che potesse giocare così. Paul Pierce è "The Truth"». Così nascono le leggende.

I successi però tardarono ad arrivare, specialmente quelli a livello di squadra. Nel 2002 Pierce guidò i Celtics assieme ad Antoine Walker alle finali di conference contro i New Jersey Nets, i primi Celtics decenti dopo aver draftato Eric Montross (vi ricordate di quando Montross sembrava un buon giocatore? Nemmeno io). L'allenatore dell'epoca era Jim O'Brien, a livello offensivo uno dei più insipidi dell'intero panorama statunitense.

Gli unici giochi designati erano:

- Pierce in uscita dai blocchi;

- 'Toine tira da 3 qualunque cosa gli passi per le mani.

Oggi con un playbook del genere si farebbe fatica a vincere 10 partite.

In gara-3 i Celtics rimontarono un parziale di 21 punti nel quarto periodo, record nei playoff ancora oggi. Pierce attaccò a testa bassa per tutto il quarto, andando di continuo in lunetta, mettendo a segno 19 punti dei suoi 28 totali in quei dodici minuti. Quella fu l'ultima partita di playoff vinta dai Celtics per 6 lunghi anni.

Giugno 2008, TD Garden, Boston.

L'immagine di Pierce che solleva il trofeo di MVP delle Finali è la degna conclusione degli ultimi rocamboleschi dodici mesi di carriera, e anche degli ultimi 6 anni di NBA in generale. Nemmeno un anno prima i Celtics erano sprofondati di nuovo nel baratro della classifica: "The Truth" giocò solo 47 partite per infortunio e durante la sua assenza i Celtics ne persero anche 18 consecutive. Nemmeno la Lottery del Draft sorrise ai biancoverdi, che si videro soffiare i premi più ambiti (Greg Oden e Kevin Durant) da Portland e Seattle, rimanendo con un’interlocutoria quinta scelta assoluta.

Pierce era ormai bloccato da molti anni in una squadra con giocatori troppo giovani, troppo scarsi o tutte e due le cose. Aveva vinto la classifica marcatori un anno, ed era diventato All-Star quattro volte in quel periodo, ma i Celtics non erano mai stati nulla più di una squadra mediocre. Lui stesso era arrivato a dire, nel modo molto poco simpatico che è specialità della casa, che si trattava del «classico caso di ottimo giocatore in una pessima squadra. E questo fa schifo!». Classic P-Squared™.

I Celtics nell'estate del 2008 decisero di mettere mano al proprio roster e cambiare tutto. Con due trade scioccanti cedettero praticamente mezza squadra per mettere le mani su Ray Allen e Kevin Garnett, due giocatori che vivevano la stessa identica situazione di Pierce in due squadre diverse. Il resto del roster fu colmato durante l'anno con veterani (James Posey, P.J. Brown, Sam Cassell) e mantenendo alcuni dei giovani più promettenti (Rajon Rondo, Tony Allen, Kendrick Perkins).

Doc Rivers saldò il gruppo con la tournée estiva in Italia, siglando quello che venne definito da alcuni “Il Patto di Roma" (il che ha partorito una delle foto più belle ever).

I Celtics quell'anno vinsero numerose partite grazie ad una difesa asfissiante, soffocando le avversarie una dopo l'altra. LeBron perse la sua prima serie contro i Celtics in quell'anno lì, dando il via ad una delle rivalità più interessanti degli ultimi anni. Verso fine stagione, anche l'attacco dei biancoverdi iniziò a ingranare.

Rivers praticava un sistema offensivo, o per meglio dire un sistema filosofico, chiamato "Ubuntu”, come il celebre OS di Linux. Ubuntu è una parola africana che significa “collaborazione” e “lavoro di squadra”: Pierce si adeguò a tale sistema limitando moltissimo i tiri su cui si era costruito le sue fortune da scorer, i "long two", in favore di un aumento di attacchi attorno al ferro e da tre punti. Inoltre, gli enormi spazi che gli venivano concessi grazie alla presenza delle altre due superstar fecero crescere in maniera significativa la sua percentuale realizzativa.

Le finali NBA non potevano che consumarsi contro i Lakers, onnipresenti nella sua storia, mentre la Lega si fregava le mani per il ritorno della rivalità a cui Paul aveva assistito da bambino, nel televisore a tubo catodico della 105.esima a Inglewood.

Visti oggi quei Celtics possono sembrare un grande successo e anche un grande rammarico. I numerosi infortuni che li hanno bloccati nel 2009, la finale persa a gara-7 contro i Lakers (ovviamente) due anni dopo e il lento logoramento fisico dei Big Three quando la carriera di Rondo era all'apice lasciano moltissimo amaro in bocca, per quanto siano andati ad una vittoria dal tornare in finale nel 2012, prima che LeBron ascendesse nell’alto dei cieli con una gara-6 da 45-15-5.

Poco importa ciò che si pensa: la verità alla fine è che i Big Three verranno comunque ricordati come una delle migliori squadre di Boston, che Pierce è stato la loro bandiera per quasi tre lustri, e che insieme hanno vinto il 17.esimo titolo della franchigia, la più titolata dello sport professionistico americano.

Pierce nei suoi ultimi anni al Garden è riuscito pure a raggiungere un traguardo impensabile, superare Larry Bird in punti segnati in biancoverde. Il record non è inaspettato se lo si guarda sotto il profilo tecnico: nelle dieci migliori stagioni realizzative messe a segno da un giocatore di Boston, Pierce compare quattro volte. Il record rappresenta una cosa in particolare: Pierce ha giocato un'enormità di partite con quella canotta, molte più di quante un qualunque ragazzino di Inglewood potesse mai immaginare.

Quando Ray Allen lasciò Boston per i Miami Heat nel 2012, l'era dei Big Three era ufficialmente terminata. Nella stagione seguente Danny Ainge smembrò la squadra per un futuro più roseo, spedendo KG e Pierce ai Brooklyn Nets. Prokhorov aveva promesso ai Nets un titolo entro 5 anni dal suo acquisto, e i due veterani dovevano essere il tassello mancante per l'anello. Sebbene l'età del roster rendesse scettici tutti e le promesse di titolo non vennero mantenute, la stagione di Brooklyn non fu affatto da buttare, raggiungendo un secondo turno di playoff. Pierce risultò decisivo nella serie contro una Toronto giovane e in rampa di lancio, stoppando Kyle Lowry nell'ultimo tiro di gara-7 e prendendo per i capelli una partita che stava sfuggendo di mano e vincendola nel classico stile Truth.

«This is why they got me here, this is why I'm here!».

I Nets si arresero nel turno seguente agli Heat di LeBron, una squadra e un giocatore che negli ultimi anni gli ha restituito tutte le batoste subite in biancoverde in passato.

La scorsa estate, nella prima stagione della sua carriera da free agent, Pierce ha deciso di lasciare Brooklyn per assumere un ruolo da veterano agli Washington Wizards, completando il backcourt giovanissimo di Bradley Beal e John Wall. I risultati dei Wiz, fino ad oggi, sono stati altalenanti.

Il rispetto che si porta a Pierce non deriva certamente da simpatie personali. Durante la sua carriera decennale infatti è stata messa più volte sotto questione la sua maturità. George Karl lo aveva criticato apertamente dopo il disastroso sesto posto degli USA ai campionati mondiali del 2002; una volta è stato espulso nei minuti finali di una partita di playoff e si è messo ad urlare in faccia a Doc Rivers. Alcuni gli contestano pure l'uscita in sedia a rotelle dopo uno scontro di gioco in gara-1 delle Finali contro L.A., salvo rientrare dopo pochi minuti (guarigione miracolosa o sindrome di emulazione di Willis Reed?).

«Hate the man, despise the player, respect the game» si dice negli States; se si lascia parlare il gioco di Pierce piuttosto che le sue vicissitudini personali, il quadro può sembrare incompleto, ma senza alcun dubbio positivo.

C'è inevitabilmente una netiquette che deriva dalla vita di strada, e come si può prendere le distanze dal luogo in cui un uomo è cresciuto? Semplicemente non si può. Ovviamente ciascuno di noi prende strade diverse dalle persone con cui è cresciuto pur non negando le proprie origini, o come suona bene in questa storia, «being true to their roots».

Epilogo: 17 Dicembre 2010, Madison Square Garden, New York.

«Segnare quel tiro davanti ad un Garden strapieno... non c’è niente di meglio», parola sua.

Guardare Paul Pierce nei secondi finali di una partita, palla in mano, è una delle poche esperienze che risultano sempre sorprendenti nonostante si conosca già il risultato. In genere, in questo sport, l’ala piccola deve essere un lampo, una macchina da highlights, con un primo passo esplosivo in grado di andare dietro le spalle di chiunque o saltare sopra qualche testa. Pierce non fa nulla di tutto ciò. Non è elegante nelle movenze. Non è spettacolare. Non è veloce. Non c'è mai il rischio di perdersi qualcosa di quello che fa e che solo un replay può farti apprezzare. Eppure è in grado ogni sera di portare a casa quello che vuole, che sia un jumper, una penetrazione a canestro, una difesa agguerrita o semplicemente la giocata giusta. Chiunque sia il suo marcatore, qualunque cosa faccia, PP non cambia mai il suo passo, la sua andatura. Mantiene il suo ritmo, muove il corpo quel tanto che basta per sbilanciare l'avversario e prendere esattamente quanto spazio gli serve. Poi punta i piedi, piega la schiena leggermente indietro e carica il tiro, senza affrettare l'esecuzione.

È difficile da descrivere, è sicuramente lontano dal concetto di "veloce", ma non è nemmeno così aderente a quello di "lento". Sono 15 anni che Pierce esegue gli stessi identici movimenti, e sono 15 anni che chiunque è costretto a pagare pegno. Uno così poteva giocare solo a Boston, dove più che lo spettacolo, più che l'eleganza, contano la grinta e la forza d'animo.

E mentre guardi la parabola leggermente alta scendere fino a dentro la retina, col rumore della sirena che riempie il silenzio religioso dell'arena e i led rossi che illuminano il tabellone di vetro ripensi alla notte che ha veramente cambiato la carriera e la sua vita.

La notte in cui Paul Pierce è morto per la prima volta.

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