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Federico Principi
Novak Djokovic vuole prendersi tutti i record
30 gen 2023
30 gen 2023
Il tennista serbo ha vinto gli Australian Open e adesso punta al record assoluto di vittorie negli Slam.
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Federico Principi
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Paul Zimmer/IMAGO
(foto) Paul Zimmer/IMAGO
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Quando Novak Djokovic dominò la stagione 2011, quando aveva 24 anni, si poteva pensare che quell’irreale intensità psico-fisica di gioco non fosse più replicabile, neanche per lui stesso. Poi è arrivato il 2015 e il concetto di dominio ha assunto una conformazione diversa, come del resto diversa resterà dopo questa epoca segnata dai Big 3. Quest'anno, incredibilmente, Djokovic è riuscito a compiere un ulteriore salto di qualità, chissà se ultimo, un salto di qualità che a quasi 36 anni, nelle partite più importanti, lo rende quasi invincibile.

La vittoria di Djokovic agli Australian Open per la decima volta – dopo che da anni ci siamo già abituati a vedere un numero in doppia cifra di titoli nello stesso Slam, ovvero i Roland Garros di Rafa Nadal che ora sono diventati 14 – non sorprende più neanche così tanto un pubblico ormai abituato a dover cambiare le coordinate statistiche di record e successi. Ma se il terreno era già stato solcato in precedenza dagli altri due supercampioni, Djokovic sta passando sopra le stesse orme degli altri riuscendo a portare a termine la sua missione, sotto tutti i punti di vista: non solo quella di essere il tennista con più titoli in assoluto, ma di sconfiggere Federer e Nadal anche sul piano della longevità.

Il modo in cui ha saputo gestire l’infortunio durante il torneo e in cui ormai sembra inarrivabile nelle partite più importanti, immune a qualsiasi tipo di pressione, ci dice molto sulla sua ultima evoluzione che passa inevitabilmente sul piano psicologico. La programmazione maniacale di Djokovic, più volte rimarcata anche da Ivanisevic, ha portato ormai la sua mente ad automatizzare la gestione di qualsiasi aspetto del suo gioco all’interno di ogni contesto e in relazione alla sua importanza.

È come se conoscesse esattamente la quantità delle proprie energie visualizzandole su un pc e programmandole in maniera assolutamente scientifica nell’arco di una stagione, di un torneo, di una partita, di un set. Djokovic è una macchina di Formula 1 che ha qualche cavallo in meno rispetto al periodo 2011-2015, ma che ora ha una conoscenza molto più approfondita dei propri dati per poter così massimizzare l’utilizzo della propria potenza nei momenti più importanti del Gran Premio, nei giri da qualifica o nei giri cruciali della gara, facendo respirare un po’ il motore quando necessario. Solo così, con picchi atletici mai mostrati da nessun tennista alla sua età, Djokovic ha potuto candidarsi ormai come favorito al ruolo di recordman di Slam della storia del tennis.

La longevità programmata

Novak Djokovic ha vinto gli Australian Open 2023 all’età di 35 anni, 8 mesi e 7 giorni. Quando Federer li vinse nel 2017 aveva solamente 3 mesi in meno di età e tutti si stupirono per la clamorosa evoluzione tecnica sul rovescio che riuscì a compiere a quell’età, in poche settimane, durante la pausa che si prese nella seconda metà del 2016. Federer ha vinto il suo ultimo Slam sempre a Melbourne, un anno dopo, a 36 anni, 5 mesi e 20 giorni: un altro record dell’era Open che Djokovic, se vincesse un qualsiasi Slam nel 2024, può avere in mente di battere (anche se prima proverà a farlo Nadal al prossimo Roland Garros a 37 anni).

I migliori punti della finale di Melbourne di ieri contro Tsitsipas.

Da sempre Federer è stato un apripista per tutti gli altri tennisti – non solo i Big 3 – in fatto di longevità, il primo ad essersi spinto così in là con gli anni distorcendo la storia del tennis per come la conoscevamo fino a quel momento. Era però più facile aspettarsi da lui una coda di carriera da over 35 rispetto agli altri due fenomeni per un evidente modo diverso di stare in campo, di chiedere sforzi al proprio fisico.

Tutti e tre hanno avuto un periodo di digiuno da vittorie Slam, non sempre motivato esclusivamente dalle vittorie degli altri quanto piuttosto anche per un’iniziale fase di logoramento. Federer ha mancato successi Slam dal 2013 al 2016 compresi, Nadal nel 2015 e nel 2016, Djokovic ha bucato due anni consecutivi dal Roland Garros 2016 a Wimbledon 2018. Non potendo inevitabilmente ritrovare la completa brillantezza della fase migliore della loro carriera, tutti e tre sono però usciti rafforzati da questi periodi di magra in altri aspetti: quello tecnico, soprattutto per Nadal e Federer e in particolare dal lato del rovescio, e quello mentale.

Quante volte abbiamo visto di recente Djokovic perdere partite al meglio dei 3 set per poi improvvisamente ritrovare il suo livello massimo negli Slam? Negli ultimi anni perfino alle ATP Finals sono arrivate sconfitte inattese o fragorose, e non casualmente è tornato a vincerle la scorsa stagione dopo aver saltato più di metà anno, compreso l’ultimo Slam a New York. Djokovic ha ormai capito perfettamente quante energie ha da spendere nell’arco di un anno, e ha deciso di canalizzarle tutte sugli Slam: prova è che nel 2021 ha destinato parte di esse alle Olimpiadi e questo gli è costato il Grande Slam. L’anno scorso, vista l’assenza allo US Open, ha potuto conservare benzina nel serbatoio per concludere tutta l’ultima parte di stagione praticamente da imbattuto, e anche in quel caso attraverso match difficili a Torino che hanno ricordato sinistramente la sua invincibilità nei Major.

Da Wimbledon 2018, compreso, Djokovic ha perso negli Slam solamente 6 partite, di cui una per squalifica – contro Carreño Busta allo US Open 2020 – una per infortunio, sempre a New York ma nel 2019 contro Wawrinka, e due contro Nadal al Roland Garros per ovvi motivi. Si potrebbero imputare maggiormente le sconfitte contro Thiem a Parigi nel 2019, comunque al quinto set e contro un avversario al suo apice fisico e nella propria superficie migliore, e quella contro Medvedev allo US Open 2021, nella finale che avrebbe dovuto consegnargli il Grande Slam e nella quale è invece caduto sotto il peso della consunzione psico-fisica.

In questo lasso di tempo Djokovic è sembrato uscire vincitore da qualsiasi situazione, come un computer in grado di processare qualunque tipo di problema. Dagli US Open 2020 a Wimbledon 2022, compresi, Djokovic ha vinto 5 Major pur perdendo il primo set in 18 partite su 4o giocate negli Slam, escludendo quella contro Carreño a New York 2020 in cui la squalifica è arrivata prima della fine del primo set – che stava comunque perdendo. Tre volte in queste 40 partite è riuscito a rimontare sotto due set a zero e vincere al quinto: purtroppo due volte contro italiani – contro Sinner all’ultimo Wimbledon e contro Musetti a Parigi 2021 – e nella finale contro Tsitsipas sempre a Parigi 2021, forse il torneo dove la sua forza mentale è venuta fuori come mai prima nella sua carriera.

Djokovic ha dato l’impressione di assoluta consapevolezza che quel primo set perso fosse solamente la prima fase di studio della partita, attraverso la quale prendere il ritmo giusto per poi fare la differenza. A New York nel 2021 queste ore in più passate sul campo gli sono costate carissime, ma è come se ormai facessero parte del suo percorso necessario per trovare il suo picco di gioco nel corso del match e dei suoi momenti più importanti.

Anche in quella che probabilmente è stata la migliore partita della sua vita, la semifinale del Roland Garros 2021 contro Nadal, Djokovic ha giocato tre set – anche in quel caso dopo aver perso il primo – con una continuità spaventosa, con un’intensità simile a quella del 2011 ma con molta più esperienza per gestire tutte le situazioni più difficili. E il fattore della gestione è tornato di grande attualità in questo ultimo Australian Open, nel quale ha saputo ricalibrare il proprio limite soprattutto nel match di secondo turno contro Couacaud, dando l’impressione di non essere in grado di vincere il titolo semplicemente perché stava già programmando le energie per le partite successive, evitando un eccessivo utilizzo del proprio corpo.

È come se Djokovic abbia acquisito poteri soprannaturali, capacità di premonizioni, di visione del futuro. Se è vero che le partite di tennis si giocano prima nella testa dei due giocatori e poi in campo, se il potere della visualizzazione anticipata è così forte, Djokovic sta portando il gioco a un livello mentale forse addirittura superiore a quello mostrato da Nadal: non tanto e non solo dal punto di vista agonistico, della capacità di “trovare l’alba dentro l’imbrunire”, dove lo spagnolo è forse il massimo esempio nella storia dello sport, quanto soprattutto nella lettura, nella programmazione, nella visione lungimirante.

Le aspettative per il finale di carriera

La cosa più straordinaria dell’efficienza di Djokovic a quasi 36 anni sta nel fatto che, a differenza di molti altri big compresi Nadal e Federer, il serbo non abbia un vero e proprio colpo killer con il quale, anche in maniera estemporanea, possa lasciare fermo l’avversario respirando un po’. La sensazione che continua a lasciare sul campo Djokovic, nonostante i visibili piccoli miglioramenti al servizio e al dritto anche in queste ultime stagioni, è che ogni suo singolo punto sia faticoso e frutto di una catena costante, precisa e ragionata di colpi.

Per fare un paragone calcistico, Djokovic è come una squadra di calcio che ha bisogno che ogni giocatore sia in campo con massima intensità e che non ha invece la possibilità di respirare grazie al fraseggio libero o alla giocata fulminante della propria stella. Eppure questo rischia di far passare sottotraccia quanto Djokovic sia in realtà fortissimo tecnicamente, quanto la sua continuità sia frutto di straordinaria precisione e sicurezza di tutti i propri colpi. E la pressione costante che mette nel gioco, la frequenza sempre altissima pur senza strappi improvvisi, sono direttamente proporzionate all’ansia che questo fattore inevitabilmente genera ai suoi avversari.

Molti hanno rimproverato a Tsitsipas di aver commesso degli errori banali con il dritto, il suo colpo migliore, nel cruciale tie-break della finale di ieri. Che cos’è questa se non l’inevitabile conseguenza dell’affrontare un avversario che per ore e ore si dimostra in grado di appoggiarsi su qualsiasi palla, rimpicciolendo la visione del campo al giocatore offensivo? Dopotutto Federer contro Nadal, soprattutto sulla terra, e perfino lo stesso Djokovic in alcune fasi sempre contro Nadal sul rosso o contro Medvedev, non sono mai caduti nella stessa trappola?

Questa ultima evoluzione di Djokovic, capace di conservare al massimo il suo fisico e il suo gioco, si va ormai a contrapporre a quella di Nadal che mai come in questa fase storica ha dimostrato di aver chiesto davvero tanto, forse troppo, al suo corpo. Chissà, forse già da tempo lo spagnolo ha messo il cuore in pace sul fatto che davvero, per inseguire questo record di Slam, ha dato tutto quello che aveva. Come avviene in tutti gli sport, chi arriva dopo prova a sviluppare le caratteristiche per battere chi c’era prima: pur essendo Nadal e Djokovic quasi coetanei, si è avuta l’impressione che i Big 3, in ordine cronologico di comparsa sul grande palcoscenico, siano stati programmati l’uno per contrastare l’altro, il successivo per superare il precedente. Con la probabile conseguenza che sarà il terzo, in ordine di tempo, a prendersi tutti i record.

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