Pubblichiamo un estratto del libro "Not a game. Storia di Allen Iverson, il ribelle della Nba" scritto da Kent Babb per 66th and 2nd.
Dall’angolo tornò palleggiando verso il centro del campo, fermandosi fuori dall’arco. Gli spettatori erano tutti in piedi. Che ne fossero consapevoli o meno, stavano assistendo al cambio della guardia, al passaggio di testimone tra il vecchio e il nuovo: Allen Iverson, ventun anni, di fronte a Michael Jordan, trentaquattro, il suo modello e l’immagine della Nba dell’epoca.
«Michael!» gridò l’allenatore dei Chicago Bulls, Phil Jackson. Era il marzo del 1997. «Stagli addosso!». Quando Jordan aumentò la pressione difensiva nei suoi confronti, Iverson si fece passare il pallone tra le gambe e si arrestò. Jordan, uno dei migliori difensori della lega, aspettava con le mani sulle cosce. All’incirca un anno prima, Allen aveva detto agli amici che quando avrebbe raggiunto il palcoscenico cestistico per eccellenza, e si sarebbe trovato di fronte la sua stella più luminosa, avrebbe messo in pratica il crossover imparato dal compagno di Georgetown Dean Berry e perfezionato durante le partite della Big East. Se fosse riuscito a battere Jordan, allora avrebbe potuto battere chiunque.
E il momento tanto atteso era arrivato, alla cinquantasettesima gara della sua breve carriera tra i professionisti. Iverson scartò verso sinistra e il suo marcatore andò a destra: un antipasto del crossover, proprio come gli aveva insegnato Berry. «Come da manuale» avrebbe commentato in seguito il maestro, anni dopo aver visto l’allievo alle prese con l’esame più probante. Poi, dopo un’altra breve pausa, fece rimbalzare la palla molto in alto e si piegò in maniera brusca a sinistra. Jordan lo seguì anche questa volta, ma nel frattempo il rookie aveva già spostato corpo e pallone dall’altra parte fermandosi all’altezza della lunetta e facendo partire un tiro in sospensione. Ed ecco che aveva appena fregato il più grande giocatore della storia.
A Hampton, la gente del posto guardò quella giocata e poi continuò a riguardarsela negli highlights. Alcuni di loro, non sapendo che altro fare, uscirono a suonare il clacson. Il loro ragazzo ce l’aveva fatta. Altri incrociavano i conoscenti nei negozi di alimentari e sui marciapiedi e andavano a scambiarsi il cinque con loro, ricordando assieme tutto ciò che il ragazzino di casa aveva dovuto superare prima di poter rifilare un crossover a Michael Jordan.
Non sarebbe cambiato, dicevano nei corridoi, nelle sale d’attesa e nelle palestre. No, Bubba Chuck non sarebbe cambiato, non importa quanto famoso potesse diventare. Sarebbe cambiato prima il basket.
Alla fine degli anni Novanta, l’America stava vivendo un’interessante transizione culturale. I suoi eroi non erano più gli uomini in giacca e cravatta che obbedivano alle regole. Film come Fight Club e American Beauty avevano portato alla ribalta nuovi personaggi ormai stanchi di essere emarginati, la cui missione era colpire il sistema al cuore. Tony Soprano fu il primo di una lunga serie di antieroi televisivi, mentre il wrestler professionista «Stone Cold» Steve Austin rappresentava un nuovo sentimento diffuso nel paese: che le convenzioni potevano e dovevano essere stravolte, facendo il dito medio, tracannandosi fiumi di birra mentre le tradizionali figure che simboleggiavano l’autorità erano trattate come traditori e codardi. La musica aveva capitalizzato quel movimento più di altri fenomeni culturali: all’inizio del decennio, da culti regionali il grunge e l’hip hop erano esplosi a livello nazionale. In quartieri come South Central a Los Angeles e il Bronx a New York, luoghi dove gli eroi erano sempre stati rari, Dre e Biggie tracciavano il sentiero verso una condizione migliore, accessibile a chiunque fosse in grado di tenere botta.
E adesso c’era quel ragazzo con la sua velocità e il suo crossover, il rookie dei Sixers che si comportava esattamente come faceva a casa sua. La sola differenza era che non stava più tutto il tempo agli angoli delle strade, in attesa che qualcuno venisse a prenderlo per portarlo agli allenamenti o gli offrisse un tetto sopra la testa. Adesso era su un jet privato di ritorno dal Sud America, dopo la sua prima tournée all’estero per la Reebok. E Gaskins, anche lui un astro nascente dell’azienda, aveva accettato – seppur a malincuore, se si considera che alla Florida A&M, la sua università, era stato scelto per tenere il discorso di commiato in occasione della cerimonia dei diplomi di laurea e che aveva poi conseguito un master alla prestigiosa Kellogg School of Management della Northwestern University – di fargli da «babysitter». Per l’immediato futuro sarebbe stato l’ombra di Iverson, ovunque andasse. E adesso i due stavano tornando a casa dopo un tour promozionale di tre settimane durante il quale, oltre a dare il via a una nuova collaborazione, avevano anche stretto amicizia.
Iverson gli aveva raccontato la propria storia e Gaskins aveva fatto lo stesso, ricordando l’adolescenza che aveva vissuto nella zona sud-est di Washington D.C. Uno si era lasciato il ghetto alle spalle grazie al cervello, l’altro era scampato alle tentazioni della Penisola grazie alla velocità di gambe. Su un punto erano d’accordo: non importa come uno riesca a sfamarsi, la fame è sempre fame, e la minaccia che potesse tornare continuava ad aleggiare sopra di loro.
«Cazzo, ho i capelli lunghi» esclamò Iverson in un momento di quiete durante il volo. «Guarda quanto sono lunghi».
I due avevano preso l’abitudine di tagliarseli ogni settimana per essere sempre impeccabili.
«Potrei anche lasciarmeli crescere,» proseguì «voglio farmi le treccine».
Gaskins rise senza rispondere subito. Ma dentro di sé il professionista del marketing stava gridando esterrefatto di fronte all’idea di un’acconciatura allora in voga solo tra i detenuti: Amico, sarebbe meglio se non ti facessi quelle treccine. Ma non poteva dirglielo, così decise di incolpare la lega e di ironizzare sull’atteggiamento rigido di Stern.
«La Nba non te lo permetterà mai» disse Gaskins, che però, nell’istante stesso in cui aveva pronunciato quelle parole, si era immediatamente accorto del passo falso appena compiuto.
«Cosa? Non me lo permetteranno?».
Oh-oh, pensò Gaskins.
«Volevi dire che la Reebok non me lo permetterà!» ribatté l’altro.
«Amico, alla Reebok queste cose non interessano proprio».
E così la questione si tramutò in una scommessa: vediamo chi dei due si fa crescere più in fretta i capelli per annodarli in un «hang- time», come i ragazzi di città chiamavano le treccine che arrivano a metà nuca. Nel febbraio del 1997, presentandosi a Cleveland per disputare la partita dei rookie durante l’All-Star Weekend, Iverson sfoggiò per la prima volta un accenno di treccine. Gaskins era seduto da qualche parte all’interno della Gund Arena, anche lui con le treccine ma soprattutto con l’espressione di uno che si chiede in che pasticcio si è cacciato.
Due anni dopo, quando i giocatori tornarono alle rispettive squadre dopo il lockout della Nba, Iverson giunse al camp dei Sixers con una serie di tatuaggi nuovi di zecca venuti a far compagnia al bulldog solitario sulla spalla sinistra. Appena sopra adesso c’era una croce e le parole che secondo lui rappresentavano la sua adolescenza – parole che voleva portare sempre con sé ed esibire come una medaglia al valore: only the strong survive, solo chi è forte sopravvive. «I deboli crollano. E abbandonano» avrebbe dichiarato in seguito nel corso di una video intervista per la rivista «Slam». «Io, di fronte a qualunque sfida, qualunque, farò sempre di tutto per superarla. Non penso che Dio ti metterebbe mai davanti a qualcosa che va oltre le tue possibilità».
Iverson si recava spesso da Body Graphics, a South Philadelphia, e in una di quelle occasioni rese onore alla banda di amici di Hampton facendosi un tatuaggio con la scritta cru thik, immortalata con l’inchiostro blu sull’avambraccio sinistro. Ben presto anche il braccio destro sarebbe stato ricoperto di parole e simboli: hold my own (difendo la mia posizione) sulla spalla, un teschio con indosso un elmetto da guerra sul bicipite e la Morte in agguato sull’avambraccio. Sul petto ora c’erano i nomi dei primi due figli, Tiaura e Deuce, insieme a due mani giunte in segno di preghiera. Per lui non si trattava di semplici elementi estetici; la sua pelle adesso era una tela che raccontava una storia fatta di esperienze, trionfi e filosofie.
«Sapeva perfettamente ciò che voleva» mi ha spiegato Danny Balena, all’epoca uno dei suoi tatuatori di riferimento. «Non era uno di quelli che ti dice: “Non so che mettere qui”. No, lui aveva tutto ben chiaro: “Qui voglio questo e lì quest’altro”».
Mentre iniettava inchiostro nelle mani del cestista, facendo apparire il simbolo del dollaro e la scritta money-bagz (riccone) sulla sinistra e due pile di banconote sulla destra, Balena si domandava come potesse reagire la Nba. Si trattava di un mondo che per quasi due decenni era stato dominato da Michael Jordan, prima solo come giocatore e poi come uomo immagine – con ingaggi annuali vicini ai trenta milioni, senza contare i fiumi di dollari provenienti dagli sponsor. Jordan era stato il volto della Nba di Stern, dicendo e facendo sempre le cose appropriate, in modo che gli altri non dovessero preoccuparsi più di tanto. Era gentile, disponibile, apprezzato dalla borghesia; amava il golf e i sigari, proprio come un qualunque agiato dirigente d’azienda o gli sportivi della domenica. Iverson invece indossava magliette extralarge e pantaloni sformati a vita bassa, come si usava nelle strade delle città americane. Camminando faceva ballonzolare diverse catene, e durante interviste e conferenze stampa aveva la tendenza a biascicare e imprecare. Ogni mese, il rookie acqua e sapone con il taglio di capelli impeccabile e la pelle immacolata si faceva un po’ più da parte, cedendo il posto a un giovane le cui sembianze adulte sarebbero state un murale dedicato alla sua infanzia, alla disperazione conosciuta in passato, all’ascesa prima agognata e poi conquistata. «La trasformazione era sotto gli occhi di tutti» mi ha confermato Todd Krinsky, il dirigente della Reebok che, insieme a Gaskins, lo aveva ingaggiato dopo il suo addio a Georgetown. «Ogni giorno sentivamo la stessa frase: “Oh, si è fatto un altro tatuaggio”».
E alla Nba non piaceva il messaggio implicito nel look di Iverson, sebbene stesse contribuendo a renderlo un eroe popolare dell’America nera. Quando nel gennaio del 2000 apparve sulla copertina di «Hoop», la rivista ufficiale della lega, i suoi tatuaggi furono ritoccati e cancellati. E anche l’orecchino e la catena d’oro che indossava al momento della sessione fotografica sparirono. Malgrado la Nba, sull’onda delle proteste, si fosse in seguito scusata pubblicando in un altro numero delle foto più autentiche, Iverson rimase comunque indignato. Come si presentava era una faccenda puramente personale, e anche un modo per mantenere un legame con gli uomini e le donne che erano scattati in piedi e avevano suonato i clacson quando aveva rifilato il crossover a Jordan – gli stessi che per primi lo avevano aiutato ad arrivare fin là, quelli che rappresentava, la nuova generazione per cui avrebbe voluto essere una fonte di ispirazione. «Avrebbero potuto prendere qualcun altro, se io non gli andavo bene» commentò all’epoca. «Io sono questo. La loro decisione mi ha fatto male, perché sul mio corpo ho il nome di mia madre, di mia nonna, dei miei figli e della mia fidanzata. È qualcosa di importante per me. Cancellarli è stato come darmi uno schiaffo in faccia». La Reebok, che aveva un approccio irriverente se paragonato a quello mainstream di Nike e Adidas, si mostrò comunque prudente e, per fugare i dubbi di alcuni dirigenti più anziani, organizzò una serie di focus group per capire se i timori della Nba fossero fondati, e se il look da strada del giocatore potesse allontanare potenziali clienti. La Reebok doveva prendere una decisione tra due rischi calcolati: da un lato appoggiare Iverson, e quindi dare battaglia alla lega, dall’altro chiedere a Iverson di ripulire la propria immagine, con il rischio che questa opzione si tramutasse in una dichiarazione di guerra nei suoi confronti. Quando ricevette i risultati delle ricerche, Krinsky osservò con sollievo che non era necessario percorrere la seconda strada. I clienti più giovani, infatti, specie in zone come Detroit, North Philadelphia e Los Angeles, si identificavano nel loro testimonial – molto più che con celebrità dall’aspetto acqua e sapone. Lui è me. Allen Iverson è me. Era questa la loro idea. Potevano immedesimarsi in lui, anche perché era un piccoletto che praticava uno sport riservato di norma ai giganti.
«Il modo in cui si atteggiava, come parlava, come si vestiva e si comportava con gli amici, la musica che ascoltava? Lui è me. Insomma, mi posso identificare in lui e posso aspirare a qualcosa di meglio perché anche lui era nato in un quartiere degradato, e ce l’aveva fatta».
Così l’azienda gli concesse la libertà di essere sé stesso, senza curarsi delle conseguenze. E se alla Nba non piaceva, beh, che andasse al diavolo. Jadakiss, un rapper apparso in uno spot della Reebok per le Iverson Answer 5, era uno di quelli che veneravano la nuova stella del basket, per il modo in cui era diventato un simbolo della propria epoca e per il posto che si era conquistato nel mondo.
«Scusa il francesismo, ma quando sei giovane, nero e te ne sbatti il cazzo, diventi una specie di eroe».